Questa la notizia che arriva da Milano nel post Inter – Napoli, partita nella quale la tensione razzista ha suonato un diapason ad altissima frequenza.
“E’ morto per le ferite riportate un tifoso di 35 anni, investito ieri sera prima della partita Inter- Napoli a San Siro. Un episodio che aveva già un grave bilancio, con quattro tifosi napoletani accoltellati durante gli scontri. L’uomo si chiamava Daniele Belardinelli, era un ultrà di Varese con già un Daspo alle spalle e – stando alle prime informazioni – faceva parte del “commando” di un centinaio di tifosi interisti che hanno teso un agguato ai napoletani prima dell’arrivo allo stadio. Immediata la reazione delle forze dell’ordine: il questore Marcello Cardona, parlando di “azione squadrista” ha detto che chiederà di vietare “le trasferte dell’Inter fino alla fine del campionato e la chiusura della curva dell’Inter fino a marzo 2019, per 5 partite”. Tre ultrà interisti sono stati arrestati per rissa aggravata e lesioni.”.
Si è scritto in tante occasioni del calcio come metafora della vita “nel bene e nel male”, per denigrare gli eccessi di tifosi, dirigenti, atleti oppure per esaltare la virtù di una necessaria “moralità” della pratica sportiva.
Milano in fine di questo 2018 dimostra come il quadro sia mutato anche se in passato cose orribili ne sono accadute tante, dall’omicidio Paparelli a quello Spagnolo, fino alla “summa” rappresentata dalla notte dell’Heysel.
Oggi però il calcio appare come riflesso della scompaginazione sociale provocata dall’odio di massa, dal razzismo esercitato a piene mani nella quotidianità e anzi trasformato in emblema di una riscossa politica.
Il razzismo diventato una bandiera da sventolare in faccia a presunti nemici.
Il razzismo come identità.
Si è scritto di “individualismo difensivo”: queste esternazioni collettive come quelle viste in atto nella serata di Inter – Napoli fanno pensare piuttosto a un “individualismo della paura”. La stessa logica insita nell’idea della libertà di sparare per presunzione di legittima difesa.
Dobbiamo convincerci che ci troviamo a una svolta del quadro di relazioni sociali così come queste erano state tracciare nella “modernità”. Uno sfilacciamento morale e culturale che incide sulla vita quotidiana e pure sulle espressioni della politica, sull’idea di comunità.
Non c’è più spazi per l’appartenenza a precisi, anche se diversi, filoni di pensiero da confrontare in dibattiti seriamente appassionati. Non c’è più metafora: quello che accade sui campi di calcio è lo specchio di ciò che avviene giorno per giorno in una progressiva mimetizzazione collettiva al ribasso.
C’è stato chi ha pensato di collocarsi a questo livello per raggiungere il potere: una trasformazione riuscita nell’immaginario, buona per la costruzione di una nuova oligarchia che svolga funzione di “scena” con la recita dell’uomo qualunque che si sofferma a pensare per gli altri.
Intanto il modello offerto alle masse funziona e nell’incoscienza generale fa passare i messaggi dell’egoismo, del “prima noi”, dell’esercizio della sopraffazione.
Non s’individuano più i confini tra l’azione politica e la realtà sociale.
Nella confusione generale anche il calcio sfugge alla vecchia affermazione della “metafora” e diventa occasione per nascondersi in una notte nella quale davvero tutte le vacche sono nere, e i tempi della notte sembrano allungarsi all’infinito.
FRANCO ASTENGO
28 dicembre 2018
foto tratta da Pixabay