La debolezza del governo con quali parametri si misura? Allo stesso modo, con quale metro si giudica la sua forza, la sua capacità di intervento secondo i dettami costituzionali?
Sono domande non da poco conto, tenendo presente che non esiste praticamente nessuna legislatura che abbia visto la presenza di un esecutivo che dirigesse il Paese senza troppi scossoni e senza dover ricorrere, di volta in volta, a rimpasti di governo, sostituzioni di singoli ministri per far quadrare sempre un cerchio che assumeva le geometrie più disparate e rischiava di far finire anzitempo l’opera di Palazzo Chigi.
Solo i governi di Craxi e di Berlusconi possono vantare il primato di una durata indubbiamente molto più lunga di tutti gli altri che si sono succeduti dall’avvento della Repubblica il 2 giugno del 1946.
Indubbiamente le motivazioni di queste eccezioni, che invece dovrebbero essere la regola, vanno ricercate nel momento della stretta attualità che vivevano le condizioni economiche, internazionali e – ovviamente – di politica interna del Paese.
Sarà interessante andare al cinema a vedere “Hammamet“, con un Pierfrancesco Favino che interpreta Bettino Craxi fuggito ad Hammamet per sfuggire all’arresto in Italia dopo la “rivoluzione” di Tangentopoli, per capire se oggi dobbiamo rivolgerci alla figura del vecchio pupillo di Pietro Nenni quasi come ad un esempio, quanto meno, di stabilità governativa in una democrazia instabile, sempre sulla fragile ed esile rottura del ghiaccio sottostante, ansiogenicamente appesa ad una speranza patologica di sopravvivere a sé stessa nonostante gli attacchi interni ed esterni.
L’incontro tra la posizione di Donat-Cattin e quella di Craxi, quel cercare di mettere il Partito Comunista Italiano fuori da qualunque orbita di governo, non solo serviva allo scopo di riequilibrare i rapporti interni alla Democrazia Cristiana, ma serviva anche ad aprire una stagione nuova nel PSI, spostatosi ormai in quello che sarà il “centrosinistra” di primo modello: il pentapartito formato, oltre che dai socialisti, appunto dalla DC, dal Partito Socialista Democratico Italiano, dal Partito Repubblicano Italiano e dal Partito Liberale Italiano.
La formula tenne per molti anni, regalò anche stabilità ai governi craxiani, fino a che la DC, chiedendo la “staffetta” nel secondo governo Craxi, mise in crisi l’assetto dell’esecutivo e lo stesso rapporto con il PSI. Le colpe di chi furono? Qui in punti di vista lasciano corso all’interpretazione dei fatti: ma i fatti, comunque restano: la posizione subalterna dei cattolici rispetto ai socialisti moderatissimi di Craxi doveva terminare. Ed infatti fu così.
Poi accadde ciò che sembra avvenire anche oggi, pure sovente: lo chiameremmo un “tira e molla“, per ottenere da una maggioranza di governo il più possibile pur essendo in una posizione di minoranza. Allora questa tecnica di appoggio a corrente alternata ad un governo venne definita “rendita di posizione“, oggi più sbrigativamente potrebbe essere definita una tecnica ricattatoria per far valere la propria pochezza in virtù di numeri che altrimenti diventerebbero sfavorevoli per la tenuta dell’esecutivo senza dubbio al Senato della Repubblica, molto meno in seno alla Camera dei Deputati.
Tutto frutto di una democrazia pasticciata, intrisa di incostituzionalismi scoperti anni dopo che sono stati messi in essere con la promulgazione di leggi elettorali che privilegiano il più forte e penalizzano il più debole, mettendo in pratica l’esatto contrario di quell’impianto di tutela dei diritti sia singoli sia collettivi che uno Stato repubblicano (con una chiara tendenza quindi a volgersi verso una specie di eguaglianza di tutti i cittadini davanti all’unico sovrano possibile: il popolo) invece dovrebbe conservare come chiave di volta per la soluzione di tutte le sue controversie interne tra poteri e ruoli istituzionali.
L’equilibrio non sta dunque nella perfezione costituzionale, nel bicameralismo perfetto: ci si avvicina a questo obiettivo, ma non lo si raggiunge mai, perché alla fine è sempre e solo l’accondiscendenza del potere economico che dà alla politica di governo la forma che le è più propria per garantire i privilegi delle classi dominanti.
Non vi è nessun tentativo, velato o meno, di rivalutazione del craxismo nel constatare che tanto l’abilità di equilibrio stabilita nel pentapartito quanto nella successiva “rendita di posizione” esercitata al di fuori dal contesto governativo, giocarono un ruolo non di poco conto nel mostrare come avrebbe dovuto diventare “sostanza” quella forma di potere esecutivo sempre troppo spesso dimezzata nelle sue funzionalità proprio dalla durata limitata dell’esercizio delle funzioni di questo o quel Presidente del Consiglio dei ministri.
Il craxismo è una delle stagioni più controverse del periodo repubblicano e, chiaramente, non può dirsi una stagione in cui la democrazia ha trovato la sua migliore interpretazione ed esplicazione: tutt’altro.
Forse Forattini esagerava nel disegnare Craxi come un novello duce, ma la preponderanza socialista (che di socialista aveva pochissimo) aveva per la prima volta dal dopoguerra messo nelle mani di un partito di minoranza le condizioni per essere il partito guida del governo. Saldamente alla guida del Paese rimaneva, in qualche modo, la Democrazia Cristiana, nonostante le prime crepe si allargassero sotto il peso delle inchieste che venivano avanti per gli eccessi di abuso di potere, di utilizzo delle risorse pubbliche a scopi privati.
La cattiva politica socialista e democristiana, antipopolare, filopadronale ed atlantista, appare però una politica titanica, giganteggiante rispetto alle miserie di una continua baruffa tra nani di governo che oggi pensano, tuttavia, di essere dei giganti.
La domanda necessaria, a questo punto, è: chi è il gigante? Salvini? Difficile poterlo affermare con certezza: più che un gigante, appare come quelle figure dei carri del carnevale di Viareggio. Grande, sorridente, enormemente ciondolante a destra e a sinistra per raccogliere consensi da un popolo scontento da una “piccola politica” borghese rispetto alla “grande politica” borghese degli anni ’70 e ’80, quando fare affari con gli industriali rendeva sul piano governativo e assicurava posti di potere veri e propri.
In mancanza di statisti anti-Stato, anti-Repubblica come ve ne erano un tempo, bisogna accontentarsi delle miserie odierne: cialtronaggine spacciata per nuova politica emergente, capace di inserirsi non nei bisogni della gente (accattivandosi una parte di proletariato di allora…) e al contempo fare i propri interessi privatissimi (con soldi pubblici); capace semmai solamente di inserirsi nella disperazione di gran parte della popolazione e sfruttarla per ottenere consensi che sembrano difficili poi da conservare, da gestire, da portare come dote ai nuovi industriali che dovrebbero essere fonte del vero potere.
L’Italietta di oggi, in fondo, tende sempre più a somigliare a tutte quelle imperfezioni che si ritrovavano nel nostro Paese appena formatosi in Stato unitario nel 1860/61, con un lungo tragitto da compiere prima di assumere una lieve fisionomia nazionale.
Del resto, quando il maggior partito indipendentista della presunta “Repubblica del Nord” o, successivamente, della “Padania” diventa un partito nazionale non per vocazione ma per necessità (“che muove il mondo” ma non le stelle, con licenza e quindi perdono da parte del Padre Dante…), l’opportunismo tutto italico riemerge dalle catastrofi antipolitiche proprio del craxismo, del berlusconismo e del renzismo. Tutti questi “ismi” hanno reso la nostra Italia un luogo socialmente debole, costituzionalmente precario, democraticamente instabile.
E sarebbero questi i patrioti, quelli del “Paese che amo” di ormai fine novecentesca memoria? Il “salvinismo” può iniziare ad aggiungersi al resto del rosario delle disgrazie italiane. O forse no. Dipende dalla coscienza sociale, civile e morale di un popolo che può riacquistarla se avrà dalla sua parte forse politiche di una sinistra di opposizione e di alternativa che abbiano deciso di farla finita una volta per tutte con compromessi e comprossioni proprio con coloro che sono all’origine della povertà complessiva (non solo economica) dell’Italia del 2020…
MARCO SFERINI
28 dicembre 2019
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