Hugo inizia a pensare alla stesura de “I miserabili” (Einaudi, 2014) negli anni ’40 dell’Ottocento, dopo essersi avvicinato ad una letteratura sociale che ha egli stesso innovato, facendo di opere come “Le Dernier Jour d’un condamné” il principio di un metodo di larga condivisione, attraverso le pubblicazioni sui giornali, di articoli che veicolano le idee moderne sui diritti civili, su quelli sociali e su un differente rapporto, rispetto al passato, tra umanità, cittadinanza ed istituzioni.
Nelle lunghe premesse costruttive del romanzo che è, senza tema di smentita, il capolavoro lettario del Romanticismo francese, Hugo non smentisce l’intuizione postuma alla pubblicazione, soprattutto del grande pubblico che lo legge e lo apprezza – a differenza della critica che lo bistratta e lo sminuisce – che vede nella miserevolezza descritta non il giusto punto di partenza per una redenzione premiante, ma una maledizione sociale da estirpare.
Se Valjean, dopo aver sottratto una moneta da quaranta franchi a Petit-Gervais, un ragazzino di cui nemmeno conosce la condizione di vita, si apre all’illuminazione etico-sociale, abbracciando un civismo a lui prima ignoto, soprattutto a causa della violenta repressione che lo travolge per quasi venti anni soltanto per aver rubato un tozzo di pane. Si accascia su sé stesso e piange. Hugo dice: «…per la prima volta dopo diciannove anni».
Perché nel tempo della prigionia non c’è posto per le lacrime, ma solo per la rabbia, per il risentimento che alimentano una voglia di vivere che trasuda di vendetta, che vuole essere razionale per i torti subiti, che diventa così irragionevole per una società borghese che ritorna all’aristocraticismo dopo la bufera della Rivoluzione.
La miseria che Hugo descrive, così, è una altalena di trasformazioni della stessa, di mutamenti che pervadono ogni momento delle tribolazioni di un sottoproletariato che non può avere coscienza della sua condizione. Tanta è la sua disperazione.
Non c’è tempo per pensare e per organizzarsi. Un ladro, un ex galeotto vive alla giornata, all’attimo. Ora è ai margini delle mura di una città e pensa come procurarsi qualcosa per sfamarsi; ora si imbatte nel vescovo di Digne che è la sua prima tappa verso uno stravolgimento ulteriore di una vita passata dalla estrema povertà familiare al carcere che, capitolo dopo capitolo, somiglierà sempre di più all’intransigenza di Javert, al suo essere ritto prima e compunto poi nei confronti della riverenza estrema verso la Legge.
La ribellione contro il colpo di Stato di Luigi Bonaparte non lascerà l’ultima parte della stesura del capolavoro romantico indenne. Influirà su certe descrizioni della Parigi che lotta per la riscossa repubblicana, là dove si erigono le barricate, là dove le voci dei giovani come Enjolras, dalla straordinaria bellezza tipica dell’eroe che viene quasi predestinato ad essere, così, simbolo fulgido di una purezza incontestabile. Gli Amici dell’ABC (leggasi dell’ “abaissé“) sacrificano le loro vite in erba contro una soldataglia che rappresenta il potere della conservazione.
Marius, colpito, ferito e salvato da Valjean, è certamente al centro della vicenda politica e sociale, ma più ancora lo diviene per due rapporti che ha e su cui Hugo si dilunga giustamente tanto.
Quello con la sua famiglia, che lo ripudia per le sue idee. Quello con Cosette, che lo ama anche per le sue idee. Nell’esistenza errabonda dell’ex forzato, la scoperta della purezza dell’amore è tanto sconvolgente quanto inebriante. I due giovani rappresentano un futuro che è un tempo indefinibile e in cui, nonostante tutto quello che abbia subito, Valjean crede.
Perché nel riscatto di Cosette dagli ignobili Thénardier, c’è tutta la coscienza della promessa fatta a Fantine sul letto di morte. Mentre la Legge di Javier si ostina a perseguitare i più deboli, li scova come se non avesse altra missione, per la sicurezza del Regno di Francia, se non quella di farsi rispettare senza alcun riguardo, con una proterviale e ipocrita dimostrazione di uguaglianza nel trattare allo stesso modo poverissimi e ricchissimi.
Hugo coglie, in chiave sociale, questa dimensione ambivalente e ingenerosa della Legge che, infatti, somiglia poco alla Giustizia. Non ha tutti i torti chi ha mosso qualche lamentela per le digressioni storiche: dalla battaglia di Waterloo ad altri avvenimenti della storia di Francia.
Ma per lo più si è trattato di critiche che, nell’essere intellettualmente oneste, hanno sconfinato nell’esagerazione: non fosse altro per la portata grandiosa del romanzo che è riduttivo definire come tale. Semmai siamo di fronte ad un romanzo-storico, ad un genere letterario inquadrabile nel filone romantico, ma che fa rivivere ai francesi di allora attimi, giorni, mesi della loro giovanizza o della loro maturità.
Quando non anche della loro incipiente vicinanza alla vecchiaia. Valjean per primo ricorda, rimanda a mente, pensa mentre cammina, mentre vaga solitario. Così come si aggroviglia nei sensi di colpa la notte prima dell’andare in tribunale a discolpare un poveraccio scambiato per lui medesimo e quindi accusato dei suoi “crimini“. Il sindaco Madeleine quindi cessa di essere tale, di essere il riferimento di una comunità: deve cambiare ancora identità e aspetto. Deve fuggire. Deve sfuggire alle divise che lo rincorrono.
Le sue colpe finirà di scontarle solo quando la Senna si porterà via la vita del poliziotto che aveva trascorso l’esistenza a dargli la caccia, convinto di essere lui solo dalla parte giusta. La potenza narrativa aumenta con l’infittirsi di un canovaccio che mescola le piccole e grandi miserie di un popolo che vengono, spesso, nascoste dalla bella vita delle classi agiate, di una borghesia e di una aristocrazia che, unitamente, negano i valori democratici ereditati dalla Rivoluzione.
L’insofferenza prima e la matura avversità politica che Luigi Napoleone proverà nei confronti dell’epopea che ruota attorno a Valjean, altro non farà se non evidenziare ulteriormente il carattere conservatore di una impropria repubblica che sarebbe stata costretta ad essere il Secondo Impero.
Il colpo di Stato si realizzerà quando ancora “I miserabili” sono un manoscritto fermo nella sua stesura. Non dimenticato, ma messo da parte da Hugo. Lo riprenderà prima e dopo l’esilio: sarà pubblicato in Belgio per la prima volta in dieci volumi. Il successo non conoscere sosta. E per questo Napoleone III firmerà il decreto di espulsione dalla Francia di Hugo nel 1852.
Perché le idee sociali contenute nel romanzo sono le stesse che, in difesa della Repubblica, pronuncia in più accorati discorsi all’Assemblea nazionale insieme ad un piccolo gruppo di resistenti alla restaurazione monarchica.
Il romanzo, più che le alte prelature clericali, scontenta i ricchi e i nobili: quella parte di privilegiati che detengono realmente il potere. Economico e politico. La Francia che, del resto, ne balza fuori è anche quella che si situa nelle azioni fatte svolgere tra la Restaurazione e le rivolte repubblicane del 1830; ma tutti sanno che la scenografia su cui si stagliano i frenetici intrecci tra le vite errabonde e miserevoli dei personaggi, è quella comunque attuale, degli anni ’50 e ’60 di un turbolento Ottocento.
La benevola accoglienza di massa che il capolavoro di Hugo ebbe fu data anche dal prendere posizione contro ogni ingiustizia senza, per questo, schierarsi con una corrente di pensiero politico o religioso. È l’autore stesso a dircelo: «Nel mio pensiero, “I miserabili” non sono altro che un libro che ha la fraternità come fondamento e il progresso come obiettivo».
Per questo non dispiacque agli ambienti cattolici che, pure, avevano avuto tanta parte nella trasformazione della Francia della Seconda Repubblica in quella del Secondo Impero: si apre con la storia del vescovo Muriel (“Un giusto“) e si conclude con un messaggio di “Pietà per gli infelici, ma indulgenza per i felici“. Hugo non ha preteso di piacere ad ogni classe sociale. Ha lasciato aperta la porta della comprensione dei valori che enuncia tra le righe, così da vellicare le coscienze si ognuno e si tutti al contempo.
Denuncia sociale e visione personale dell’autore si mescolano inevitabilmente, pagina per pagina, pagina dopo pagina. Se non avesse attraversato un così lungo periodo di lavorazione, comprese le non brevi pause tra una stesura e un’altra, probabilmente “I miserabili” sarebbe risultato essere un libro meno iconico di quanto fu costretto in un certo qual modo ad essere.
La galleria di vicissitudini, di angoscie e tormenti, di gioie e fervori rivoluzionari, è un tutt’uno che prende il lettore in un vortice spasmodico di voglia di andare avanti e non fermarsi, riga dopo riga.
La prosa di Hugo è davvero inebriante. Capace di descrizioni minuziose che zumano sul particolare di un abito, di uno sguardo, di un berretto, di una coccaarda tricolore, di un passo trascinato; altrettanto capace di allargare il campo visivo ad epopee storiche come Waterloo. Non poteva questo romanzo essere uno dei tanti; contiene così tanta originalità da somigliare ad altri capolavori balzachiani e tolstojani.
La critica della realtà, in fondo, pervade “I miserabili” così come Guerra e pace“. Si indaga il profondo dell’umano senza separarlo dalle contraddizioni dell’esistenza. Si indaga un incoscio non ancora ben identificabile in quanto tale e si perlustrano contemporaneamente i dintorni in cui è costretto ad esistere e a sopravvivere nella meschinità delle ingiustizie. A partire da quelle che provengono dalla morale superiore della Legge.
Al popolarissimo autore sarà permesso il rientro in Francia solo dopo la caduta di Napoleone III. La nuova Repubblica lo eleggerà deputato, lo acclamerà, lo saluterà con gioia.
Hugo biasimerà la Comune, ma pure la tremenda repressione che farà decine di migliaia di morti tra il proletariato ribellatosi alla schiavitù della borghesia. Il sogno di una repubblica universale che ha accarezzato dopo la sua gioventù romanticamente monarchicheggiante, rimarrà il sotteso delle sue opere. La sua fiducia in una umanità capace di riscattarsi dalle proprie miserie anche.
Anche a questo proposito, Jean Valjean, Marius e Cosette sono il trittico perfetto che esprime la rabbia, la passione e l’amore per i propri simili. Per appartenere ad un mondo ingiusto ma, oggi come ieri, in grado di cambiare radicalmente. In un intervento del 17 luglio 1849 all’Assemblea legislativa, Hugo dirà: «Vi saranno sempre degli infelici, ma può darsi che non vi siano più dei miserabili». Perché felicità e infelicità sono parte dell’umanità, della nostra ferina animalità. Ma la miseria è l’effetto di una organizzazione ineguale della società.
Che si può, quindi, cambiare.
I MISERABILI
VICTOR HUGO
EINAUDI, 2014
€ 25,00
MARCO SFERINI
20 marzo 2024
foto: particolare del disegno di Émile Bayard ritraente Cosette bambina presso la casa dei Thénardier, tra le illustrazioni dell’edizione dei “I miserabili” editi da Eugène Hugues (1879)
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