Con questo intervento riprendo, pur introducendo elementi di novità, anche alcune argomentazioni già esposte nei giorni scorsi cercando di fornire una veste il più possibile organica all’argomentazione riguardante la necessità di una soggettività politica rappresentativa della storia e della realtà della sinistra italiana. Mi scuso in anticipo perché alcuni passaggi sono ripresi da interventi precedenti ma mi è parso indispensabile ripetermi proprio per motivi di organicità del discorso. La terza parte poi presenterà aspetti davvero futuribili sui quali mi è però parso di dover porre l’accento, sia pure in una forma assolutamente problematica, proprio ai fini della completezza del discorso.
Avvio quest’abbozzo di riflessione partendo da un’intervista rilasciata da Jon Lansman e pubblicata dall’Espresso: argomento il Labour Party e la sua politica interna e internazionale, di cui Lansman cura la strategia. In quel testo mi è parso molto significativo questo passaggio:
Domanda: ….come si pone il Labour rispetto ai suoi colleghi nel Continente:
Risposta: Noi siamo storicamente diversi da molti altri partiti europei, ma la mia opinione è che dobbiamo avere rapporti più stretti con loro.
Domanda: In Italia?
Risposta: Non altrettanto. Noi lo vorremmo. Ma con chi e che cosa dovremmo. Ma con chi e con cosa dovremmo legarci esattamente?
Domanda: Già. Perché oggi nel paese della Thatcher c’è il partito socialista più forte e nel paese di Gramsci c’è la sinistra più debole?
Risposta: Voi avevate il partito comunista più forte dell’Europa Occidentale, me lo ricordo bene. Ed è curioso che in tutta l’Europa ora parlino di Gramsci mentre da voi si parla solo di Salvini. Comunque, in generale, penso che il crollo del Muro abbia danneggiato la sinistra perché questa ha abbandonato le sue prospettive sociali molto più di quanto avrebbe dovuto. E’ servito tanto tempo per rivalutare gli aspetti positivi del socialismo.
(l’intervista è stata curata da Rosa Fioravanti e Andrea Pisauro)
A prescindere dall’opinabilità di alcuni punti specifici di risposta qual è la realtà che emerge da questa intervista?
Quella dell’assenza di una soggettività politica in grado in Italia di tenere assieme tre punti, quello dell’internazionalismo, della sovranazionalità e dell’identità nazionale e di dialogare da pari a pari fino in fondo con i principali interlocutori possibili nel quadro europeo, oltrepassando anche schieramenti apparentemente dati ma nella realtà assolutamente artificiosi.
Beninteso, non è questo un semplice richiamo alla consueta formula “dell’unità della sinistra”, ma un richiamo a penetrare nel profondo (come si vedrà meglio nella seconda parte di questo intervento) nelle contraddizioni inedite che stanno presentandosi sulla scena della storia.
Rimane dunque centrale il problema della costruzione di una soggettività politica della sinistra che oggi svolga una fondamentale funzione di opposizione al quadro dato nel piccolo spazio politico italiano ed europeo, sappia distinguere il meccanismo possibile delle alleanze senza espressioni di subalternità e sviluppi prospettive di egemonia culturale e politica delineando un quadro di alternativa possibile.
Nessuno può auto giudicarsi autosufficiente al livello della rappresentazione della propria identità politica: né in nome del portato di una storia pregressa;né in virtù di una presunta capacità di diretta interpretazione dei bisogni delle masse.
Questo elemento può essere facilmente arguito analizzando il quadro, assolutamente inedito, che ci troviamo a dover affrontare.
Un quadro suddiviso su due piani.
1) Il primo punto da affrontare riguarda il terreno di confronto politico nell’attualità e nel medio periodo. Un piano che può essere così sintetizzato: Il punto da affrontare sul piano dell’analisi è quello della cosiddetta “fine della globalizzazione”. E’ su questo elemento che si rischia di scivolare nell’arretramento sovranista, al punto da favorire un riallineamento a destra come del resto si sta già verificando in una dimensione molto pericolosa. Osservatori di stampo “riformista” come Ian Bremmer o ancora come Tomas Piketty, stanno tirando le somme proprio di questa “fine della globalizzazione” evidenziando due elementi sui quali abbiamo già avuto occasione di riflettere: l’allargamento delle disuguaglianze a ogni livello e dimensione; l’intensificazione dello sfruttamento che ha avuto nelle guerre e nei relativi fenomeni migratori (verificatisi comunque, anche laddove non si sono avuti o non si stanno avendo episodi bellici) il suo fattore propulsivo. Allargamento delle disuguaglianze e intensificazione dello sfruttamento fissano in un’ulteriore pervasività della condizione di classe il dato più evidente che emerge dalle contraddizioni in atto nella fase del ciclo capitalistico (non è questione di ordoliberismo o quant’altro: il tema rimane proprio quello dello “sfruttamento di classe”);
2) Il secondo punto invece appare molto più complesso da affrontare e riguarda la prospettiva strategica che deve essere posta essenzialmente al riguardo della trasformazione dell’agire politico in funzione dell’innovazione tecnologica. Parto da una citazione del tutto irrituale”: “..Prima d’ora, il progresso tecnologico che più di ogni altro aveva cambiato il corso della storia umana era stata l’invenzione della tecnica tipografica nel XV secolo, grazie alla quale la ricerca della conoscenza con mezzi empirici aveva soppiantato la dottrina liturgica, e l’età della ragione aveva gradualmente preso il posto dell’età della religione. L’età della ragione ha prodotto i pensieri e le azioni che hanno plasmato l’ordine del mondo contemporaneo.
Ma adesso stiamo assistendo a uno sconvolgimento di quell’ordine, per mezzo dell’avvento di una nuova e ancor più travolgente rivoluzione tecnologica, una rivoluzione di cui non abbiamo valutato le conseguenze, e il cui apice potrebbe consistere in un mondo dipendente da macchine azionate da dati e algoritmi, senza alcuna norma etica o filosofica a guidarle..”
Così scrive in questi giorni Henry Kissinger (95 anni) in un articolo molto ampio del quale si è qui riportato soltanto un significativo stralcio e apparso sull’inserto culturale di Repubblica “Robinson” domenica 22 luglio.
L’ex capo della politica estera americana ai tempi della presidenza Nixon si pone così un interrogativo di fondo: Chi fermerà lo strapotere delle macchine? No, non lasciatevi incantare dai successi della Silicon Valley, qui sono in gioco i destini del mondo”.
Intanto in Africa, per assicurarsi i minerali utili per alimentare questa tecnologia nascono nuove guerre (non a caso si scrive di “minerali da conflitto”) e si alimentano nuovi terribili schiavismi.
Torniamo al punto riguardante l’inoltrarsi dello sviluppo tecnologico: per la prima volta vengono messe in discussione idee, criteri, norme ritenute e lungo incrollabili.
Cadono barriere millenarie: gli algoritmi potrebbero dominare la vita dei singoli affermando definitivamente la riduzione della politica a bio politica.
L’insieme delle norme e delle pratiche per regolare la vita biologica degli individui nelle sue diverse fasi e nei suoi molteplici ambiti verrebbe stabilito dalle macchine, addirittura alla ricerca della vita eterna (una sorta di Inferno sulla terra alla Glenn Cooper) esulando dalla volontà collettiva esprimibile nelle forme che abbiamo imparato a conoscere dalla storia.
Storia che risulterebbe completamente cancellata dall’orizzonte delle conoscenze umane (fenomeni di questo genere se ne vedono già presenti nell’attualità, anche in situazioni ravvicinate alla nostra realtà).
Risulterebbe tagliato fuori definitivamente ciò che era considerato risultato di necessità naturale, o di volontà divina, o di oggetto di scelta.
Ben oltre a “1984” un regime assoluto tenuto dai pochi in grado di manovrare il flusso delle informazioni che determinano i risultati degli algoritmi potranno orientare la vita delle persone per mantenere un potere ormai da considerare di carattere assoluto ed eterno?
E’ questa la prima risposta da fornire da parte di coloro che detengono, in questo momento, le leve del potere politico, economico, tecnologico.
Ed è questo il piano strategico sul quale impegnare la ricostruzione di una soggettività della sinistra capace di agire in nome degli ideali di eguaglianza, solidarietà, pace.
Una risposta che non pare provenire forse per una carenza di fondo sul piano dell’elaborazione teorica, della ricostruzione di una filosofia “umana” o non semplicemente espressa per servire la tecnologia.
E’ questa la nuova “contraddizione principale” verso la quale siamo chiamati a confrontarci?
Intanto il livello delle disuguaglianze e dello sfruttamento cresce, si registrano fratture sempre più violente nel corpo sociale in tutte le dimensioni e la risposta sempre essere quella di un neo – trinceramento identitario nell’idea di costruire fortezze in grado di tenere lontano il contagio.
C’è chi propone la formazione di “commissioni nazionali” di scienziati per cominciare ad affrontare la questione (naturalmente con l’obiettivo di mantenere comunque il potere delle distanze sociali acquisite e da accrescere).
Che cosa succede, invece, dalle nostre parti: di chi lotta per contenere (almeno) la sopraffazione di classe che sempre più si allarga sull’insieme degli ambiti della vita sociale?
Quale neosocialismo, quale governo dell’etica, quale “ritorno alla politica” nel tempo in cui il dominio sembra poter essere esercitato soltanto dai nuovi signori delle macchine?
Purtroppo soltanto interrogativi, per ora nulla di più sembra possibile esprimere.
FRANCO ASTENGO
24 luglio 2018
foto tratta da Pixabay