Detto con terapeutica ironia, il governo non pare abbia il controllo di sé medesimo non solo su tutte le tematiche sociali che vorrebbe affrontare ogni giorno, ma men che meno sembra essere equilibrato sul problema dei problemi: la crisi economica o, se volete, l’economia in senso lato, quella che tocca direttamente le nostre tasche e che quindi ci viene alla mente e magari resuscita un poco di rabbia classista nel constatare che le grandi multinazionali e i grandi gruppi godono di enormi sgravi fiscali e, in più, si esercitano abilmente nell’azione dell’evasione in materia di tasse, mentre un povero stipendio di un lavoratore è obbligatoriamente tassato da sempre.
Dal Giappone a Roma e viceversa, voci e comparsate televisive si smentiscono a vicenda: c’è chi si fa fotografare con la novità dei “minibot” che, ad occhio, sembrerebbero davvero una specie di valuta alternativa a quella vigente: non certo un bolscevico, ma bensì proprio Mario Draghi lancia l’allarme intravedendo non solamente una provocazione leghista ripetuta da Salvini più e più volte (ben sapendo di giocare col fuoco scoppiettante dei mercati) ma l’inizio di una campagna politica fondata su un distacco dall’Euro e quindi il non troppo difficile riorientamento dell’opinione pubblica su posizioni sovraniste anche in questo campo.
Infatti sondaggi e rilevazioni dell’umore popolare, dicono che, pur avversando la moneta unica europea, fenomeno manifesto di tutte le disgrazie del Paese nonostante si tratti di un feticcio, di un mezzo di scambio di altri valori, gli italiani non sono poi così propensi a fare il “salto nel buio” che hanno messo in essere in Gran Bretagna.
Si sa, l’Italia non ha una crescita economica tale da poter sostenere altro debito, eppure le cosiddette riforme sociali del governo sono tutte messe in conto debito e rimandate al pagamento che dovranno sostenere le generazioni future.
Un piano generale di riorganizzazione del lavoro non esiste: il cosiddetto “governo del cambiamento” non si è schierato dalla parte degli sfruttati, dei lavoratori e delle lavoratrici promuovendo e sostenendo la riduzione dell’orario di lavoro a 32 ore settimanali a parità di salario; non ha nemmeno preso in considerazione il ripristino di una tendenza a rivedere i contratti precari e a convertirli in contratti nazionali di lavoro; nemmeno per l’anticamera del cervello i ministri hanno riflettuto sul fatto che per avere maggiori introiti per una distribuzione equa delle risorse e per sostenere progetti di ricomposizione di uno “stato-sociale” degno di questo nome, avrebbero potuto istituire una tassazione patrimoniale, fortemente progressiva, che prendesse di più ai ricchissimi, partendo da un tetto di reddito annuo vicino al milione di euro.
Nulla di tutto questo è stato nemmeno messo in cantiere. Del resto, la risposta è semplice per chi vuole accontentarsi di una presa in giro: non era nel contratto di governo. In realtà nessuna riforma sociale degna di questo nome era nei programmi di due forze politiche che sposano interamente il punto di vista del mercato, del liberismo e che, con sfumature leggermente differenti, applicano tutto ciò a tentativi di gestione di una “pace sociale” tra le classi che, insistono, non esistono più, proprio come le “ideologie”.
Si nega l’evidenza: perché la lotta dei lavoratori del “Mercatone Uno” non è forse lotta di classe? Che ne siano consapevoli i lavoratori è questione da affrontare a parte, ma si tratta di un interesse socio-economico contro un interesse semplicemente economico (e rigorosamente privato). Salari contro dividendi aziendali. Sfruttamento del lavoro contro accumulazione dei profitti generata dall’immissione sul mercato dei prodotti “sociali” derivati dall’impiego di mano d’opera non retribuita per il vero valore che produce: altrimenti il “plusvalore” come potrebbe ancora generarsi in una società che viene quasi vissuta come post-capitalista mentre è tutta capitalista e si esprime nella sua più violenta traduzione concreta in ogni ambito di lavoro tramite il liberismo sfrenato?
Ma il governo, davanti ad una previsione di deficit del 3.5% (fino al 2020) fatta dalla Commissione europea, risponde con i “minibot”: in risposta al presidente della BCE, Palazzo Chigi avverte che non si tratta di una valuta parallela all’Euro. Forse, ribattono i giovani padroni riuniti a convegno, sono più simili ai “soldi del Monopoli”. Ribatte Salvini piccato che non è così e che comunque i “minibot” agli italiani piacciono. Lui lo sa: perché servirebbero a pagare i debiti della pubblica amministrazione.
Resta il fatto che non sarebbero solo dei pezzi di carta o monete come quelle che un tempo la Lega Nord faceva stampare come banconote della fantomatica “Repubblica del Nord” o della “Repubblica federale padana”. Quelle veramente non avevano corso legale tanto che, ad una manifestazione del Carroccio, ne comperai un paio con le allora lire italiane e le offrii ad un bussolotto per le sottoscrizioni che si trovava in uno stand leghista durante un comizio di Umberto Bossi. Il militante di verde vestito mi disse sorpreso: “Eh, ma quelle non valgono!”. “Come non valgono”, mi venne da ribattere aggiungendo provocazione alla provocazione, “sono i soldi della vostra nazione!”.
Questa volta non è così, i “minibot” rischiano di essere anche una provocazione di una Lega non più secessionista ma ipernazionalista, ma rischiano ancora di più di diventare uno strumento di progressivo addomesticamento delle masse all’idea che una alternativa all’Euro c’è in una Europa delle piccole patrie, dei muri e dei confini alzati contro il pericolo delle invasioni dei migranti.
Nessuna difesa dell’Euro politicamente inteso come lo è stato fino ad oggi dalle direttive della Commissione di Bruxelles e della BCE: ma possono i lavoratori e le lavoratrici assistere ad un ulteriore aggravio della loro condizione già miserevole soltanto perché un governo non ha la minima intenzione di mettere mano alle tasche dei ricchi e di redistribuire, con opportune tassazioni dei patrimoni faraonici dei paperoni di casa nostra, quanto è stato loro rubato con lo sfruttamento del lavoro parcellizzato e precario fatto avanzare (questo sì…) “come un treno”?
Paradossalmente un sistema economico continentale politicamente gestito per garantire gli stati più ricchi dell’Unione è oggi una forma di difesa rispetto alle bislaccherie di un governo che non è mai stato un “governo del popolo” e tanto meno amico dei lavoratori.
I lavoratori e gli sfruttati tutti non hanno mai avuto governi “amici”. Forse qualche governo “meno nemico” di altri. Ma la storia recente ci insegna che se si hanno i rapporti di forza completamente dalla propria parte, allora si può provare ad intervenire fortemente sul piano economico mediante quello politico; altrimenti l’appoggio dei comunisti o della sinistra (non il PD; tocca sempre ricordarlo…) a governi di centrosinistra non avrebbe altra funzione se non quella di rendere nuovamente più accomunabili centrodestra e finti riformisti progressisti: tutti a plaudire alle riforme dei governi tecnici.
L’alternativa, come s’è visto, non è arrivata nemmeno con il mostro bicefalo giallo-verde: dalla parte dei padroni sempre e comunque. Anche e nonostante le due pseudo-riforme del reddito e delle pensioni che, invece di essere finanziate con i soldi dei ricconi, sono messe a debito sulle spalle delle prossime generazioni.
Del resto… è il governo del cambiamento. In peggio.
MARCO SFERINI
8 giugno 2019
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