Quando Marx lesse il “Compendio del capitale” di Carlo Cafiero, pare abbia esclamato: «Finalmente ho capito il Capitale!». L’aneddoto è gustoso, probabilmente non è vero, forse è stato riportato con un po’ di enfasi da chi voleva dare una sottolineatura di importanza al lavoro che il libertario aveva svolto per riuscire a diffondere le tesi, le analisi e la sintesi che il Moro aveva inteso elaborare studiando a fondo le dinamiche del sistema di produzione che prevedeva ieri, e che prevede tutt’oggi, l’accumulazione indiscriminata di tantissime risorse in mano di pochissimi e l’impoverimento enorme di moltissimi.
Vero o meno che sia, ci serve per provare a spiegare come leggere e capire un’opera di scienza dell’economia e di analisi meticolosa tanto del passato quanto del presente dei movimenti globali, di grandi interessi e di strutturazione della società nel suo insieme, non sia affatto semplice e richieda non solo una accurata preparazione multilivello, dalla cultura generale a quella più particolare in specifici settori (storia, filosofia, economia, sociologia, antropologia, diritto, ecc.), ma di più ancora una attitudine critica profonda, una capacità di mettere in discussione anche i più solidificati principi in cui si è creduto o in cui si è fatto affidamento.
Marx, in fondo, avrebbe certamente accolto benevolmente uno studio portentosamente enorme – poiché veramente meticoloso e circostanziato, tutto corredato di riferimenti e note in grado di far ripercorrere al lettore lo stesso cammino intrapreso dall’autore – come quello di Thomas Piketty su “Il capitale del XXI secolo” (Bompiani, 2013, terza ristampa 2018). E’ un’opera nel senso più vetusto ma anche moderno del termine: è un lavoro faticoso, un impegno davvero enorme nella ricostruzione dello sviluppo capitalistico dal ‘700 in poi che, a differenza di ciò che era stato scritto prima di Marx ed Engels e della nascita del movimento operaio e dell’anticapitalismo, si è potuta giovare proprio del contributo imprescindibile del Moro.
E proprio grazie a “Il capitale” di Marx e al lascito delle tante altre sue opere, nonché delle molte scuole di interpretazione del così impropriamente detto “marxismo delle origini” (e di quelli cronologicamente conseguenti) di cui fa cenno anche Marcello Musto nel suo saggio “L’ultimo Marx, 1881-1883“, che uno studioso attento come Piketty ha potuto leggere l’evoluzione del capitalismo liberista in una chiave al tempo stesso storica e moderna, con una proiezione sul futuro che non ha i tratti dell’ipotesi ma della descrizione a grandi linee di quello che certamente avverrà.
Perché siamo nel campo delle scienze esatte, seppure non dentro ad un meccanicismo perfetto (che, del resto, è molto poco rintracciabile nel corso del cammino umano attraverso i millenni): la “mano invisibile” del mercato non permette di scoprirne tutte le determinazioni, le volontà e i tentativi di sopravvivere continuamente a sé stesso nei cicli di crisi che, tuttavia, si fanno sempre meno costanti, che divengono sempre più estemporanei e cronicizzano su una sommatoria di derive e di contraddizioni sociali difficilmente pronosticabili.
Piketty non scopre nulla di nuovo nell’analisi del capitalismo delle origini, e non perché tutto sia stato già detto o scritto senza lasciare spazio ad altre interpretazioni; semmai perché sono proprio quelle dinamiche del capitale studiato da Marx a ripetersi quasi uguali anche nell’oggi.
La crisi globale dell’economia, dopo i primi decenni di ingresso sulla scena mondiale del liberismo (per averne una avveduta descrizione si consiglia la lettura di un libro più “soft“: “Cronache anticapitaliste” di David Harvey), nonostante la tenuta dopo i mutamenti epocali accaduti in una vasta area del mondo che ha tentato “l’assalto al cielo” e il superamento del capitalismo, ha dovuto far registrare al capitalismo la riproduzione endemica di fattori di destabilizzazione che, né la grande industrializzazione diffusa né la crescita economica che ne è derivata, hanno potuto evitare.
Piketty è il primo, dopo tante analisi, anche di eminenti studiosi, storici ed economisti, sugli “errori” di Marx nelle “previsioni” del fututo che gli sono state attribuite da una lettura alla fine antimarxista (quanto voluta o meno lo si lascia alla singola interpretazione che ciascuno ne può dare), a non sostenere l’erroneità della analisi scientifiche del Moro; semmai a rivederle alla luce di un viaggio intercontinentale, attraverso mondi disparati, capitalismi nel capitalismo stesso, che da duecentocinquanta anni a questa parte si sono combattuti, compenetrati e hanno evitato comunque accuratamente di autodistruggersi.
Il risultato della elaboratissima analisi di Piketty è molteplice e non riconducibile ad una unica sintesi, a ciò che ci si potrebbe solo politicamente attendere da uno studio di così vaste proporzioni, che disamina il capitalismo sul lungo, medio e breve periodo nelle varie epoche in cui si è diffuso su tutto il pianeta e, quindi, ne va a stanare tutte le attuali contraddizioni che sono figlie di quella irrisolvibile per antonomasia: l’accumulazione infinita del capitale stesso.
A questo proposito, il nostro professore dell’ “École d’économie de Paris”, precisa: «Una crescita debole permette di equilibrare solo debolmente il principio marxista di accumulazione infinita: ne risulta uno squilibrio che, se non ha i connotati apocalittici sottolineati da Marx, ha comunque connotati assai inquietanti. L’accumulazione a un determinato punto si blocca…» per arrivare ad una destabilizzazione inevitabile.
E’ ciò che avviene negli Stati Uniti quando, nel biennio 2007-2008, con la famosa crisi dei “subprime“, è un intero mondo finanziario che conosce la prima, vera, grande crisi del capitalismo in epoca più che moderna.
Ma è ciò che avviene anche in determinati contesti del confuso capitalismo europeo, laddove il traino tedesco dell’economia può stabilizzarsi (almeno fino al periodo pre-pandemico), a scapito di economie deboli che diventano il punto di appoggio di una moneta che fatica ad imporsi a livello globale e che non è nemmeno lontanamente immaginabile come comprimaria del dollaro americano.
Piketty, dunque, ci mostra tutte le contraddizioni moderne del capitalismo, prendendo da Marx ciò che ancora oggi è spendibile sul piano della comprensione del “come siamo arrivati fino a qui“, come mai, perché e percome. Il futuro rimane in una sfera di cristallo imperscrutabile, proprio perché i dati su cui ci si basa tutt’ora ci offrono una prospettiva ma non la certezza di ciò che potrà essere.
Si fa tanto parlare, in tempi di governo meloniano in Italia, della meritrocrazia associata, in questo caso, alla scuola e al suo rapporto con il mondo dell’impresa e del lavoro. Nella parte terza del suo libro, Piketty ne tratta ampiamente, osservando questi fenomeni nei paesi più diversi: in Francia, ad esempio, i funzionari statali sono retribuiti similmente ai minitri perché – si sostiene all’epoca – chi non è stato fortunato ad avere in eredità un grande patrimonio (o chi come Napoleone è venuto fuori dalla piccola nobiltà di una piccola, bellissima isola che affaccia sul Mar Ligure) deve poter vedere valorizzato il proprio lavoro che svolge grazie al proprio talento.
Il premio diventa la fonte del privilegio e la meritocrazia espande la sua popolarità grazie ad una economia che si stratifica nelle società europee che hanno colonizzato e conquistato il mondo: compresa la Repubblica stellata che si appresta a divenire, sul finire dell’800, la prima grande potenza mondiale in aperta concorrenza con l’Impero britannico. Per ogni pagina di analisi storica del lavoro di Piketty, c’è un’altra pagina che considera le implicazioni che hanno avuto tutta una serie di rapporti sociali e civili, non trascurando quindi la sovrastruttura che deriva dalla strutturazione economico-finanziaria della società nel suo insieme.
L’ultima parte del libro è quella che potrebbe essere confusa, come al tempo di Marx, con una descrizione della società del futuro. Non si tratta di questo. E’ un tirare le somme di una odiernità complessa che necessita comunque di soluzioni immantinenti se si vuole evitare la catastrofe ecologica, sociale e, nel tenersi di questi macrofattori, di tutto un mondo che, seppure settorializzato in differenti modelli di evoluzione nazionale, faticherebbe a sopravvivere senza un mutamento globale dell’economia.
In sostanza, si deve non tornare allo “stato sociale” di sovietica memoria e, tanto meno, a tutti i tentativi che sono stati fatti per recuperare un po’ di giustizia sociale entro i cardini del capitalismo liberista. Serve costruire uno stato sociale dove la prima condizione per il suo sviluppo sia lo sganciamento dal modello di Stato voluto dal liberismo: quello “Stato forte” di cui Harvey parla nelle sue “cronache” e che, al contrario di quello che si potrebbe pensare nell’immediato, non è sinonimo di pubblico che prevale sul privato, ma l’esatto contrario.
Il “ritorno dello Stato“, nota giustamente Piketty, «non si pone nel primo decennio del XXI secolo come si poneva negli anni trenta» perché siamo immersi in una condizione del tutto differente proprio a riguardo dei rapporti tra istituzioni ed economia. Gli Stati Uniti, a questo riguardo, sono l’esempio più eclatante della teoria liberista sullo Stato: sono il paese in cui è meno presente il ruolo pubblico del governo e dove, proprio i conservatori più accesi, quelli del “Tea Party”, caldeggiano addirittura la cancellazione degli apparati che sovraintendono alla gestione economica delle risorse e si augurano la fine della Federal Reserve.
Non si tratta di contraddizioni solamente politiche; o, quanto meno, lo sono solo apparentemente. E’ invece la teorizzazione di un controllo deciso da parte del governo su una società lasciata in balia degli esperimenti liberisti in un imperfetto “disequilibrio” (come lo definirebbe Piketty) tra economia turbocapitalista e completa latitanza di protezioni sociali.
Esiste una questione “Stato“, poi, tanto nei paesi ricchi quanto in quelli poveri e non vanno affatto sottovalutate queste differenze abnormi di rapporti tra struttura e sovrastruttura, perché si finirebbe con il prospettare delle soluzioni parziali e osservare lo sviluppo ineguale del capitalismo solo dal punto di vista dei paesi cosiddetti “evoluti” in un contesto di velocizzazione delle mutevolezze globali che la pandemia e la guerra hanno accelerato prepotentemente.
Non esistono delle conclusioni dogmaticamente intese come verità cui aggrapparsi per uscire dalla spirale perversa del capitalismo moderno. Ma, certamente – osserva Piketty – un recupero di politiche in cui l’imposta fortemente progressiva sia uno dei cardini di una economia “anche” condizionata da una politica innovatrice e progressista, potrebbe far sperare in una redistribuzione della ricchezza nazionale e sovranazionale. Perché ormai si deve uscire dalla ristretta visione “patriottica” e nazionalista del conservatorismo e della reazione del nuovo millennio.
Per quanto le politiche economiche debbano farsi a misura di singolo paese, entro le cornici più ampie delle aggregazioni internazionali e intercontinentali, le singole spinte verso una riduzione della forbice delle diseguaglianze sono utili al contenimento di una serie di contraddizioni che sviluppano effetti che intaccano le democrazie liberali e le prosciugano dei loro valori fondanti e fondamentali.
L’auspicio è la fondazione di una “regola aurea” nuova che riguardi una “imposta mondiale sul capitale“. Pare una enormità, una utopia più grande ancora del comunismo inteso come un nuovo «movimento reale che abolise lo stato di cose presente», eppure è concretizzabile: perché esistono gli organismi mondiali che la possono far nascere, crescere e anche imporre se è il caso. E, a ben vedere, sarà proprio il caso se non si vuole credere che sia possibile passare dall’oggi al domani dal capitalismo ad una società esattamente opposta senza traumi tali da farla nascere già praticamente morta.
Non è un inno al gradualismo riformista, ma solo la presa d’atto dei fatti dell’oggi visti attraverso la lente di Marx prima e quella di Piketty poi, che non è la continuazione, che non potrebbe esserlo e che, per la teoria sociale che esprime non propone la rivoluzione contro la proprietà privata dei mezzi di produzione.
Ma sarebbe già un bel passo poter acquisire le conclusioni di Piketty come elemento di costruzione di una nuova teoria della politica di una sinistra diffusa: «La lezione complessiva della mia ricerca è che il processo dinamico di un’economia di mercato e di proprietà privata, se abbandonato a sé stesso, alimenta importanti fattori di convergenza, legati in particolare alla diffusione delle conoscenze e delle competenze, ma anche potenti fattori di divergenza, potenzialmente minacciosi per le nostre società democratiche e per i valori di giustizia sociael sui quali esse si fondano».
L’idea dell'”imposta progressiva annua sul capitale” potrà anche essere tacciata di “riformismo” dai puristi di un comunismo che si rintana in sé stesso e non vede oltre il proprio naso, ma rimane una conclusione ragionevole alla fine di uno studio veramente importante tanto sulle evoluzioni quanto sulle involuzioni del capitalismo. Sarebbe bene non disprezzarlo a priori, ma farne – proprio marxianamente – un elemento di apprendimento, di approfondimento e di studio continuo, per rendersi sempre più consapevoli del come, dove e cosa stiamo vivendo nei migliori dei casi, del come, dove e a cosa stiamo sopravvivendo nei tanti miliardi di altri casi…
IL CAPITALE DEL XXI SECOLO
THOMAS PIKETTY
BOMPIANI
€ 15,00
MARCO SFERINI
2 novembre 2022