Non te lo aspetti e allora lo stupore è tutto giustificato. Tutto o quasi. Prima la Croazia batte il Brasile ai quarti di finale del mondiale di calcio in Qatar, dove sono morte migliaia di lavoratori per costruire gli stadi (fonte il “Guardian”, pare fino a 6.500 migranti sotto un sole e sotto un regime padronale che non perdonano); poi il governo italiano consente a tre navi delle tanto vituperate Ong di attraccare nei porti del Bel Paese.
Siccome il Brasile era dato per favorito un po’ da tutti e sul governo nero delle destre nessun scommettitore accettava puntate sul cambio di politica restrittiva e selettiva in materia di migrazioni, la giornata di venerdì 9 dicembre 2022 rischia di avere quei quindici minuti di gloria e di notorietà che Wahrol concedeva un po’ a tutti nel futuro di un mondo sempre più singolarizzato e protagonista di sé stesso in miliardi di molteplici autorappresentazioni dai tratti un po’ egoistici e narcisistici.
Passi per la Croazia: ha giocato bene, meritava la vittoria, e tuttavia vedere andare a casa il Brasile, il simbolo del calcio non solo sudamericano ma quasi mondiale, è qualcosa che sa persino di rivoluzionario e, allo stesso tempo, di eversivo. Ma, sull’inversione di tendenza dell’azione governativa in merito agli sbarchi dei migranti, è consentito sorprendersi solo quel tanto che basta per non cadere nella trappola di un mutamento di opinioni, di una riconsiderazione del fenomeno globale di mutamenti sociali che sono alla base degli spostamenti di massa dei popoli.
La destra non ha cambiato idea, né programmi e tanto meno programmi di respingimenti: continua a ritenere xenofobicamente africani, mediorientali ed asiatici portatori di culture che intaccano le cosiddette “radici giudaico-cristiane” dell’Occidente, diversi per pigmentazione e colore della pelle, per tradizioni, lombrosianamente dediti alla malvivenza, perché naturalmente inclini verso essa e non perché le ragioni di una povertà endemica spingono ad arruolarsi nel più veloce ufficio di collocamento che esista: la criminalità organizzata.
Si tratta di una tattica di corto raggio. Perché governo e ministri sono sempre quelli di poche settimane fa: quelli che bloccarono per giorni e giorni le navi al largo nel gelo del mar Mediterraneo, dando adito ad una frattura tutt’altro che irrilevante con il governo francese. Una lesione politica e diplomatica che ancora oggi non è del tutto sanata.
Il sospetto che l’intensificatesi in questi giorni delle riunioni con gli apparati europei per la definizione e il completamento degli investimenti relativi al PNRR, pur dentro alle considerazioni meloniane sulla insufficienza e sull’ormai dato per anacronisticamente superato persino il piano continentale del Next Generation UE, abbia dato seguito ad una prudenza, da parte di Palazzo Chigi nel merito della questione migratoria, è un dubbio più che legittimo.
Non lo sarebbe se l’incidente con il governo di Parigi fosse stata una eccezione, se si fosse trattato di un impuntamento dovuto ad un qualche motivo contingente. Invece, l’azione interministeriale che fece stare i profughi in attesa di un porto sicuro per oltre dieci giorni rientra perfettamente nel tipo di considerazione che le forze che compongono l’esecutivo (almeno la maggioranza di esse) hanno verso chi fugge da paesi dove guerra, fame, sommosse e condizioni di violenze e indigenze rendono impossibile anche la sola stessa idea di mera sopravvivenza.
Il silenzio del ministro dei trasporti lascia intendere che l’ordine di seguire questa condotta di apertura dei porti sia venuto direttamente dalla Presidente del Consiglio. Quasi una direttiva esplicita, che non ammette contraddizioni, visto il momento: approvazione della legge di bilancio, impostazione della politica economica per i prossimi anni e, seppure in tono minore ma non da sottovalutare, il passaggio delle regionali di febbraio.
Che, comunque, la linea dei porti aperti sia sostenuta da quella parte “moderata” del governo (centristi e Forza Italia) che, non fosse altro per continuare a guadagnarsi il favore del ceto medio che solitamente impiega la mano d’opera immigrata a bassissimo costo, a livelli di neo-schiavismo (sia in alcuni settori produttivi industriali sia, soprattutto, nel settore agricolo), ha tutto l’interesse politico di mostrarsi meno intransigente, più accondiscendente verso le direttive europee, è abbastanza evidente e facile persino da indovinare come dato politico.
Di sicuro, dopo la compressione elettorale del 25 dicembre, la Lega viene a trovarsi ennesimamente in una condizione di minoranza dentro un esecutivo che, da un lato deve obbedire al compromesso estero, con una Europa che altrimenti minaccia di tagliare i fondi, dove Francia e Germania sono pronte a restringere i cordoni delle borse e dove chi sta per prendere la presidenza di turno della UE, cioè Stoccolma, non ha intenzione di transigere sulla redistribuzione dei migranti e, prima di tutto, sulla loro presa in carico secondo le normative di Dublino.
Nulla fa presagire che il governo di Giorgia Meloni intenda creare le condizioni per una maggiore tutela di tutte le fragilità che sono evidenti tanto nella popolazione italiana propriamente detta, in quanto tale, e in quella parte di cittadini di prima o seconda generazione migrante che sono parte integrante tanto della società quanto dell’economia nazionale. Ultimo solo in sequenza temporale, l’abolizione del bonus cultura (500 euro per i diciottenni che intendono usarlo per acquistare libri, andare al cinema, a teatro, vedere mostre, musei e spettacoli dal vivo). Forse l’unica misura accettabile presa dal governo Renzi.
Il bonus viene cancellato e i 230 milioni di euro che lo finanziavano vengono rigirati ai settori che riguardano i lavoratori del mondo della cultura e dello spettacolo. Ancora una volta, in poco meno di due mesi, il governo non implementa i finanziamenti ma li dirotta da una voce ad un altra: taglia e ricuce, disfa e rifà senza sostenere veramente le tante debolezze strutturali del Paese. Va ricordato, a questo proposito, che invece per quanto riguarda la spesa militare, ci si pone l’obiettivo dato direttamente dall’Alleanza Atlantica: il 2% del PIL nazionale.
Teniamo solitamente al largo i migranti, su imbarcazioni per giorni e giorni. Gli apriamo i porti soltanto per fare una specie di bella figura con l’Europa mentre trattiamo sulla cosiddetta “messa a terra” del PNRR e sui futuri investimenti della UE e della BCE nel nostro Paese; riduciamo i servizi sanitari, privatizzando, regionalizzando sempre più e differenziando tra nord benestante e sud indigente; contraiamo le necessità fondamentali della scuola pubblica, interveniamo sulle pensioni e ci inventiamo quota 103 per una uscita dal mondo del lavoro che non favorisce affatto un ricambio generazionale e non dà una ricompesa adeguata a chi ha lavorato fino a 67 anni di età e, poi, investiamo 24 miliardi di euro nella “difesa” militare.
Si tratta “solo” dell’1,37% del PIL. Aumentare questo gettito fino al 2, come vuole la NATO, vuol dire sottrarre altri miliardi di euro ad un bilancio dello Stato che andrebbe invece riconsiderato nelle voci sociali, nella considerazione dell’allargamento di una crisi economica che investe molti settori della vita produttiva e dei diritti fondamentali della persona, del cittadino, dell’essere umano in quanto tale.
Si va, quindi dall’italiano al migrante, da povero a povero, cercando di alimentare una contesa orizzontale e spostando quindi l’asse dell’attenzione dalla lotta fra le classi alla lotta interna alle classi stesse. Ma, a quanto pare, da un po’ di tempo a questa parte l’elettorato preme di più sulla tenuta dei conti, spaventato dall’incedere della crisi, dalla convergenza preoccupante tra coda pandemica e guerra globale.
L’angolazione da cui bisogna osservare l’apertura dei porti è quella di una critica permanente, di una attenzione da non dismettere pensando ad un ravvedimento umanitario da parte del governo. Quelli che potremmo chiamare “indicatori di direzione politica” non mostrano un nuova stagione pseudo-progressista delle destre. Saremmo davanti ad un enorme ossimoro, ad una contraddizione in termini, ad una innaturalità.
E per questo, ben presto, appena stabilizzati i rapporti con la UE, date e avute le garanzie necessarie per mandare avanti la maggioranza e l’azione del governo, le destre torneranno all’attacco. Anzi… continueranno a mirare contro il lavoro, le pensioni, il pubblico, le differenze e i migranti. Altrimenti come potrebbero restare abbarbicati a Palazzo Chigi, mantenere intatto il proprio consenso elettorale e guardare oltre all’inverno di guerra e del caro-bollette?
MARCO SFERINI
10 dicembre 2022
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