Il riarmo europeo non è solamente una mossa politica in chiave antirussa. Via via che si succedono le dichiarazioni e si producono gli atti concreti che porteranno alla rimodulazione bellica nel Vecchio continente, diviene sempre più evidente e chiaro che il presupposto è un passaggio di fase dall’Europa fondata sui capitali e sulla finanza, sul monetarismo e sull’import-export ad una che non trascura tutto questo ma che vi aggiunge il paradigma ormai primario della conformazione istituzionale ad una idea di conflitto permanente.
Ottocento miliardi di euro spesi nella cosiddetta “difesa” dei Ventisette (con una Ungheria sempre più recalcitrante, visti i legami del governo Orbán con Putin) sono molto di più di quello che gli attori del multipolarismo mondiale mettono nei loro bilanci alla stessa voce. Lo scenario è quello prospettato di una Russia disposta al conflitto armato su vasta scala: ben oltre i confini dell’Ucraina invasa nel febbraio del 2022 dopo un decennio di guerra civile in Donbass.
Esperti di vario colore politico, pur non convenendo su tutto, si dicono abbastanza certi che Putin non si fermerà qui e che farà marciare i suoi eserciti contro i Paesi Baltici e poi magari anche contro qualche altro paese europeo estraneo ai vecchi confini sovietici. Ursula von der Leyen cambia così il nome al piano di riarmo a tutto spiano: da “ReArm Europe” a “Readiness 2030“: perché quella ristrettezza della pianificazione della difesa, impostata solo sulla filiera produttiva di nuovi armamenti sia leggeri sia pesanti, viene sostituita da una riconfigurazione delle vite dei popoli europei.
Non solo le industrie dovranno passare da una produzione civile ad una militare, ma le infrastrutture in generale si dovranno adeguare ad uno stato di guerra in cui l’Unione Europea viene posta prima ancora che la stessa immaginazione sia in grado di ipotizzare anche solo lontanamente un atteggiamento ostile prima e di conflitto poi da parte della Russia contro gli Stati della UE. Questa non è lungimiranza della classe dirigente di Bruxelles: somiglia di più ad un panico che si sta tentando di gestire per recuperare un ruolo tanto entro i confini dei singoli paesi quanto nei confronti delle altre potenze.
Il riarmo europeo diventa necessità impellente nel momento in cui il periodo di osservazione della nuova amministrazione trumpiana termina: ci si è resi conto che il magnate-presidente non è disposto a concedere la parità politica ad una aggregazione sovranazionale che viene invece intesa come gregaria e completamente dipendente dal volere di Washington. Una mutazione genetica inserita nel DNA del nuovo corso MAGA di una potenza statunitense che mira all’Oriente, che punta alla competizione altamente conflittuale con la Cina e che, quindi, intende smarcarsi dall’asfittico teatro di guerra europeo.
Che l’Unione se la cavi da sola, ma nel dopoguerra: la fine delle ostilità la gestiscono e la gestiranno Trump e Putin. Nessun altro avrà ruoli equipollenti e, al massimo, i paesi che ospiteranno i colloqui per un cessate il fuoco prima e un piano di uscita dal conflitto poi, saranno solamente degli spettatori senza alcun ruolo di mediazione al riguardo. Per venire incontro alle sensibilità dei singoli Stati della UE, la Commissione potrà anche cambiare il nome del piano, ma sempre di riarmo a tutto spiano si tratterà. La Germania, che doveva stare nella nuova Europa della pace e dei popoli, ha finito con l’essere nuovamente una delle capofila del furore bellico.
Si prende a pretesto la difesa dell’Ucraina per cercare di dare al quasi fallimento dell’Unione Europea una mite, timida speranza di recupero delle proprie ragioni esistenziali: tra queste vi era, almeno nell’intento dei fondatori (a partire dall’idea più socialmente “rivoluzionaria” del tanto citato “Manifesto di Ventotene“), una disposizione al controllo vicendevole, un termine di garanzia che riguardasse proprio la compenetrazione delle singole economie in una organizzazione transnazionale tanto dei rapporti pubblici quanto di quelli privati. Quell’Europa sociale e civile, che voleva essere l’antidoto ai nazionalismi, oggi arranca dietro allo stesso spettro del suo rigor mortis.
Emmanuel Macron si era affrettato, non molto tempo fa (eravamo nel 2019, quindi tre anni prima rispetto alla guerra scatenata da Putin), a solennizzare con una certa melanconica depressione politico-militare che il senso dell’esistenza della NATO era praticamente venuto progressivamente meno e che l’Alleanza stava morendo “cerebralmente” proprio grazie al sopraggiungere impetuoso di una nuova concezione nordatlantica. Il bidenismo ha sempre guardato con un certo sospetto all’idea macroniana di un esercito europeo in sostituzione di quello che, almeno un tempo, era definibile come l'”ombrello” difensivo dell’Alleanza atlantica.
Quegli “scopi strategici” che Parigi non riusciva ad individuare nella nuova politica di gestione della NATO, si sono rivelati alla fine il tentativo della Casa Bianca di spostare verso Est l’asse degli interessi americani, usando l’Europa come un terreno di confronto e di scontro, come base militare e niente di più per parametrarsi con l’emergere della Russia al rango di nuova potenza tanto militare quanto commerciale e finanziaria nella fase multipolare che non è sfuggita certo all’analisi delle grandi centrali di protezione del capitale internazionale (Fondo Monetario e Banca Mondiale tra gli altri).
Parigi e Berlino hanno stabilito quindi una reciprocità di interessi che ha inteso e voluto esplicitamente considerare la guerra in Ucraina come un nuovo banco di prova per un riarmo europeo pensato ben prima degli eventi del febbraio 2022. La fase intermedia tra il triennio precedente l'”operazione militare speciale” putiniana e l’attuale disfatta occidentale sul piano tanto delle sanzioni alla Russia quanto direttamente sulla linea del fronte da Kharkiv fino a Kherson, è servita a verificare la possibilità di una azione autonoma della UE sia sul versante meramente politico sia su quello più propriamente militare e che riguardava l’invio di continui armamenti al governo di Kiev.
Tutti i pacchetti di sanzioni approvati e messi in pratica contro Mosca sono forse serviti a far crollare – come affermavano von der Leyen, Macron e Scholz – la capacità economica russa di gestire una economia di guerra interna e un contraccolpo sulla sua capacità di produzione di armamenti e di rifornimento delle truppe al fronte, oltre che di difesa dagli attacchi sul suo territorio? No. Nemmeno la rivolta della milizia Wagner ha messo in crisi il regime di Putin che, pur avendo passato qualche ora al cardiopalma, ha finito con il rafforzarsi ulteriormente sul piano politico, consolidando un consenso popolare troppo sbrigativamente liquidato come operazione del regime.
Ci si può quindi domandare, almeno sul versante europeo, se davvero l’Europa dei Ventisette voglia veramente la pace nel nome della democrazia. Ma di quale pace poi si parla? A quale democrazia si fa riferimento? Una pace che imponga a Putin il rientro nei confini precedenti lo scoppio della guerra è oggettivamente irrealizzabile. Lo stesso presidente russo ha tenuto a precisare che, se l’Ucraina non accetterà l’annessione dei cinque oblast conquistati dal 2014 in avanti (quindi Crimea, Kherson, Zaporizzija, Donetsk, Lugansk), rivendicherà per Mosca l’intero storico territorio della “Nuova Russia” (quindi anche Kharkiv, Odessa, Mykolajv e Dnipropetrovs’k).
Dovrebbe apparire abbastanza chiaro ai presidenti e ai capi di governo europei che l’asse Trump-Putin non lascia alcuno spiraglio di trattativa in merito ad una prosecuzione della guerra da parte di Kiev con il solo sostegno della “coalizione dei volenterosi“. La vittoria russa mette in forse ogni applicazione del diritto internazionale non meno di quanto abbiano fatto, in tal senso, tutte le guerre promosse dagli Stati Uniti d’America nella stagione del terrorismo qaedista. Le risoluzioni dell’ONU erano un palliativo giustificazionista di una ipocrita “esportazione della democrazia” sotto cui si celavano gli interessi imperialisti nei confronti di vaste aree del pianeta: prima fra tutte la regione mediorientale.
L’Ucraina in quanto tale è al centro di una trasformazione politica, sociale e strategica che ne fa uno Stato privo di una reale consistenza sul terreno della trattativa: non è forse stato abbastanza illuminante il trattamento parossistico riservato da Trump e Vance a Zelens’kyj per mostrare al mondo chi davvero comanda e può imporre la sua di pace. La frase più ricorrente in quella tragica finzione di conferenza stampa era: «Non hai le carte per fare il duro!». Ed effettivamente, a parte l’Europa che tenta di strumentalizzare il dramma ucraino per ritagliarsi ancora uno spazio di competitività liberista nel multipolarismo globale, nessuno sostiene le istanze di una “pace ucraina“.
Si parla sempre più spesso di “pace ingiusta” che, nonostante tutto, è sempre preferibile ad una guerra ingiusta. Ma non è certo una vittoria della diplomazia: quando ci si arriverà, si sarà innanzi ad un accordo tra due imperialismi che si sono fronteggiati per tre anni sul campo e ora, per un comune interesse di strategia geopolitica, si spartiscono le sfere di influenza nel Vecchio continente, infischiandosene beatamente di quello che si pensa a Bruxelles. Francia, Regno Unito e Germania non staranno a guardare. Ma, volenterosi o meno, potranno fare ben poco,
Per usare la metafora trumpiana, chi da le carte qui sono Putin e gli Stati Uniti del nuovo corso MAGA. Ed allora la domanda che sorge spontanea è: che cosa avrebbe potuto fare l’Europa per marcare meglio un ruolo quanto meno autonomo in questa fase di guerra quasi mondiale? L’ostinata difesa delle prerogative del governo ucraino non è servita a garantire uno sbocco favorovele del conflitto, almeno per quel che riguardava l’interpretazione tutta occidentale dello stesso. Non siamo oggi alle soglie di una trattativa a tre. Decidono Washington e Mosca. Pechino osserva da lontano e il resto del mondo ha tanti altri problemi da risolvere…
L’Europa dei liberisti a tutto spiano è crollata su sé stessa: qualcuno dice che si deve ripartire dalla strutturazione di un esercito europeo. Questo, secondo Romano Prodi, sarebbe potuto essere quel deterrente necessario per impedire a Putin di invadere l’Ucraina. Difficile poterlo dire oggi. Ma non sembra che le minacce (perché di questo si tratta) dei capi di governo europei in questo senso abbiano fatto desistere il presidente russo dal continuare una guerra che, è bene ricordarlo, continua anche ora. Hanno ragione quindi nel momento in cui prospettano una minaccia globale russa nei confronti dell’Europa priva di una vera difesa militare?
Parzialmente. Perché se Zelens’kyj non ha le carte per poter mostrare i muscoli e trattare a suon di pugni sui tavoli della diplomazia che non lo prende, tuttavia, in considerazione, l’Europa ne ha ancora meno. Non fosse altro, l’Ucraina può dire: noi siamo il paese in guerra, il paese invaso e abbiamo il diritto di prendere parte alle trattative per il cessate il fuoco prima e la pace poi. Ma l’Europa priva di una politica estera comune, che ruolo può reclamare? La percezione che si ha in questi casi corrisponde alla realtà oggettiva dei rapporti di forza interstatali e multipolari: chi conta sa che l’Europa conta sempre meno.
Ecco fino dove siamo stati condotti da chi magnificava la UE come il prodotto ultimo e consolidato di una confederatività di interessi comuni, mentre era il luogo politico-economico-finanziario in cui gli Stati più ricchi si avvantaggiavano nella contesa mondiale rispetto a quelli più in difficoltà. La vicenda greca rimane, da questo punto di vista, veramente emblematica. L’Europa non finisce, ma per ora fallisce tutti quegli obiettivi di unione democratica, popolare e civile come risposta alla novecentesca degenerazione nazionalistica, ai tanti movimenti suprematisti che si sono succeduti più o meno evidentemente.
Chi rivendica un ruolo dell’Europa oggi, dovrebbe mettere al centro dell’agenda di un programma di riscrittura dei valori e delle politiche attuali anzitutto il disarmo e, contestualmente, un abbandono delle agende di austerità e dei programmi di utilizzo del debito comune come cardine dello sviluppo improntato all’ipocrisia difensiva. Non si riparte da un esercito comune europeo, ma da una implementazione delle misure sociali, delle reti di protezione dei più deboli che, altrimenti, sosterranno sempre più energicamente le forze nazionaliste che faranno definitivamente implodere la vergogna attuale che è l’Unione Europea.
Quella del riarmo, della guerra, della condiscendenza senza alcun dubbio nei confronti dell’espansionismo atlantico. Quella che scopre di essere ancora, perché mai veramente se ne è affrancata, una dépendance dell’impero americano, nonostante i rigurgiti di autonomismo francesi e, con qualche differenza per il passato novecentesco, anche tedeschi. Ottocento miliardi di euro in armi per essere pronti nel 2030 a difendersi dall’espansionismo putiniano. E nel frattempo? I poveri saranno sempre più poveri, i mercanti di armi e logistiche varie saranno sempre più ricchi.
Questa non può essere l’Europa per cui scendere in piazza invocando libertà, democrazia, giustizia e pace. Questa è l’esatto opposto: un continente che vuole mantenere nel privilegio l’impresa e penalizzare sempre e comunque il mondo del lavoro e del disagio sociale, stigmatizzando ogni rivendicazione in materia di diritti altrettanto tali. Se vi si aggiungono poi le contraddizioni interne sui diritti altri, come quelli civili, nel caso magiaro, è sempre più difficile pensare ad un “governo europeo“, a quegli “Stati Uniti d’Europa” vagheggiati dai centristi di casa nostra.
Questo è tutto. O quasi. Per ora. Altre mortificazioni sono, purtroppo, certamente all’ordine del giorno. Tutto, si intende, in nome della grande civiltà occidentale.
MARCO SFERINI
22 marzo 2025
foto: screenshot ed elaborazione propria