Samir Amin, il cui nome a molte e molti dirà poco o niente, è stato uno dei più importanti economisti del secolo scorso, entrato per ancora un ventennio nel nuovo millennio: abbastanza per intuire le prospettive rovinose di un capitalismo che per tutta la sua vita ha analizzato minuziosamente, formulando teorie ed analisi che hanno influenzato gli studi di generazioni.
La parabola ascendente del liberismo, la moderna forma espressiva dell’aggressione più brutale del capitale nei confronti delle masse sotto il dominio della globalizzazione, che abbiamo imparato a distinguere con lavori come quelli di David Harvey (“Cronache anticapitaliste“) e Thomas Piketty (“Il capitale nel XXI secolo“), è ricostruibile, a dire il vero, molto prima di quegli anni ’70 in cui la collochiamo così come si è stabilito convenzionalmente che il Medio Evo inizia dalla caduta dell’Impero romano d’Occidente.
Potremmo provare a sviluppare questo ragionamento partendo proprio da Bretton Woods, dagli accordi di quel luglio del 1944 quando, volendosi lasciare alle spalle la “Grande depressione” e guardando oltre una Seconda guerra mondiale che mostrava tutti i sintomi della vicina sconfitta totale dell’Asse, i paesi più industrializzati e moderni siglarono una serie di accordi per adeguare le politiche monetarie sconvolte tanto dalla crisi economica quanto dal conflitto.
Nacquero così il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e la Banca Internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo. Il capitalismo giocò la sua carta per mettersi al sicuro dopo un quarantennio di sconvolgimenti globali, in previsione proprio di una stabilizzazione altrettanto globale.
Fu una mossa azzardata ma, ormai storicamente provabile, anche intuitiva e, per questo, vincente: fino a quegli anni ’70 in cui fece la comparsa la nuova stagione dell’economia liberista, il sistema tenne in relazione le nazioni più differenti dentro un serie di rapporti condivisi che vennero supportati dai fondi comuni, dal mutuo aiuto che si diedero paesi tanto differenti quanto accomunati da quello che avremmo successivamente chiamato “boom economico” in Italia e “sviluppismo” nel resto del pianeta.
Ma la originaria natura di controllo degli scambi monetari e di ricostruzione di una rete commerciale multilaterale, tesa proprio a non determinare nessun privilegio di sorta tra i vari continenti, venne ben presto influenzata dalla predominanza statunitense e gli organismi di Bretton Woods divennero, da processo di condivisione globale, degli spietati guardiani della stabilità del dollaro e dell’imperialismo a stelle e strisce.
Osserva Samir Amin, in un saggio che qui presentiamo come utile supporto per la comprensione dell’involuzione del FMI e della Banca Mondiale, a far data essenzialmente dai venti anni successivi ai primi vent’anni di vita de “I mandarini del capitale globale” (Datanews, 1994, titolo originale: “Fifty years is enough“), che, in termini di sviluppo economico – sociale, il capitalismo postbellico non ottenne quei risultati che la ricostruzione di intere nazioni faceva ipotizzare, lasciava intendere e permetteva di sperare soprattutto per già ricchissimi costruttori e padroni di tante filiere produttive.
Dopo la primissima fase di recupero delle forze, di rimodulazione delle singole economie statali nel contesto della globalizzazione, se ne avvia un’altra di tutt’altro tenore. E’ a cavallo tra gli anni ’70 e ’90 del secolo scorso che, proprio partendo dal rapporto tra Stato e mercato, ci si rende conto di ulteriori contraddizioni che intercorrono tra economia locale e globale, tra economia stessa e politica.
Struttura e sovrastruttura interagiscono ma, a differenza delle teorie esclusivamente votate al mercatismo più spinto, che tenderebbe ad escludere la presenza pubblica nelle dinamiche degli scambi merceologici e finanziari, molti economisti – e non solo certamente marxisti come Amin – si rendono conto che il ruolo dello Stato è determinante come “autorità collettiva” nello schema di quello che viene definito il “capitalismo realmente esistente“.
Lo Stato diventa inseparabile dal capitalismo e, per questo, questa simbiosi abbisogna di una nuova teoria e di una nuova pratica di azione e interazione: il liberismo – come ci ha spiegato molto acutamente Harvey – assolverà a questa funzione mediatrice e fonderà un nuovo modo d’essere tanto della globalizzazione quanto del nazionalismo.
Samir Amin coglie questo punto fondamentale nello sviluppo dell’economia mondiale, mantenendo comunque la sua convinzione che la Teoría de la Dependencia abbia un valore proprio nella modernità che avanza con prepotenza: i paesi dell’America Latina, dell’Africa e dell’Asia (se si escludono Cina e Giappone inizialmente, successivamente anche l’India), quelli che, fondamentalmente, negli ultimi due secoli e mezzo si sono progressivamente liberati dall’oppressione colonizzatrice, rimangono in un rapporto – appunto – di “dipendenza” dal cosiddetto “mondo moderno“.
I “mandarini del capitale globale” che Amin analizza con grande precisione e accuratezza, dopo i fatidici anni ’70 del Novecento, sono costretti a fare i conti con un “eurocentrismo” che richiama una forma confederativa di una serie di economie nazionali che stanno troppo strette entro i loro confini e che, quindi, se vi rimanessero cocciutamente recluse, finirebbero col determinare uno squilibrio economico nell’attualità del contesto e una dicotomia con il passato di una Europa che ha occupato tutto il resto del mondo (fatta salva la parte asiatica del vecchio asse intercontinentale).
Scrive Samir Amin: «Mi pare chiaramente possibile dividere il secondo dopoguerra in due periodi, uno di crescita (1945-’75) e uno di crisi (a partire dal 1968-’73-’75)». E’ sulla base di questa divisione temporale che si possono studiare i passaggi da un tipo di capitalismo a carattere pluricontinentale ad uno di tipo oggettivamente globale.
Quello che oggi in moltissimi si affannano a richiamare alla mente come un grande complotto planetario da parte di ricchissime famiglie di banchieri, di ebrei e di massonerie non ben definite, ossia il “Nuovo Ordine Mondiale“, per Amin ed altri economisti (ripetiamolo: anche non marxisti), è il concetto, la locuzione o, più semplicemente, soltanto il nome che prende un tipo di crisi economica del capitale nell’ultima parte del secolo scorso.
In altri termini, si potrebbe rovesciare il concetto e parlare di “Nuovo Disordine Mondiale“, visto che il capitale liberista è del tutto incapace di controllare le proprie crisi che, come si è potuto vedere nel biennio 2008-2009, sfociano in un caos economico e finanziario che fuoriesce da bolle speculative incontenibili, dagli effetti assolutamente imprevedibili e che, dopo essersi diffuse largamente in lungo e largo per il globo, dopo aver condizionato gli andamenti borsistici universali, assestano il sistema dei profitti e delle merci su un nuovo piano di instabilità.
Scrive ancora Samir Amin: «Una congiuntura così particolare invita a tornare sulla questione delle tendenze spontanee nella gestione del capitale. E’ in questa prospettiva che ho messo l’accento su quelli che io chiamo i “cinque monopoli“ (monopolio del mercato finanziario di capitali; delle nuove tecnologie; delle armi di distruzione di massa; dei sistemi comunicativi globali; dell’accesso alle risorse naturali del pianeta – Ndr) attraverso i quali il dominio dei centri sulle periferie potrebbe svilupparsi nell’avvenire prossimo».
L’economista egiziano lo scrive nel 1994. Sono passati quasi trent’anni e, come è evidente a ciascuno di noi, ci troviamo a lottare contro un mercato finanziario squilibrato; con tecnologie nuovissime che, in rapidissima successione, influenzano i processi economici; con armi di distruzione di massa che alimentano un mercato delle guerre imperialiste che penetra nel cuore della vecchia Europa, che si allarga al Mare Cinese Orientale, dalla Corea a Taiwan; con una comunicazione globale che sovverte ogni principio di vecchia ambasceria diplomatica (basti pensare all’uso di Twitter o di altri social…); con una crisi climatica e ambientale sempre più presente tra noi.
La funzione originaria del FMI e della Banca Mondiale sono, così, qualcosa di estremamente differente dalla missione primordialmente affidata loro dai paesi contraenti gli accordi di Bretton Woods e, al contempo, fanno la storia di un processo evolutivo disaggregante e ricostituente di un capitalismo che è transitato per oltre settant’anni in mezzo a crisi cicliche e che per sopravvivere ha avuto bisogno di occupare ogni porzione del pianeta, sfruttarne esasperatamente le risorse e creare quelle dipendenze tra centro e periferie che Amin ha studiato per molti anni.
La risposta a tutto questo, se si vuole evitare la catastrofe che deriverebbe dall’esponenzializzazione delle diseguaglianze marcatamente in aumento ovunque, dovrebbe essere una sorta di “controglobalizzazione“, quel “socialismo mondiale” che l’economista egiziano richiama nell’ultimo breve capitoletto di questo saggio quasi trentennale.
Nei primi anni del nuovo millennio abbiamo parlato spesso di G8, poi di G20 e molto poco dell’ONU, di altre alternative al governo mondiale tanto dell’economia quanto della reciprocità tra i popoli e del loro rapporto con la natura e l’habitat sempre più malsano in cui vivono e costringono a vivere tutti gli altri esseri viventi, tutti gli animali “non umani“. Se il G7 era il controllore del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, snaturati così dal loro compito iniziale di regolatori degli squilibri economici e finanziari tra gli Stati, il G20 oggi è divenuto, anche numericamente, il fenomeno lampante dell’estensione del potere e della sua articolazione.
I mandarini del capitale globale si sono moltiplicati ma riconoscono un regime di concorrenzialità vicendevole che li porta ad un nuovissimo, cinico e barbaro gioco al massacro: si intende, sulla pelle dei popoli. Proprio come quello ucraino, proprio come quello russo.
La conclusione è che ha ragione Samir Amin: a capitalismo globale si risponde con socialismo globale. Anche se non è chiara quella che lui definisce «la questione delle caratteristiche della mondializzazione (forza obiettiva determinante? Una tendenza fra le altre?)». Determinate leggi dell’economia liberale entrano in crisi con i nuovi modelli di mercato, di sfruttamento della forza lavoro, di finanziarizzazione del sistema, di utilizzo delle materie naturali, di condivisione e scambio delle merci.
I “cinque monopoli” rimangono una valida cartina di tornasole per analizzare i livelli di penetrazione del liberismo, ad esempio, nel continente africano e nell’America Latina, dove la depredazione è massiva, dove un neocolonialismo che parte da Est giganteggia con quello tradizionale occidentale. Nonostante la natura costringa a correre ai ripari, prima che l’inevitabile diventi l’ultimo orizzonte della specie umana (e non solo di questa), una risposta di sinistra tarda a venire.
Una alternativa politica non si concretizza e rimane, in larga misura, in balia delle seduzioni governiste, dei tentativi di mediazione che, alla fine, sono una pia illusione, una eccentricità dei riformismi che si pervertono nel volersi mostrare come l’unica possibilità concreta di passaggio dall’economia di mercato all’economia sociale, alla fine dell’economia.
Samir Amin trent’anni fa aveva riflettuto sulla conversione del FMI in una sorta di luogo dove prendesse corpo uno “spirito di interdipendenza regionale/mondiale“, una mutazione genetica della missione capitalista in una nuova di tipo sociale. Si avvide ben presto che tutto questo era impossibile, confermando che il capitale non è riformabile, ma solo oltrepassabile.
La convivenza tra socialità e mercato è la vera utopia. L’utopia, tutt’oggi, dei mandarini del capitale globale e dei loro servizievoli amici delle riforme.
I MANDARINI DEL CAPITALE GLOBALE
SAMIR AMIN
DATANEWS, 1994
Su Google, dove poterlo ancora trovare
MARCO SFERINI
19 aprile 2023
foto tratta da Wikipedia