I popoli non fanno mai le guerre, ma le subiscono sempre

Tutti sosteniamo il diritto alla resistenza di un popolo, come anche solamente di un singolo individuo, all’aggressione di un altro popolo. Nella pratica può sembrare così: che tutta una...

Tutti sosteniamo il diritto alla resistenza di un popolo, come anche solamente di un singolo individuo, all’aggressione di un altro popolo. Nella pratica può sembrare così: che tutta una massa di persone armate si scagli contro un’altra per desiderio di conquista, di espansione dei propri territori, per garantirsi una esistenza sicura e migliore rispetto ad altri.

Ma non è mai veramente tutto un popolo a volere una guerra e, soprattutto, è sempre una minoranza che la combatte. Una minoranza che si chiama “esercito” e che viene addestrata anche per scopi di difesa ma principalmente per fare la guerra, per fronteggiarla e per dirigerla.

Sarebbe quindi davvero un grossolano errore di prospettiva sociale e politica, una incauta tracotante distorsione della verità affermare che è il popolo russo che ha mosso guerra a quello ucraino. Pochissimi commentatori azzardano l’identificazione tra il governo putiniano e l’interezza dei cittadini della Federazione nata dalle ceneri dell’URSS.

Non fosse altro per le manifestazioni di piazza, per le decine di migliaia di arresti che il regime ha ordinato per sventare la possibilità che le proteste si saldino e trovino un consenso sempre maggiore, vincendo quella legittima paura di finire dietro le sbarre per il solo fatto di esercitare una critica nei confronti di Putin e della sua autocrazia.

Evitare questa confusione tra governo e governati è un primo importante passo per identificare bene l’avversario. D’altro canto, invece, si può dire con certezza che tutto un popolo sta fronteggiando una aggressione militare che, per il fatto stesso di essere tale, è criminale e poi, portandosi dietro tutte le brutalità della guerra, diventa la quinta essenza dell’orrore.

La distinzione, anche in questo caso, tra governo e popolo non è di poco conto: prima di tutto perché schierati contro le truppe di Putin non vi sono soltanto i fanatici neonazi-onalisti dell’Azov, ma tantissime persone che si battono davvero contro quello che è per loro il nemico.

Chi entra nel tuo Paese, nelle tue case, le bombarda, le distrugge e uccide indiscriminatamente chiunque trova sul suo cammino, se non lo chiami nemico, evidentemente hai dei grossi problemi di comprensione della realtà dei fatti. Il governo Zelens’kyj, invece, ha un rapporto con la guerra completamente differente, e non potrebbe essere altrimenti.

In mezzo ad una contesa mondiale per il ristabilimento delle prerogative proprie, Russia da un lato e USA e NATO dall’altro hanno approfittato della posizione strategica dell’Ucraina per farne un risiko dove poter cinicamente giocare la partita che hanno in mente.

Il fallimento della diplomazia è a monte della guerra stessa: si arriva al conflitto proprio perché le divisioni storiche tra i due ex blocchi della Guerra fredda non sono state mai veramente superate, e soltanto una espansione del liberismo nordamericano ha permesso, dopo gli anni ’80 del secolo scorso, di mettere per qualche decennio in ombra il fronte asiatico, pur sempre partecipe dei 20 più grandi del mondo in quanto ad economia, ad armamenti e a polarizzazioni strutturali di altri Stati attorno al loro centro gravitazionale.

Il popolo russo, così come quello ucraino, non hanno quasi nulla a che vedere con la guerra. E’ bene aggiungere quell’avverbio di dubbio per non escludere del tutto le responsabilità che comunemente si hanno, ad esempio, se si è chiamati al voto per scegliere un presidente.

Si dice che l’Ucraina è una democrazia, diversamente dalla Russia che è, oggettivamente, molto, moltissimo lontana dai minimi standard liberali delle democrazie occidentalmente intese: dunque si dovrebbe concludere che maggiori sono le responsabilità degli ucraini rispetto ai russi, visto che la possibilità di scelta la hanno e con quella avrebbero dato forza a formazioni politiche che, nel corso degli anni, hanno inserito ad esempio nella Costituzione la “difesa del patrimonio genetico della nazione“.

Di citazioni di questo tipo, dal sapore colpevolista, se ne potrebbero fare ancora molte, dimostrando così che, se Mosca non è una repubblica democratica, Kiev non è da meno: Zelens’kyj è stato eletto con una percentuale vicina la bulgarismo d’un tempo, grazie al sostegno di un magnate dell’informazione e della comunicazione. Nulla è mai lasciato al caso. Tutto si tiene, logicamente e consequenzialmente.

Ma accusare gli ucraini di essersi praticamente portati la guerra in casa sarebbe fare torto alla possibilità che un popolo ha di scegliere per davvero, secondo i suoi sentimenti, le sue percezioni e la sua cultura sociale e politica.

Il gioco democratico non è mai completamente avulso da trucchetti che ne condizionano l’esito finale: le elezioni possono svolgersi senza violenze, coercizioni evidenti, ma altrettanto pericolose sono gli inoculamenti massmediatici, i convincimenti pelosi della propaganda infingarda e smargiassa di chi ha interesse ad indirizzare l’opinione pubblica verso il suo volere, per garantirsi una serie di privilegi politici ed economici.

Nessun popolo fa veramente una scelta libera quando esprime un voto. A seconda dei paesi in cui le votazioni si tengono, si può osservare una maggiore o minore indipendenza tanto delle singole forze politiche dal governo e dalle corporazioni industriali e finanziarie. Così come non tutte le dittature sono uguali, altrettanto le democrazie si differenziano fra loro per la storia che le ha prodotte e per i rapporti di forza sociali interni, nonché per i rapporti internazionali che mantengono con gli altri Stati.

La libertà del popolo ucraino di accedere al voto è una libertà che hanno anche i russi, ma la differenza sostanziale sta proprio nell’esercizio del potere attraverso l’indizione delle cosiddette “libere elezioni“. Quanto siano libere a Mosca e quanto lo siano a Kiev è difficile poterlo stabilire con reciproco metro di giudizio: gli uni rispetto agli altri troveranno maggiori giustificazioni per i sistemi adottati e si rimprovereranno sempre di essere migliori e più popolari del termine di confronto che gli si propone.

La repressione del dissenso politico in Ucraina riguardava già le forze della sinistra e i comunisti ben prima dello scoppio della guerra. La messa fuori legge di forze presenti nella Verchovna Rada, l’arresto dei leader di opposizione non è un buon biglietto da visita per l’accesso all’Unione Europea e non permette di affermare che lì vi sia quel tanto più di libertà e democrazia tanto da distinguerla senza ombra di dubbio dal gigante russo.

Si dirà che la guerra provoca anche queste restrizioni di diritti fondamentali. Ma una democrazia veramente consolidata in sé stessa dovrebbe essere forte proprio nel rapporto tra le differenti opinioni, soprattutto quelle che mettono in discussione l’operato del governo. Non basta una guerra come alibi per dichiarare sospese le libertà democratiche…

La repressione del dissenso politico a Mosca è molto marcata, la incarnano persone che sono finite in galera solo per aver scritto su Internet critiche al governo, dileggiato satiricamente Putin o sostenuto che altrove si vive meglio. Non è permessa quella normale dialettica democratica che è tipica, ad esempio, delle nostre democrazie.

Se un tempo, a parziale scusante del totalitarismo sovietico si poteva invocare l’avanzato stato-sociale che vigeva nell’Est europeo, oggi è venuto meno anche questo presupposto: la globalizzazione ha fatto cedere quel poco di differenza che esisteva tra oriente ed occidente nella gratuità di tutta una serie di diritti fondamentali che era peculiarità di altri partiti che si richiamavano, in forme e modi differenti al socialismo.

I partiti baathisti del Medio Oriente e dell’Africa ne erano un esempio eclatante: dittatura e prebende sociali viaggiavano di pari passo, smentendo la teorizzazione secondo cui non possano convivere (purtroppo) politiche che reprimono i diritti umani e le libertà civili con politiche che, al contrario, sostengono il progresso sociale di tutti i cittadini obbedienti e ligi al regime di turno.

I popoli, a ben vedere, non hanno mai una grande possibilità di scelta. Tuttavia alcuni la hanno più di altri, perché possono far valere tutta una serie di accumulazioni originarie di diritti conquistati nei secoli e che, diventando molto di più di leggi applicate, bensì consuetudini consolidate e tradizioni cui non può derogare nessuno, nemmeno un sovrano, un presidente o un parlamento, sono i punti di partenza cui si ritorna se si fanno passi indietro nella progressione delle libertà personali e collettive.

Alcune retrocessioni sono possibili, ma non oltre una determinata linea temporale che è sancita, generalmente, da costituzioni frutto di una lotta rivoluzionaria o di una guerra finita malissimo. Francia ed Italia sono due esempi lampanti: nonostante i tanti attacchi che sono stati portati contro la nostra Costituzione, nonostante sia stata ampiamente disattesa per lungo tempo, nessuno osa metterla in discussione nel suo complesso.

E, tuttavia, a volte si può anche non attaccare l’interezza della Carta, cercando di svuotarla del suo significato con singole controriforme, facendone rimanere uno scheletro vuoto. Per questo nessuna conquista è mai veramente certa di durare per sempre. E per questo le lotte per la preservazione di ogni parte della Costituzione italiana tutto sono tranne che politiche conservatrici.

E’ possibile che la guerra in corso tra Russia e Ucraina sia l’atto fondativo non soltanto di una nuova geopolitica mondiale, ma ancora prima di un nuovo assetto nazionale, politico e sociale per entrambi i paesi. Il conflitto sta costringendo il popolo ucraino a pensarsi come tale e quello russo, forse, a pensarsi in relazione all'”operazione speciale militare” dichiarata da Putin e dal suo governo. In questo quadro, i popoli hanno più scelta di quella che l’avrebbero con il semplice esercizio del voto.

Le trasformazioni politiche che si stanno producendo sono tante e tali da non lasciare più alcuna garanzia a nessun potere di dirsi tale anche dopo la fine del conflitto. Né Putin né Zelens’kyj possono avere la sicurezza di essere ancora al comando dei due paesi tra qualche mese o tra qualche anno.

Più la guerra durerà, più le dimostrazioni di forza e di potenza bellica aumenteranno: da parte americana c’è tutto l’interesse a destabilizzare la Russia per trovare nuovi amici che siedano al Cremlino al posto di Putin. Da parte di quest’ultimo l’interesse primario è, ovviamente, rimanere ben saldo dove si trova, vincere sul campo, consolidare uno Stato dove l’autocrazia sia la costituzione del futuro.

A Kiev e a Mosca non ci sono solo opposizioni istituzionali che vengono messe fuori legge, bandite e i cui capi sono arrestati e presi in ostaggio dai rispettivi governi. Ci sono tante persone che si battono per una democrazia sociale, per un riconoscimento reciproco di diritti universali che vanno al di là dei concetti di patria e che sbugiardano il falso mito popolare innervato dal nazionalismo.

Proprio perché la libertà di scegliere i popoli non la possono mai completamente avere sotto regimi e governi che si attribuiscono ogni specie di virtù e benevolenza, la colpa della guerra non la dobbiamo vedere nemmeno nei soldati che la combattono. Giovani ventenni mandati allo sbaraglio. Vera e propria carne al macello, carne da cannone, come si sarebbe detto all’inizio del primo conflitto mondiale.

Questa geografia antropologico-politica dei popoli deve essere stesa chiaramente nello schema interpretativo che abbiamo in questo momento: gli ucraini sono le vittime di questa guerra. Non i governi. Nemmeno quello di Zelens’kyj. Non perdiamo di vista i ruoli, perché se confondiamo le volontà rischiamo di non riconoscere più i veri nemici e di considerare i nostri simili come i veri responsabili delle catastrofi che stanno subendo con sempre maggiore crudezza e dolore.

MARCO SFERINI

21 aprile 2021

Foto di Ahmed akacha

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