Contiamo giustamente i giorni. Sono cinquanta da quando la guerra ha fatto irruzione materialmente nel territorio ucraino e nelle vite del popolo che lo abita (e lo abitava… visti milioni e milioni di profughi dispersi in mezza Europa). Cinquanta albe e cinquanta tramonti con strategie belliche che si declinano in tattiche e tatticismi da entrambe le parti, con richieste di armamenti che aumentano. Tanto le richieste quanto gli armamenti, si intende.
A risentire tutti i messaggi di Zelens’kyj, le sue lagnanze presso tutte le assemblee parlamentari e le organizzazioni internazionali e, non per ultimi, gli anatemi lanciati verso chi non avrebbe sostenuto l’impegno del popolo e dell’esercito contro l’invasore russo, l’impressione è che di armi ora in Ucraina ve ne siano persino troppe.
L’affondamento dell’ammiraglia della marina russa nel Mar Nero, la “Moskva“, costruita – ironia della sorte – proprio nella Mykolaïv assediata dai soldati del Cremlino, non farà fare un salto di qualità alla controparte ucraina nel sbaragliare l’invasione nella sua trincea più agguerrita, quella del Donbass e del sud, ma, se confermata, rende più che evidente la presenza militare sul terreno, per interposte batterie missilistiche, tanto della NATO quanto degli Stati Uniti d’America.
Dopo cinquanta giorni di guerra, dopo il riposizionamento delle truppe russe dal fronte nord alla tenaglia che circonda Kharkiv, il Donbass e le regioni meridionali ucraine, non si sono soltanto consolidate le posizioni di eserciti, mezzi corazzati, missili e droni dei più moderni. E’ il mondo intero che ha preso posizione nello scacchiere bellico e gioca la sua cinica partita in tutto e per tutto. Non si parlerebbe di “possibile vittoria degli ucraini” se dietro al governo di Kiev non vi fosse quasi l’intero Occidente sul piano militare e, certamente, tutto quanto il patto nord-atlantico su quello più sottilmente percettibile della deterrenza, della prevenzione di un allargamento del conflitto.
Siamo passati, nel giro appunto di un mese e mezzo, dalla quasi certa vittoria di Putin, che avrebbe dovuto schiacciare la capitale, far piazza pulita del governo del comico populista prestato alla politica (e per questo eletto con grande esercizio democratico…), al ventilare una possibile disfatta russa, un arrivare ad un tavolo delle trattative da una posizione di netta debolezza.
Però di trattative, per l’appunto, non si parla più ormai da giorni e giorni, mentre cinquanta restano sempre quelli di guerra, con colonne di carri armati, ben più lunghe di quelle avvistate a nord di Kiev, che stanno rotolando i loro cingoli sulle strade che portano dalle autoproclamate repubbliche del Donbass nelle zone più interne di una Ucraina che si fa pianura, che diventa molto più difficile da difendere in campo aperto. Le imboscate difensive e gli attacchi da guerriglia sudamericana lì non possono funzionare anche se l’Occidente ti ha armato di tutto punto.
Qualcuno deve averlo spiegato a Zelens’kyj, perché nelle sue comparse quotidiane in televisione adesso reclama una forza armata uguale e contraria a quella che i russi mettono sul terreno pianeggiante dei grandi campi di grano. Le montagne del Donbass sono servite fino ad ora da avamposto e trincea naturale per un esercito che ha perso migliaia e migliaia di giovani ragazzi mandati allo sbaraglio dalla criminale politica imperialista di Putin.
Fuori dalla bugiarda retorica di guerra, Kiev si gioca il posto di eccellenza di prima linea difensiva e offensiva tanto dell’espansionismo americano quanto di quello dell’Alleanza atlantica, assurgendo così al ruolo storico di punto di appoggio da cui sollevare un nuovo mondo in cui, avendo fallito la globalizzazione statunitense, si deve per forza trovare un nuovo equilibrio geopolitico, economico e, per questo, altamente anti-sociale.
Nei primi giorni di guerra è probabile che il gabinetto di Kiev si sia trovato letteralmente impreparato a gestire una straordinarietà simile di eventi e abbia pensato di essere lasciato solo dall’Occidente se la partita Putin l’avesse davvero potuta vincere in una manciata di ore, in pochissimi giorni. La prima svolta del conflitto avviene nel momento in cui gli ucraini, al di là delle previsioni di chiunque e, soprattutto, di coloro che quotidianamente si nutrono di strategie geopolitiche e militari, resistono popolarmente, rispondendo alla chiamata alla lotta da parte del governo.
Per due settimane il fronte avanza, la NATO fa la voce grossa con Stoltenberg, ma tutti si guardano bene dal rifornire l’Ucraina di armi pesanti. Si discute di cieli, aviazione, caccia, no-fly-zone e ingresso immediato nell’Alleanza così come nell’Unione Europea. Poi, piano piano, mentre la guerra si fa più cruenta, mentre gli Stati si annusano e si riposizionano tanto sul terreno quanto negli indici di borsa e negli scambi commerciali, gli incontri bilaterali si diradano e la diplomazia va in secondo piano, anzi… proprio dietro le quinte del dramma.
La gente fugge, muore sotto le bombe, sparata ai bordi delle strade dove non solo muore dio, ma chiunque si trovi a passare mentre i russi si ritirano o mentre occupano altre città. Non risparmiano nulla. Ucraini e soldati di Mosca iniziano a dimenticare di essere umani e si trasformano in quelle macchine da guerra che devono essere se vogliono reggere l’urto prima di tutto emotivo, psicologico e poi, certo che sì, anche quello della propria integrità fisica ed evitare di farsi traforare le divise dalle pallottole del nemico.
In cinquanta giorni le cronache diventano un racconto senza soluzione di continuità: non c’è sosta permessa nel descrivere le atrocità, tutte quante. Disperate fughe in massa o solitarie, stermini di civili nelle stazioni bombardate, corpi dilaniati ovunque, buche enormi, sirene che suonano in contemporanea in tutta l’Ucraina, rifugi dove si tenta di sopravvivere e dove i neonati muoiono per mancanza di cure, di ossigeno, di luce… di vita. E poi, Mariupol assediata, affamata, ormai un cumulo di macerie tale e quale la Stalingrado d’un tempo o la Berlino conquistata dall’Armata Rossa nel maggio del 1945.
Tutto stride, nulla ha più un suono umano. Nemmeno le parole dei grandi leader. La compassatezza formale di Putin e l’irruente veemenza di Biden sono speculari: parlano lo stesso linguaggio atteggiandosi diversamente. Nessuno di loro vuole veramente mettere fine al conflitto: il primo perché lo ha scientemente iniziato; il secondo perché ne ha bisogno per rivoltare come un calzino la geopolitica mondiale e rimettervi al centro l’asse USA – UE, osservando nel contempo le mosse cinesi.
Cinquanta giorni dopo quel 24 febbraio che rimarrà nella Storia, l’ipocrita non belligeranza di tanta parte del pianeta non ho più scuse. Qualcuno ha fatto la prima mossa e altri ne hanno subito approfittato per fare dell’Ucraina e del popolo ucraino le vittime sacrificali di un conflitto che è utile al riconfigurazione globale delle alleanze internazionale, delle forze economiche e di quelle militari che proteggono non i popoli ma solamente questi privilegi.
Consapevolezza delle grandi manovre mondiali attorno al teatro di guerra propriamente detto e propriamente tale e indignazione per il pesantissimo carico di morte che il conflitto si trascina sempre dietro, possono convivere nella critica a tutto tondo di una esasperazione militarista che sta prendendo il sopravvento anche nella debolissima Europa. Non è irragionevole supporre, visto il quantitativo di miliardi investito dal governo federale tedesco in un riarmo repentino, che pareva quasi attendere un pretesto per poter essere attuato, che nel perimetro del Vecchio Continente potrebbe essere proprio la Germania a fare da trazione atlantica per l’intera Alleanza.
Sarebbe questa, caso mai ve ne fosse bisogno, al prova più evidente di un completo cambio di capitolo nella storia del mondo. Dalla fine della Seconda guerra mondiale molte cose erano mutate, ma nessun governo tedesco aveva osato pronunciare la parola “riarmo“. Così come nessuno si sarebbe mai e poi mai aspettato di assistere alla fine della neutralità elvetica o, per stare agli ultimi inquietanti sviluppi, alla richiesta di Svezia e Finlandia di entrare a far parte della NATO, solleticando così il confine russo anche a nord, ben oltre il trittico baltico storicamente nemico della Russia zarista prima, dell’Unione Sovietica poi e della Russia putiniana infine.
Ora dopo ora, altro che giorno dopo giorno, l’esponenzializzazione del conflitto si fa sempre più verticale: l’atomica tattica rimane una delle disgraziatissime opzioni degli alti comandi militari russi (ma non solo…) e la cintura dell’atlantismo si allarga dal Medio Oriente fino alla Lapponia. La definiranno una sorta di “diga difensiva“, cercando di far entrare nel nuovo millennio il concetto della deterrenza mediante l’ingrossamento degli arsenali, la chiamata alle armi un po’ ovunque e l’investimento di risorse, che potevano andare alla sanità o alla scuola, in nuovi potentissimi armamenti.
La guerra vale molto più di quel che sembra: è un trampolino di lancio per la modificazione di tanti elementi strutturali, proprio a partire dalla redazione dei bilanci degli Stati. Ed è lo sconvolgimento più grande cui i popoli possono essere sottoposti, obbligati dalla retorica del nazionalismo, della difesa del sacro suolo della patria e, peggiore tra tutte le motivazioni, della preservazione di quei valori occidentali, di democrazia, libertà e uguaglianza che, può darsi, abbiano ispirato il primo ministro britannico a stabilire che i migranti irregolari debbano essere deportati in Africa. E ben sorvegliati.
Ma è chiaro: di qua c’è l’impero del bene e di là quello del male. E nonostante tutto il sostegno che alle ragioni del riarmo danno i grandi giornali e quasi tutte le televisioni, sei italiani su dieci sono contro l’invio di armi all’Ucraina e a favore di una politica che rimetta la diplomazia al centro dell’azione per superare la guerra. Perché nessuno la vuole veramente, ma poi qualcuno si lascia un po’ convincere. Per paura che arrivi anche qui e che si prenda le nostre case, le nostre vite, tutto…
Non dovremmo farci prendere dalla paura, è vero. Ma loro giocano proprio sulle più ancestrali fragilità umane per farci cambiare, per convincerci che possiamo essere altro e trasformarci in quei soldati che muoiono pensando che sia ovvio, logico e sensato, alla fine, uccidere soprattutto gli indifesi. Dai bambini ai cani. Perché sono il simbolo della vita e della società che lì non hanno spazio alcuno, non hanno alcuna ragione d’essere.
Ecco, dopo questi primi cinquanta giorni di guerra, se riusciamo a rimanere lucidi e, quindi, sufficientemente critici in tal senso, allora non tutto è ancora completamente perduto.
MARCO SFERINI
15 aprile 2022
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