E’ un’estate piena di disastri: inumani, antisociali, antiambientali. Seppure questi ultimi, come il tremendo terremoto che ha colpito il centro Italia questa notte, non possa essere propriamente definito tale: la natura non fa mai nulla contro sé stessa, eppure ci uccide con i sommovimenti delle faglie sottoterrestri, con tutti i fenomeni di una portata troppo grande per essere controllati dall’uomo.
Amatrice, Accumoli e altri piccoli paesi tra Lazio, Marche e Umbria sembrano essere stati cancellati dalle mappe dopo le tre scosse di magnitudo 6, 5.1 e 5.4 che hanno percorso in superficie i territori del centro e causato già più di venti vittime. Il cordoglio va alle famiglie, la vicinanza va a tutti i cittadini che sono nei luoghi del disastro.
Commentare oltre sarebbe solo mera speculazione, vuota banalità speculativa.
Per questo, vorrei fare una riflessione su altri terremoti, su quelli che non lasciano vittime sul terreno ma che ledono profondamente la democrazia del nostro Paese.
Gli esponenti renziani del PD (la specificazione è utile e necessaria per distinguere il fronte del NO rappresentato da D’Alema e da quanti lo seguiranno in questa giusta battaglia antioligarchica, per il mantenimento del regime democratico e costituzionale espresso nella centralità del ruolo parlamentare) ci dicono che la riforma costituzionale semplificherà i processi di formazione delle leggi e finalmente darà al Paese una stabilità degli esecutivi che potranno così durare in carica cinque anni. Detto e garantito.
Ci dicono, altresì, che qualunque proposta di legge elettorale sarà passata, con la riforma, al vaglio sempre e comunque della Corte Costituzionale che ne valuterà i crismi di compatibilità con la Carta.
Che volere di più? Leggi facilmente approvabili, Parlamento “snello”, governo efficiente e garanzie democratiche.
Sembrerebbe tutto perfetto. Invece si tratta di una congiunzione di attribuzione di ruoli e poteri che apparentemente, e sapientemente propagandati, vanno a definire i nuovi confini dei poteri dello Stato dando al governo un ruolo preminente e superiore rispetto a quello attuale del Parlamento.
La forza che prevarrà nel voto, con l’Italicum, avrà la Camera dei Deputati completamente nelle proprie mani, detenendone, anche con una percentuale inferiore al 30%, il 54% dei seggi.
Una maggioranza assoluta che, di fatto, renderà il ruolo delle opposizioni inutile, vacuo, quasi privo di significato. Una presenza sui banchi, una testimonianza e niente più.
Diverso sarebbe se, come un tempo, con la “santa” proporzionale pura, temibilissimo nemico del PD e di Renzi (che perderebbe sonoramente le elezioni se davvero un voto valesse un voto, senza premi di maggioranza di sorta), si avesse un Parlamento dove veramente si tornasse alla costruzione delle maggioranze attraverso il dialogo tra le forze che hanno ottenuto rappresentanza a Montecitorio e anche a Palazzo Madama.
Ma la legge elettorale proporzionale non viene nemmeno presa in considerazione come ipotesi di ritorno ad un regime democratico compiutamente tale e degno di questo nome.
Anche gli oppositori della riforma renziana, si lanciano in discussione su alternative fondate sempre su sistemi di tipo maggioritario, su doppi turni, ballottaggi e amenità varie che hanno finito col rendere l’Italia un Paese privo di linearità della delega nella sua espressione del voto popolare: a ciascuna tornata elettorale il suo sistema. Quindi una differenziazione che ha soltanto prodotto confusione, incertezza e clientele nei singoli momenti di confronto politico: dal localissimo comune piccolo dell’ultima valle italica fino all’elezione del sindaco delle città più importanti del Paese.
La favola del presidio democratico risiedente nella riforma renziana della Costituzione è talmente una bugia così evidente che il solo provare a trasformarla nel suo contrario, in una verità concreta e verificabile, è un paradosso degno della migliore antica filosofia greca. Zenone vi sarebbe andato a nozze. Peccato che Zenone non possa studiare la struttura dell’impianto cervellotico di una destrutturazione della democrazia che i greci amavano e coltivavano, seppure con enormi differenze da città-stato a città-stato.
La lotta per la vittoria del NO deve prima di tutto parlare con semplicità e con argomenti comprensibili a chi non ha gli strumenti per capire i tecnicismi renziani presentati come evoluzione della società e della politica italiana verso una repubblica saturniana, da età dell’oro in tema di diritti sociali, civili, libertà di ogni genere.
Ma al dramma sociale del lavoro che non esiste, dei voucher che sono ormai il sistema di sostituzione del salario per le giovanissime generazioni che vengono così sfruttato oltre ogni immaginazione possibile, si vede affiancare il dramma di un deperimento della democrazia repubblicana: stato sociale e stato civile si compenetrano e se viene meno il primo, necessariamente è perché il secondo viene trasformato in un autoritarismo che rappresenta gli interessi della classe dirigente.
La battaglia per il NO, la vittoria del NO non sarà soltanto l’evitamento di uno stravolgimento dei princìpi costituzionali che garantiscono la formalità della democrazia italiana, ma sarà anche una barriera per eventuali nuovi attacchi ad una fascia di tutele sociali fortemente indebolite e tutte da ricostruire.
Farlo è la migliore garanzia di protezione della vita anche civile di tutte e tutti: lavoratori e non. E i “non” sono, purtroppo, la maggior parte della popolazione immiserita di un Paese che odia i migranti perché si ferma alla superficie dei problemi e non scende nel profondo buio di una carsica trasformazione della Repubblica Italiana in una repubblica autoritaria senza l’apparenza dell’autoritarismo stesso.
MARCO SFERINI
24 agosto 2016
foto tratta da Pixabay