In un documentario a puntate sull’attualità del fenomeno migrante e sull’integrazione sociale del medesimo trasmesso da Sky Tg 24, ho notato ripetutamente un fatto molto curioso. Ve lo racconto.
Si intrecciano le storie di italiani e di migranti che, su fronti non sempre così opposti, raccontano come, nel mezzo della crisi economica, provano a sbarcare il lunario, a farsi strada in una sopravvivenza quotidiana davvero difficile da mantenere anche ai livelli più bassi della scala sociale.
C’è macellaio italiano che ha la concorrenza delle macellerie islamiche; c’è il venditore di abbigliamento che subisce la pesante concorrenza dei cinesi, fino ad arrivare all’esercito di disoccupati di lungo corso che, letteralmente, urlano davanti alle telecamere la rabbia di una condizione che attribuiscono alla presenza degli “stranieri” e, ovviamente, ai “privilegi” che hanno gli “zingari”.
Io metto tra virgolette questi termini spregiativi, ma per questi concittadini è un normale e coerente parlare della loro situazione: non c’è posto per analisi sociologiche e approfondimenti sulle cause che generano povertà, concorrenza sul mercato, e così via discorrendo.
Poi queste storie si incontrano e si scontrano con quelle degli immigrati di prima e seconda generazione, come Abul che ha sessantatrè anni e vive in Italia da decenni. Ha aperto una piccola attività di alimentari: vende frutta, verdura. Eppure non riesce ad avere un margine necessario per accumulare un po’ di risparmi. Le tasse si portano via molto del suo ipotetico guadagno.
Così accade anche sul fronte autoctono: la presenza del fisco è trasversale e colpisce tutti, proprio tutti i più poveri che intraprendono una qualche attività commerciale.
Ed è qui che emerge una differenza invece sostanziale nell’individuazione delle responsabilità di tutti questi problemi sociali, economici, civili.
Mentre gli italiani se la prendono con gli “stranieri” ed organizzano manifestazioni contro i campi rom, contro la presenza della manodopera cinese, contro l’apertura dei negozi di kebab, di macellerie islamiche, i cosiddetti “stranieri” si esprimono così: “Noi poveri paghiamo le tasse mentre i ricchi evadono”; e ancora: “In Italia c’è una grande democrazia, una grande libertà, ma i ricchi vivono sulle spalle dei poveri”.
Non operano una distinzione etnica nella loro critica sociale di una economia che si abbatte sulle loro vite, bensì distinguono tra detentori della ricchezza smodata e poveri.
I migranti hanno capito da dove arriva il pericolo per tutte e per tutti: italiani e “stranieri”, nessuno escluso.
I nativi dello Stivale, invece, questa contrapposizione tra ricco e povero, tra sfruttatore e sfruttato non la vedono: per prima cosa individuano nell’elemento razziale, nella diversità e nel fatto che “a casa loro” sono arrivate genti straniere, il casus belli di un disagio sociale che non può davvero essere attribuito a chi patisce le stesse sofferenze degli autoctoni.
Eppure questa elementare e, se volete, banale verità è completamente esclusa da qualsiasi ipotesi, anche da una lontana illazione nell’esaminare lo stato di miseria e di frustrazione conseguente che si vive ogni giorno.
In questi anni i movimenti xenofobi e razzisti italiani o ex padani hanno diffuso la paura come cardine di una base su cui fondare le ragioni di una primazia italiana rispetto a tutto il resto.
Siamo passati dal “Prima il Nord” a “Prima gli italiani”. Movimenti e partiti che hanno sempre inneggiato alla separazione del Paese tra settentrione ricco e meridione povero, tra produttori e parassiti, si sono riciclati abilmente in nuove forze nazionali che aspirano a governare in nome di un privilegio di assegnazione di diritti legato all’origine sociale e alla nascita.
Un bel salto di secoli indietro rispetto ai moderni princìpi liberali o anche soltanto alla nostra Costituzione repubblicana.
Questi movimenti hanno setacciato a fondo una coscienza civile che era già stata abbondantemente intaccata dall’utilizzo delle istituzioni pubbliche per fini privati, per arricchimenti di una classe politica che ha finito per distruggere anche l’ultima speranza di rappresentanza democratica dei cittadini nel Parlamento del Paese.
Disprezzo e odio sono stati gli assi portanti di un nuovo incivismo, di una regola antietica che si è imposta sulla natura vera delle migrazioni e sul fatto, comunque, che queste non hanno rappresentato mai un pericolo per la stabilità economico-sociale dell’Italia, ma anzi hanno rappresentato una salvezza per le casse dell’erario, per le contribuzioni previdenziali.
Senza i cosiddetti “stranieri”, senza i migranti che lavorano, oggi il nostro sistema previdenziale sarebbe in serie difficoltà (anche grazie all’abbandono da parte dei governi di una politica di sostegno del “fu stato sociale”…).
Eppure, nonostante tutto quello che ogni giorno i migranti si sentono ripetere, nonostante tutte le frasi di odio che piovono loro addosso, hanno saputo individuare la ragione prima della crisi: la natura di classe della medesima e la lotta che contrappone ricchi e poveri, sfruttati e sfruttatori.
I lavoratori italiani, in larga parte, hanno dimenticato questa origine della natura dell’economia capitalista che genera le condizioni di sfruttamento del lavoro che vivono e che subiscono, con sindacati spesso compiacenti col sindacato padronale (Confindustria) e con governi che regolano il loro intervento ad esclusiva tutela degli interessi dei profitti.
Quindi, la domanda è questa, alla fine: come sconfiggere le false mitologie dell’origine di tutti i mali dalla presenza migrante in Italia? Come smontare così semplicemente le menzogne dei fomentatori di odio a buon mercato?
Sinceramente non vedo altra soluzione che una riorganizzazione sociale su due piani distinti eppure ben legati da presente e futuro: scuola e lavoro. Aule di insegnamento e capannoni industriali (o qualunque altro luogo di lavoro) sono gli elementi su cui lavorare come sinistra comunista, come sinistra di alternativa per far rinascere quella coscienza di classe che persone semplici come molti migranti, senza alcuna lettura de “Il Capitale” o de “Il manifesto del Partito comunista”, hanno sviluppato da una mera, diretta osservazione di ciò che li circonda e delle condizioni in cui si trovano a vivere.
Aveva ragione Brecht: “Il Comunismo è la cosa semplice che è difficile fare”. La dimostrazione è tutta qui.
MARCO SFERINI
5 gennaio 2016
foto tratta da Pixabay