L’incomprensione del presente che sbarra la capacità di leggere il futuro.
E’ questa l’impressione più viva che si ricava dalla lettura dei diari di Bruno Trentin, recentemente pubblicati da Ediesse, che riguardano il periodo di assunzione della responsabilità della segretaria generale della CGIL tra il 1988 e il 1994.
Le recensioni fin qui lette si sono soffermate soprattutto sull’asprezza dei giudizi che Trentin emana su gran parte dei protagonisti di quella stagione politica e sindacale e sulla fase di profonda depressione che lo coglie immediatamente dopo la firma del famoso accordo del 31 luglio 1993 con il governo Amato: l’accordo che mise per davvero le mani nelle tasche degli italiani, abolì definitivamente la scala mobile e diede una svolta profonda all’insieme delle relazioni sociali, ben oltre a quelle sindacali.
In realtà ciò che emerge dalla lettura di questi diari è soprattutto l’esercizio, ai limiti del cinismo dell’autonomia del politico e una lettura delle prospettive politiche e sociali del Paese assolutamente antica ed errata rispetto a ciò che stava preparandosi.
La firma di quell’accordo rivelò proprio come l’incomprensione del presente sbarrasse completamente la strada del futuro (nascondendo questo clamoroso errore dietro alle belle parole della necessità di salvaguardare il ruolo del sindacato “soggetto politico” e quindi la contrattazione, ecc, ecc, bla, bla) causando la rovina definitiva di quel complesso filo di relazioni teso dentro la società italiana, fuori e dentro la fabbrica, che aveva fino a quel punto rappresentato la specificità di quello che ci eravamo ostinati a definire il “caso italiano”.
Soprattutto, in quel momento specifico, non si ebbe la comprensione dell’importanza di opporre un punto fermo di resistenza, di opposizione a quelle che apparivano banalmente le “compatibilità date”: sarebbe stato soltanto da quel punto resistenza e di opposizione che avrebbe potuto riprendere una possibilità d’esistenza del soggetto per il futuro.
Proprio l’applicazione pedestre dell’autonomia del politico suggerì alla fine il consueto “aderire” come meno peggio: non fu adottato neppure un pallido “né aderire, né sabotare”. Ciò che imponeva il padrone fu adottato.
Il dramma che ne seguì, almeno leggendo Trentin, fu del tutto personale, nulla ebbe un reale risvolto pubblico.
Trentin narra soltanto di una tempesta intima che, nel suo svilupparsi, rivela proprio come l’autonomia del politico fosse la sola cifra culturale perseguita da tutti i protagonisti della vicenda.
Risultava così assente una qualche lettura della condizione materiale di vita dei sottoposti a quell’autonomia: una visione straticarchica dalla quale non traspare mai, neppure in forma letteraria, la fatica del vivere della gente comune, la tragedia del lavoro quando c’è e quando manca, la visione della dignità dell’umano.
Ed il rientro dalle dimissioni dalla segreteria avvenne, di nuovo, dentro l’orbita della autoconservazione fatta passare come accettazione di compatibilità necessitate per ovviare ad un “salto nel buio” che era già stato abbondantemente compiuto con esiti non tanto disastrosi, ma assolutamente irreversibili come possiamo ben constatare con l’attualità cui quei fatti sono collegati direttamente con un filo mai spezzato.
E’ proprio la dignità dell’umano che viene ridotta a paravento per dimostrare la validità delle mosse tattiche da eseguire sullo scacchiere della politica .
Una dignità dell’uomo che, però, in realtà non è mai assunta a parametro della realtà: serve soltanto a giustificare una nebulosa astrattezza di un divenire ormai declinante.
La lettura dei diari di Trentin aiuta sicuramente a comprendere meglio l’entità della frattura che si consumò in quel periodo: una frattura rivelatasi irrimediabile (nonostante una ripresa di effimero ottimismo) rivelatasi decisiva per la determinazione di assetti futuri all’interno dei quali ancor oggi ci stiamo dibattendo con tutte le nostre contraddizioni e difficoltà.
Non c’è giustificazione per quel tempo, tanto meno derivante dall’imporsi del divenire della necessità: un ritardo enorme nel comprendere la realtà che si cercò di mascherare attraverso una impossibile visione di un “dopo” che non esisteva.
Una sconfitta storica, irrimediabile.
In quel modo si spezzò il residuo allora esistente della solidarietà di classe garantita dalla soggettività collettiva.
Tutto inabissato nel gran mare della “compatibilità”. Allora e adesso?
FRANCO ASTENGO
14 luglio 2017
foto tratta da Wikimedia Commons