Il welfare italiano, il fisco, il mercato del lavoro, sono costruiti in modo tale da penalizzare i più giovani, specialmente i millennials (nati negli ultimi anni del secolo scorso): e se fino a 15 anni fa ci si rendeva indipendenti all’età di 30 anni, oggi per lasciare casa di mamma e papà e vivere del proprio ci si deve avvicinare ai 40. A denunciare il ritardo del nostro Paese è la ricerca della Fondazione Bruno Visentini, Il divario generazionale tra conflitti e solidarietà, presentata ieri alla Luiss. Colmare il gap, è l’invito alla politica: riequilibrando il fisco, con un maggiore carico sui più anziani e benestanti, e imponendo un contributo temporaneo di solidarietà ai pensionati più ricchi.
«Se un giovane di vent’anni – spiega la ricerca – nel 2004 aveva impiegato 10 anni per costruirsi una vita autonoma, nel 2020 ne impiegherà 18 (arrivando quindi a 38 anni), e nel 2030 addirittura 28: diventerebbe, in sostanza, “grande” a cinquant’’anni».
Il costante deterioramento della condizione dei nostri giovani è dovuto al fatto che questi «crescono in una società costruita e gestita a misura delle generazioni precedenti – spiega sempre la ricerca – e “dominata” dai baby boomers». Quella generazione, cioè, «dei sessantenni e settantenni di oggi, che hanno goduto di una emergente gioventù e oggi approdano, nel complesso, a una confortevole vecchiaia da silver boomers». Nel complesso, appunto, perché non si può neanche dimenticare che tra i nuovi poveri o a rischio povertà compaiono già da tempo molti over 65 con la pensione sociale o con redditi molto bassi.
D’Altronde la componente più preoccupante della gioventù italiana è quella dei cosiddetti Neet, i ragazzi e le ragazze che non lavorano né studiano. E che ingrossano, rimanendo in uno stadio sostanziale di passività, il già enorme esercito dei disoccupati (oltre 3 milioni nel complesso).
Neet che hanno anche un alto costo per le casse dello Stato, peraltro crescente negli anni. Nel 2011 la cifra è stata di 23,8 miliardi, schizzata a 34,6 nel 2014, per poi scendere a 32,6 nel 2016. Rappresenta il 2,3% del Pil, e «a pesare è soprattutto il costo delle risorse “non sfruttate” e non tanto le spese sostenute dallo Stato».
A questa congiuntura, che penalizza i giovani con alti tassi di disoccupazione mai registrati prima d’ora per un periodo così prolungato, si deve aggiungere il trend a lungo termine dell’invecchiamento della popolazione. Un elemento che mette a rischio la sostenibilità dei sistemi pensionistici e sanitari, e che a maggior ragione tende a spostare risorse verso le fasce di età più elevate a discapito dei più giovani.
E le previsioni dell’Ilo sull’occupazione non sono certo rosee, almeno per l’Europa meridionale, e quindi per il nostro stesso Paese: complessivamente nel Vecchio continente la forza lavoro (14-65 anni) decrescerà, come anche il tasso di disoccupazione (dal 9% al 6%). Ma se l’occupazione nei paesi nordici sarà superiore al 55%, nel Sud dell’Europa non andrà oltre il 45%.
Bisogna costruire dunque, suggerisce la Fondazione Bruno Visentini, un sistema complessivo che venga incontro alle giovani generazioni: innanzitutto creando metodi di misurazione, di «diagnosi» del problema, che sempre più inducano i decisori e l’opinione pubblica a tenere nella giusta considerazione il divario generazionale e i suoi effetti.
Eseguito il monitoraggio, si dovrà elaborare una vera e propria Legge quadro, per aggredire e ridurre il gap. Il faro dovrà essere la Costituzione italiana: in particolare quando parla di «uguaglianza», e della necessità che i politici «rimuovano gli ostacoli» al suo raggiungimento da parte di tutti i cittadini.
Bisognerà dunque «redistribuire», come in un sistema dei vasi comunicanti, con le risorse che viaggiano dai baby boomers (ormai silver boomers) giù verso i loro figli e nipoti, rompendo «l’immobilismo della ricchezza» imposto dalla generazione oggi dominante e permettendo di costruire un welfare, un fisco, un mercato del lavoro più a misura di giovane, così che quest’ultimo possa accedere a una abitazione propria e a un reddito dignitoso.
Sembra il mondo dei sogni, un’utopia vista da un’Italia da cui ogni anno emigrano oltre 100 mila nostri concittadini. Ma in realtà basterebbe un accorgimento: va riequilibrato il fisco secondo la solidarietà intergenerazionale. Con due mosse. La prima è «la rimodulazione dell’imposizione in termini redistributivi, fondata sulla diversa attitudine alla contribuzione in ragione della maturità fiscale». Si tratterebbe insomma di una modifica strutturale del fisco.
Seconda mossa, temporanea: un patto tra generazioni della durata di tre anni, con «circa due milioni di pensionati, posizionati nella parte apicale delle fasce pensionistiche, chiamati a “contribuire” allo sviluppo di un altrettanto numero di Neet». Creando così un fondo per le politiche giovanili, da cui attingere per la formazione e gli incentivi alle assunzioni, che dovrà essere almeno di 30 miliardi per riequilibrare la cifra che gli stessi Neet costano allo Stato ogni anno.
E ricordando che, ad esempio sul fronte educazione, c’è ancora tanto da fare, se è vero che l’Italia spende per questa voce poco più del 4% del Pil: la metà di quanto viene investito da Danimarca e Nuova Zelanda, decisamente meno di Francia e Germania.
ANTONIO SCIOTTO
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