Nell’era della moneta fiat (moneta legale, non coperta da riserve auree o di altri beni), creare denaro – dal nulla – non costa niente. Basta la volontà.
Così, di fronte ad un’economia europea che ristagna, con l’inflazione ferma al palo (intorno all’1%), Draghi ha pensato bene di impugnare nuovamente il bazooka.
Un altro giro di acquisti di titoli di stato per un valore di 20 miliardi al mese senza darsi alcun limite temporale. Per le banche, una nuova boccata d’ossigeno: denaro fresco che contribuisce ad alleggerire il peso dei bond che hanno in pancia. Ma anche una garanzia per i governi, che potranno beneficiare di costi più bassi per il proprio servizio del debito.
E l’economia reale? Qui le cose si complicano.
Il primo programma d’acquisti, lanciato a marzo del 2015 (e protrattosi fino a tutto il 2018), si è tradotto in un’iniezione di liquidità nel sistema per un valore di oltre mille miliardi di euro. Un fiume di denaro.
Il bilancio per l’economia, tuttavia, è stato men che magro. Lo dicono le stesse stime poste a giustificazione del nuovo programma che dovrebbe partire già dal prossimo mese di novembre. Riflessione: se dopo un’iniezione di mille miliardi siamo ancora fermi al punto di partenza, qualcosa non ha funzionato. E non basta evocare la guerra dei dazi e il rallentamento del commercio mondiale.
C’entrano solo per una parte. Evidentemente, il problema è endogeno e chiama in causa i nostri fondamentali macroeconomici.
Alla base della scelta della Bce, come conferma anche il mantenimento di tassi negativi sui depositi (le banche, anziché trarne profitto, pagano per tenere i soldi parcheggiati presso la Bce), c’è l’idea che il rilancio dell’economia passi da una maggiore propensione al credito da parte delle banche.
Quindi, più liquidità (il piano prevede anche un’estensione temporale dei prestiti a tasso agevolato per le banche) e disincentivo a tenere fermi i denari nei forzieri di Eurotower.
Dov’è l’errore?
Nel trascurare i problemi derivanti da una domanda aggregata che rimane troppo debole. È la trappola di Keynes: l’acqua è tanta, ma il cavallo di bere non ne vuole sapere. Hai voglia di inondare le banche di soldi, se i salari sono troppo bassi, se la disoccupazione è alta, se le disuguaglianze aumentano, se gli investimenti pubblici languono.
È ormai empiricamente provato: politiche monetarie espansive non accompagnate da politiche fiscali dello stesso segno non risolvono i problemi economici innescati da una crisi o dal prolungarsi di un quadro di sostanziale stagnazione.
Torna la questione dell’insostenibilità della filosofia del rigore che sta alla base delle regole di bilancio europee. Nei giorni scorsi, parlando al Forum Ambrosetti a Cernobbio, il vicepresidente della Bce Luis de Guindos ha dichiarato: «Chi ha spazi fiscali li usi». E chi non ce li ha? Un’uscita infelice, a ben vedere. Piuttosto sarebbe il caso di riflettere non solo sull’allentamento del patto di stabilità (pare che finalmente la questione sia sul tavolo della nuova Commissione), ma anche su una diversa incanalazione del denaro di banca centrale, per sostenere politiche di investimento e per centrare l’obiettivo della piena (e buona) occupazione.
C’è bisogno della politica, insomma. Il «ci pensa Draghi» (o chi verrà dopo di lui) non è più accettabile visti i limiti, oggettivi, di una politica monetaria del tutto autonoma dalla rappresentanza democratica, slegata dall’azione e dalla visione dei governi. Solo il coordinamento tra autorità monetaria e autorità di bilancio può produrre un’inversione di rotta.
LUIGI PANDOLFI
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