Con un favore non complice della notte, ma purtroppo inevitabile nell’alternarsi del tempo, due giovani di sedici anni si aggirano per le vie di Pomigliano d’Arco. I giornali scrivono che fanno parte di una banda, ma in quel momento sono soltanto loro due. Diventeranno i presunti assassini di Friederick Akwasi Adofo, un 43enne originario del Ghana arrivato in Italia un po’ di tempo fa. Aveva seguito dei percorsi di inserimento e poi era stato lasciato da solo ad affrontare una vita fatta praticamente di elemosina.
La sua presenza in città era discreta. All’angolo di una chiesa a chiedere degli spiccioli oppure nel dare una mano alle persone più anziane per portare le buste della spesa dal supermercato fino a casa.
Gli volevano bene un po’ tutti, dicono le cronache. E certamente non rientrava nello stereotipo malevolo del migrante aggressivo, del mendicante molesto che le destre e le persone con una buona dose di pregiudizi sono pronte a sciorinare nei commenti e di persona quando si tratta di commentare fatti di cronaca.
Friederick se ne stava sotto ad un porticato della chiesa quella notte. Dormiva o provava a prendere sonno. I due ragazzi si sono avvicinati e – dalle ricostruzioni fatte grazie anche ai video che sono stati reperiti dalle telecamere in zona – lo hanno aggredito con una violenza cieca, crudele, gratuita, futile. Tutti, o quasi, termini che vengono adoperati anche dalle forze dell’ordine nel descrivere ciò che è avvenuto.
I due presunti assassini lo lasciano a terra in una agonia che durerà fino al mattino, quando sarà trovato in una stato di premorte dai primi passanti.
Non ci sarà nulla da fare per Friederick Akwasi Adofo. La sua vita finirà così, per la cattiveria scaricata sul suo corpo da due minorenni che probabilmente in quel momento della notte lo hanno assimilato a qualcosa più che a qualcuno e hanno pensato di potersi forse divertire uccidendo. Oppure di dare sfogo a bassi istinti di odio, di razzismo, di ignoranza.
Perché questa è l’ennesimo episodio di cronaca nera in cui si mescolano i fattori più ancestrali di una lontananza da una educazione civica e civile, da una cultura minima della socialità e dell’empatia che sono la firma del fallimento tanto collettivo quanto istituzionale nei confronti di un ambiente dove il degrado avanza spaventosamente.
Dove la povertà è il terreno fertile della frustrazione, dove la disoccupazione e la precarietà diventano quasi punti di contatto per una teoria parapsicologica, per una spiegazione irrazionale, o meglio, irrituale e anticonvenzionale di una società che è tutto tranne che quello che dovrebbe essere.
Eppure la morte di Friederick Akwasi Adofo non sta nella distopia di una irrealtà reale, di un’assurdità leggibile soltanto con gli occhi della straordinarietà.
La sistematicità è l’elemento più fastidioso, inquietante e pericoloso che si registra nel mettere in fila, uno per uno, fatti di questo tipo che si verificano dove ciò che manca prevale su ciò che c’è: mancano i diritti e, di conseguenza, vengono meno anche i doveri. Manca uno straccio di stato-sociale e, conseguentemente, manca qualunque fiducia nei confronti delle istituzioni.
Manca la scuola, mancano il lavoro e le garanzie minime per un futuro di giovani generazioni che finiscono, quasi meccanicisticamente, per arruolarsi nell’esercito della malavita riorganizzata ogni volta attorno alla superficialità profonda della disperazione e dell’alienazione che viene prodotta dal vuoto pneumatico di una esistenza passata a bighellonare, ad avere come punti di riferimento famiglie già ampiamente devastate dall’apatia, dalla rassegnazione, dal degrado morale, civile, sociale e, soprattutto, quindi, economico.
La morte di Friederick Akwasi Adofo è un’altra fine di una vita che ben presto ci dimenticheremo.
Perché molte volte ci abituiamo alla ripetitività delle tragedie, ad una specie di culturalizzazione delle stesse, facendole entrare nella nostra percentuale quotidiana di pervasività tanto delle emozioni quanto dei fenomeni che rientrano nei tratti distintivi della nazione, del Paese, dell’Italia sempre più abbruttita da controriforme che fomentano l’odio, la discriminazione, la paura e l’ostilità per ciò che non si conosce appieno.
Sarà la magistratura a dare una verità almeno giuridica a questo omicidio e a spiegarci quanta violenza c’è stata, quanto disprezzo per il negro di turno, per l’ennesimo accattone raggomitolato per strada su qualche cartone improvvisato come letto di veramente poca fortuna quei due ragazzi abbiano avuto per lanciarsi contro di lui e farne un cadavere.
Ma non possiamo esimerci e negarci un giudizio che tocca le corde di un sentimento diffuso, anche se per fortuna non maggioritario e prevalente nella popolazione, che riguarda la stigmatizzazione delle differenze piuttosto che la loro valorizzazione.
Il tipo di incultura che oggi pretenderebbe di sostituirsi a quella sociale e solidale di un tempo, può avere spazio soltanto in un ambiente decostituzionalizzato; là dove i valori di reciprocità, di uguaglianza e di condivisione tanto delle ricchezze comuni quanto dei disagi e delle avversità (come nel caso dell’Emilia Romagna) vengono meno, lì, esattamente lì, si apre un varco pericolosissimo per la penetrazione dell’antipatia, dell’osservazione del mondo con gli occhi della sfida permanente.
L’aggressività è il prodotto di questa tensione emotiva che è, a sua volta, il frutto avvelenato di una povertà oltre che morale anche sostanziale, materiale, concreta. Giovani che non studiano, che sono al soldo della criminalità, di bande piccole, medie o grandi, di più ramificate organizzazioni che controllano e gestiscono traffici di ogni tipo, consegnano a questo Paese il suo ennesimo fallimento su molti, troppi piani.
I salari europei più bassi e fermi da tempo sono quelli italiani. Le regioni europee con più indigenza, con un vero e proprio stato di consunzione sociale sono quelle del nostro Mezzogiorno e quelle della Grecia meridionale.
Un triste primato, pensando alla patria della democrazia, alla culla della civiltà occidentale – di cui tanto si sciacquano la bocca gli oratori delle destre (e non solo…) – che proprio dagli achei e dalle loro colonie ioniche in tutta la fascia dello Stivale tra Puglia e Sicilia ha preso origine e trasformato il mondo allora conosciuto.
Il federalismo come lo si intende ancora oggi dalle parti della maggioranza di governo, almeno quello propugnato dall’autonomia differenziata su spinta propulsiva di un leghismo che occhieggia sempre un po’ al secessionismo, non fosse altro de facto (peggio di quello de iure), è una minaccia di inasprimento di differenze sociali dove l’ascensore del nord è ai piani medio alti e quello del sud è sprofondato, sfracellandosi al suolo.
La morte del povero Friederick dovrebbe rappresentare plasticamente questo dramma generazionale, ormai sedimentatosi da troppo, lungo tempo. Dovrebbe avvertirci che non basta rubricare il tutto ad una episodica estemporaneità di un comportamento scriteriato di due ragazzi perdinotte e perdigiorno.
Dovrebbe. Ma anche questa volta non sarà così. Perché la corrosione è andata troppo avanti e il guasto non è riparabile se non con un capovolgimento totale di tutte quelle politiche che hanno finanziato più che altro la collusione dei poteri, le commistioni tra pubblico e privato in un meridione preda di un brigantaggio tutt’altro che resistente al colonialismo nordico sabaudo di fine ‘800.
La mafia e le sue consorelle si sono trasformate negli avamposti di un liberismo predatorio che ha amici potenti nelle fila di un sovrastrutturalismo istituzionale dedito alla tutela dei privilegi senza alcuna remora. E tutto nel nome del “bene comune“, della virtuosità dei conti, del futuro del Paese e delle giovani generazioni.
Verba vana. Non fosse che nelle zone dove il degrado per ora la vince, sono tanti gli esperimento di ricollettivizzazione, di partecipazione, di riappropriazione degli spazi abbandonati e, quindi, di creazione di una alternativa dal basso. Quella che le istituzioni a volte leggono come una estremizzazione delle soluzioni a problemi plurigenerazionali e interclassisti. Ceti medi e sottoproletari moderni possono tirarsi fuori da questa cloaca e rappresentare una avanguardia.
Una dimostrazione della voglia di non rassegnarsi al brutto, al tremendo, al terribile, alla cronaca nera fatta di omicidi, di stupri, di rapine, di pestaggi e di risse tra bande, di spaccio di cocaina, di prostituzione e di sfruttamento dei corpi: dalle alcove dei motel ai sedili delle auto, dalle corse dei riders ai campi dove si crepa di infarto, ora in estate, a raccogliere pomodori sotto un sole che ti apre appunto il cervello in due come un cocomero maturo.
Nel sud d’Italia ci sono i tanti Friederick che campano alla giornata e i tanti giovani che diventano presunti assassini e che campano anche loro alla giornata. Non sarà la soluzione a tutti questi drammi, ma se già si vivessero, gli uni verso gli altri, come dalla stessa parte della barricata, qualcosa forse potrebbe cambiare. A discapito soprattutto della politica nazionale e delle sue ramificazioni territoriali. Il maggiore ostacolo all’emancipazione sociale, civile e morale.
MARCO SFERINI
22 giugno 2023
foto: screenshot tv