«I più vulnerabili ormai sono esclusi dalle cure»

Emanuele Nannini (Emergency). «I campi per migranti sono bombe a orologeria: non consentono il distanziamento sociale né le più basilari norme igieniche o i tamponi»

Un ambulatorio bombardato a Tripoli lunedì scorso. Solo a marzo 27 strutture sanitarie danneggiate in Libia per la vicinanza alla linea degli scontri, mentre la popolazione fa i conti anche con la pandemia e i migranti continuano a rimanere chiusi nei campi di detenzione: «Ci abbiamo lavorato per più di dieci anni, la situazione è tragica. Le due fazioni hanno inasprito i combattimenti, c’è molta pressione su Tripoli, il paese è nel caos» spiega Emanuele Nannini, vicedirettore del Field operations department di Emergency.

È possibile contenere il Covid-19 a Tripoli con la guerra civile in corso?
Un paese fragile come la Libia si avvicina al baratro. La guerra fa saltare i regolatori sociali e le tutele, tutti i paesi in conflitto hanno fasce di popolazione vulnerabile che non hanno più accesso ai servizi, sia per i rischi legati agli spostamenti durante i combattimenti sia perché le prestazioni cessano. La pandemia, la limitazione della circolazione e l’impossibilità di far arrivare materiali fa sì che i più vulnerabili si trovino esclusi da qualsiasi assistenza.

I migranti continuano a partire.
La Sanità con la pandemia non regge più. Le notizie che abbiamo dall’Afghanistan, dal Sudan ci dicono che dei sistemi già fragili collassano completamente. Chi può accedere alle strutture a pagamento va avanti, gli altri sono esclusi del tutto dalle cure. In Afghanistan, ad esempio, il 70% della popolazione vive in zone rurali, la gran parte già faceva fatica a curarsi perché doveva fare lunghi viaggi per arrivare a presidi di livello medio. Una volta arrivati era complicato accedervi per i combattimenti, i posti di blocco e le lotte tra fazioni. Con la pandemia molte strutture sono state chiuse oppure sono stati ridotti i servizi e il governo ha messo restrizioni nei movimenti: l’accesso ora è pari a zero. In più molti operatori umanitari sono bloccati e il supporto delle ong sta venendo meno.

Quali difficoltà state avendo?
I paesi in cui operiamo sono chiusi, non riusciamo a portare dentro né a far uscire i nostri sanitari. Man mano che gli aeroporti chiudevano abbiamo chiesto se volevano tornare, più di cento hanno scelto di rimanere e i nostri ospedali sono rimasti aperti. Prima del lockdown abbiamo potenziato gli approvvigionamenti per affrontare la crisi. Altre ong però non hanno più personale in loco o hanno finito le scorte.

La crisi ha fermato i conflitti?
In alcune aree è stata decisa una tregua ma in Libia, Afghanistan, Yemen, Iraq non è accaduto. I feriti continuano ad arrivare, il supporto chirurgico ha la priorità perché una pallottola uccide più velocemente del virus. Andiamo avanti a vista, abbiamo fine giugno come tempo massimo per continuare a operare senza nuovi rifornimenti.

I campi, in Libia come in Grecia, possono reggere all’impatto del Covid-19?
Sono bombe a orologeria. Le condizioni non consentono il distanziamento sociale né le più basilari norme igieniche. Campi formali, creati a opera d’arte, forse posso dare qualche garanzia ma negli aggregati informali è impossibile gestire la situazione. Ma tanto il mondo farà fatica a sapere cosa succede lì dentro, posti dove non si fanno tamponi né test: le persone morivano prima, adesso di più senza che l’opinione pubblica si renda conto del danno umano in corso.

Cosa insegna la pandemia?
Guerre e povertà sono sparite dall’attenzione internazionale. Quando usciremo di nuovo in strada troveremo un mondo che ha lasciato indietro i più deboli. Eppure la lezione è che o stiamo tutti bene o non sta bene nessuno. Il sistema sanitario non deve essere un privilegio per chi se lo può permettere.

ADRIANA POLLICE

da il manifesto.it

foto tratta dalla pagina Facebook di Emergency

Visita il sito di Emergency

categorie
Esteri

altri articoli