I miei sette padri

La prima impressione della continuità viene dalla comparazione: tra “I miei sette figli” di Alcide Cervi e “I miei sette padri” (stampato a cura dell’autore) di Adelmo Cervi non...

La prima impressione della continuità viene dalla comparazione: tra “I miei sette figli” di Alcide Cervi e “I miei sette padri” (stampato a cura dell’autore) di Adelmo Cervi non c’è solamente una linea del tempo che non si spezza, che prosegue con una logicità data dai fatti storici. No, sembra che a scrivere sia sempre Alcide o che, ribaltando la similitudine, che ad aver allora messo insieme quel piccolo libro di ricordi sia stato Adelmo e non suo nonno.

La famiglia Cervi rimane un corpo solo, unico, solcato dalla ferita apertasi il 28 dicembre 1943, quando il fascismo di Salò arruola da mesi nel suo posticcio esercito, alla totale dipendenza dei comandi militari germanici, tutti coloro che sono abili al combattimento per una causa che i manifesti affissi per le vie e le piazze di mezza Italia (ma proprio mezza, nel senso letterale del temine, visto che al Sud gli Alleati avanzano e puntano verso Roma) definiscono come la reazione al “tradimento del Re e di Badoglio“.

Insomma, il peggio del peggio del regime mussoliniano, perché ferito quasi a morte, vilipeso dalla storia, torcido come non mai, grigio e tetro, che si specchia sulla tristezza lacustre del Garda, che si fa ancora più un tutt’uno con la criminogenia hitleriana, degli alti comandi militari e di quelli delle SS.

In quel gelido inverno del ’43, la casa dei Cervi è un avamposto resistenziale, un luogo politico, dove si discute, si parla, si commenta; dove nasce e cresce l’antifascismo che da contrapposizione meramente ideologica, ideale, concettuale, diventa sostanziale, fattività, azione.

Adelmo non se lo può ricordare, ma ne ha sentito dire, glielo hanno raccontato fin da quando era bambino. In un prologo breve, che è un piacere leggere perché preannuncia tutta la schietta spontaneità della prosa diretta che utilizza, senza mediare tra detto e scritto, pensato e parlato, raccontato e vergato sulle pagine del libro, lo dice lui stesso: «Questa non è La Storia. Questa è una storia. Dove prendo quello che mi hanno raccontato, ci attacco quello che non mi hanno raccontato e lo condisco con quello che ho scoperto e imparato leggendo libri e parlando con altri – parenti, amici, studiosi».

Quasi quattrocento pagine di una genuinità che odora della pianura del Po, che si sbriciola come la terra quando il racconto si fa leggero, quando l’anedottica prevale spensieratamente sulla asperità dei tempi, sulla durezza degli eventi, su tutto quello che il fascismo ha fatto patire all’Italia e, per conseguenza, alla famiglia Cervi.

La ricchezza delle descrizioni rimanda un po’ a Tolstoj. La coloritura, tutt’altro che artefatta o mistificatoria, lontana da qualunque tentazione agiografica o da una enfatizzazione anche soltanto involontaria, che riluce dalle parole, dalle immagini che prendono forma durante lo scorrere delle pagine e dentro, davvero, ognuna di loro, è la peculiarità di chi scrive con il compito di unire ricordo e storia, memoria sia familiare sia sociale.

Inevitabile per Adelmo raffrontarsi con tutto quello che è stato detto, scritto e anche filmato ad ottanta anni a questa parte sulla fucilazione dei sette fratelli: la letteratura in merito è ampia, la storiografia ha giustamente rilevato l’emblematicità del caso di una intera famiglia falcidiata eppure rivissuta in Alcide, nelle mogli dei suoi figli e nei nipoti che erano quell'”altro raccolto” con cui “si va avanti“.

E’ vero, questa è “una” storia, ma, nonostante l’articolo indeterminativo che Adelmo tiene a mettere avanti a tutto nel prologo, è e rimane “il racconto” di cui anche la Storia si deve nutrire per poter continuare a tramandare la storia di una Resistenza al nazifascismo che è fatta di tantissimi tragici episodi, collegati l’uno all’altro dalla voglia di tornare ad una vita libera o, forse, di conquistarla per la prima volta.

Il figlio che non ha mai conosciuto il padre, alla fine è come se l’avesse sempre avuto vicino a sé e oggi mettesse nero su bianco il ricordo di una lunga vita trascorsa insieme. Da quando ha scritto il libro, sono passati quasi dieci anni, e l’Italia è diventata sempre un po’ più di destra, oppure lo è tornata ad essere, diversamente, ma pur sempre anelante ad un uomo (o ad una donna in questo caso) forte che potesse mettere mano ai problemi del Paese.

Potrebbe sembrare un paradosso sempre attuale, quello della realtà dell’oggi che fa a pugni con una verità storica in cui sono – o dovrebbero essere – evidenti i crimini del fascismo ma, più ancora, tutti i pericoli che si corrono quando ci si getta tra le braccia di forze politiche marcatamente nazionaliste, che distinguono per discriminare, che valorizzano una parte per svalorizzarne un’altra e che non hanno una visione sociale dei drammi odierni, delle diseguaglianze che aumentano.

La lotta della Resistenza, l’antifascismo soprattutto post-bellico, arrivato fino a noi sulle gambe e nelle menti di una buona parte di generosi sostenitori della memoria storica ma pure dell’attualità della Costituzione repubblicana, sono messi in discussione a partire dai prinìpi fondanti l’alternativa ad ogni autoritarismo, ad ogni tendenza assoluta, ad ogni uniformità che diventa unicità.

Il revisionismo (anti)storico ha tentato di rovesciare le carte, di capovolgere i fatti. Ma non è possibile decostruire racconti come quelli di Alcide ed Adelmo Cervi. Non è possibile perché la testardaggine del realmente accaduto è una oggettività che oltrepassa i desiderata delle destre, la insidiosa sottigliezza di argomentazioni speciose, proposte come una rilettura di quello che avvenne e che – dicono i revisionisti e i politici (non solo) di destra – è stata una sorta di mitizzazione della Resistenza.

Quello di Adelmo è il racconto del nonno, da ascoltare accanto al fuoco, magari accovacciati su un divano o ai suoi piedi, con occhi trasognanti e un velo di tristezza. La memoria nitida è il frutto di una vita mai separata da sé stessa, che si è votata alla semplicità del tramandare quello che non solo i libri di storia sono deputati a riportare e a rinverdire del passato.

Alcuni capitoli sono estremamente narrativi, descrittivi dei luoghi e delle persone, di coloro che erano attorno alla famiglia Cervi e che ne hanno vissuto il dramma. Altri, invece, sono vere e proprie pagine di sintesi storica tra quello che sappiamo dai libri già scritti e quello che Adelmo ha assimilato tra le mura di casa. Di quella casa che una notte di fine dicembre del ’43 venne circondata e anche saccheggiata.

Si salvò solo una macchina da cucine. Alcide disse che l’avevano comperata da poco, che gliela lasciassero alle donne. Tutto il resto fu portato via. Per primi i suoi sette figli e lui stesso. La madre morì un anno dopo l’assassinio dei figli. Di dolore. Il partigianato si strinse attorno alla famiglia e la famiglia crebbe, divenne monumento alla Resistenza, simbolo del sacrificio massimo. Un simbolo pesante.

Rivolgendosi al padre, Adelmo conclude così una storia che continua: «…portare sulle spalle e dentro la testa questa storia – non ti offendere se te lo dico – è un peso della Madonna, è una responsabilità, un lavoro, un obbligo, una catena. Sì, scusa, hai ragione. No, non me lo dimentico che siete morti. Morti da coraggiosi, morti senza aspettarvelo, morti perché avevate pensato che forse non sareste, morti, non tutti, non tutti insieme, non così…».

Dopo un raccolto ne viene sempre un altro. E per questo il fascismo può prevalere ma non vincere, perché ci sarà sempre qualcuno che si ribellerà. Anche quando intorno a noi le coscienze paiono addormentate, anestetizzate da un conformismo insopportabile. La Storia fa dei salti, a volte, davvero incredibili, impensabili.

I MIEI SETTE PADRI
ADELMO CERVI
(pubblicato a cura dell’autore)
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MARCO SFERINI

18 gennaio 2023

Foto: particolare della copertina del libro

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