I nuovi schiavi condannati all’invisibilità

I fatti sono più che noti, anche se affondano nella melma dell’indifferenza, della noia e del pregiudizio che sommerge buona parte della nostra società: nelle campagne si muore di...

I fatti sono più che noti, anche se affondano nella melma dell’indifferenza, della noia e del pregiudizio che sommerge buona parte della nostra società: nelle campagne si muore di freddo, di canicola e di esaurimento nei campi, oltre che di fuoco negli incendi dei ripari di fortuna. E si muore di sparizione violenta, come i braccianti polacchi di cui anni fa si sono perse le tracce (se n’era occupato ampiamente il compianto Alessandro Leogrande).

Millecinquecento sarebbero i decessi sul lavoro nelle campagne, in sei anni. Braccianti italiani e migranti si schiantano dieci ore al giorno per pochi euro nella raccolta di pomodori e agrumi, vittime del caporalato e di mafie locali e industriali: il settore agricolo, al nord e al sud, campa su un trattamento che secoli fa era riservato solo agli schiavi. In più, gli stranieri si trovano, grazie al decreto sicurezza voluto da Salvini e Di Maio, in una condizione di precarietà che li espone a condizioni di vita sempre peggiori e al ricatto di padroncini e profittatori.

Questa è semplicemente la realtà che fa da sfondo all’ennesima morte nell’incendio della baraccopoli di san Ferdinando.

La logica dello sfruttamento, che nessuna legge sul caporalato è stata in grado di limitare – anche per l’opposizione della Lega alla sua applicazione – è ovviamente la prima responsabile di queste tragedie.

I profitti del settore agroalimentare si basano sulla compressione spasmodica dei salari e sulla durata abnorme della giornata di lavoro. L’illegalità estrema delle condizioni di lavoro è alla base di quello che si può definire come un vero e proprio modo di produzione schiavistico. Ma a questo appartengono anche la gestione dei trasporti dei lavoratori (tra il 4 e il 6 agosto 2018 morirono 16 migranti in due incidenti stradali nel foggiano) e le condizioni di vita nelle baraccopoli. Si muore sul lavoro e si rischia la morte per lavorare.

La cultura – chiamiamola così – del governo in carica è del tutto coerente con un sistema di sfruttamento del lavoro che un certo illuminismo riteneva superato da secoli. Da una parte c’è l’elargizione grillina di un «reddito di indigenza», subordinato a sistemi disciplinari e di controllo degni dell’Inghilterra settecentesca. Dall’altra, la cultura politica leghista, incarnata nel corporativismo della piccola azienda, della famiglia in cui lavoratori e padroni sono sulla stessa barca, è profondamente ostile allo sviluppo di logiche sindacali e rivendicative sanamente conflittuali. Il conflitto materiale sul luogo di lavoro è stato sostituito, nel corso degli ultimi decenni, e con il contributo decisivo del riformismo, da conflitti emotivi, basati sull’esistenza di un nemico simbolico: lo straniero, il migrante, il profugo, il «negro» che preme alle porte.

E qui veniamo al luogo in cui tutti questi cambiamenti precipitano: l’umanità marginale, superflua, eccedente, costretta a vivere nelle discariche per sopravvivere con 25 euro al giorno.

L’obiettivo politico di Salvini non è, né mai potrà essere, eliminare le basi dello sfruttamento e le condizioni disumane di vita dei migranti impiegati in agricoltura. È eliminare la visibilità loro e dei loro insediamenti, con un duplice profitto: confermarsi come il politico dell’ordine a tutti i costi e rendere ancora più ricattabile l’umanità alla deriva nelle nostre campagne.

La chiusura degli Sprar, l’abolizione della protezione umanitaria e la stretta contro gli stranieri devianti hanno come effetto principale la riduzione dei migranti a schiavi potenziali. E qui, si scopre facilmente, tutto si tiene: se l’eliminazione delle Ong dal Mediterraneo, a partire dalla campagna contro i «taxi del mare», rende invisibili, e quindi accettabili, i naufragi, la ruspa promessa da Salvini contro le baraccopoli rende invisibile l’esistenza dei nuovi schiavi.

Tutto si tiene: il nazionalismo esasperato, la xenofobia diffusa alimentata dal discorso politico, l’offa gettata ai poveri in cambio di un po’ di consenso elettorale, la marginalizzazione dei marginali. Finché, si spera, i sostenitori di questo governo cominceranno ad accorgersi del tranello in cui sono caduti.

ALESSANDRO DAL LAGO

da il manifesto.it

foto tratta da Pixabay

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