I cosiddetti sani. La patologia della normalità

Follia e sanità mentale, malattia e salute fisica. Spesso si inciampa in tutta una serie di paradigmatiche similitudini e parallelismi tra ciò che si considera anormale tanto psicologicamente quanto...

Follia e sanità mentale, malattia e salute fisica. Spesso si inciampa in tutta una serie di paradigmatiche similitudini e parallelismi tra ciò che si considera anormale tanto psicologicamente quanto fisiologicamente e si sentenzia, dall’alto di una preconcettualità che fa dell’apriorismo il suo basamento costruttivo (e distruttivo), che normale è tutto quello che ci fa stare bene, che ci regala momenti di felicità, che ci rassicura dove siamo, qui ed ora: tra i nostri simili e non tra estranei.

Per cui l’estro, la tendenza ad ingannare il consueto e a superarne le barriere e le costrizioni che, invece, vengono vissute come limite del certo e del conoscibile, del sicuro e del protetto, subiscono la sorte di essere catalogati come fenomeni inquietanti, propensioni verso un ignoto che, proprio perché porta aperta verso l’inconsapevole e il non conosciuto fino a quel momento, spaventa e si rifugge.

Si tratta di ancestralismi animal-umani, propri di un primitivissimo istinto di autoconservazione che ci abita ancora oggi e che ci pervade ogni giorno, dannato o santo che sia. Ciò che esce dalla norma viene percepito come irregolare, inconsueto e quindi preoccupante. Sono atteggiamenti tipici di società in cui domina una insicurezza sociale, una vasta, diffusa ineguaglianza tra le classi, per cui la guerra tra i poveri è la rappresentazione plastica del disagio contemporaneo che affonda le radici in un capitalismo pluricentenario.

Un sistema che la scuola di Francoforte, di cui Erich Fromm faceva parte insieme insieme a Marcuse, Horkheimer e Adorno, ha analizzato attraverso attente analisi che hanno preso spunto dal marxismo come lente interpretativa e conoscitiva (sul piano squisitamente scientifico-economico e antropologico-sociale). Per cui, ammesso che si possa parlare di “una conclusione” a cui arrivare in merito alle molte paure e alle poche certezze dell’umanità frammentata, divisa e orrorifizzata dal sistema delle merci e dei profitti, la si deve iniziare a cercare prendendo l’abbrivio da una critica dialettica dell’esistente.

Franco Basaglia sosteneva che la follia ci abita tanto quanto la ragione e che per molti millenni vi è stato qualcosa di più di un pregiudizio nei confronti della prima e molta indulgenza, invece, nei confronti della seconda. L’incontrollabilità dell’irragionevolezza è destabilizzante perché il folle anarchizza tutti i viatici prestabiliti dalla rassicurante predisposizione razionale. Eppure l’andare oltre le regole è stato anche considerato un sintomo di genialità, riprendendo quell’estro di cui si faceva cenno prima.

Non può esservi vera intuizione senza un superamento del conforme, dell’unitario a tutti i costi, dell’uniformità per la buona creanza, la buona morale, la buona e virtuosa raffigurazione di una fisiognomica del bene inscritta nei tratti sorridenti e gai di una esistenza atarassica, quasi stilitica che, però, introduce una contraddizione evidente con l’essere sociale dell’umano, con il suo bisogno di interdipendenza, con l’allontanare da sé stesso lo spettro della solitudine e della vita senza contatti.

Pur tuttavia, Walt Whitman afferma che una vita a contatto con l’essenza naturale dell’esistenza nell’esistenza stessa della Natura (propriamente detta e intesa) non esclude dei princìpi. Mette da parte tutti quegli orpelli fastidiosi che sono stati creati da un sistema economico e politico, militare e burocratico per gestire una complessità della vita che crea, inevitabilmente, una serie di disarmonie e di diversità di livelli attraverso cui fa breccia nella vita di tutti i giorni una devastante competizione, una concorrenza quasi ante litteram rispetto a quella del capitale.

Erich Fromm, in una serie di saggi pubblicati recentemente da Mimesis con il titolo “I cosiddetti sani. La patologia della normalità” (2023), descrive esattamente i rapporti che intercorrono tra l’essenza psico-fisica di noi stessi e il resto della storia in cui siamo calati: passato, presente e futuro si interconnettono e trasmettono una serie di spunti piuttosto interessanti a partire dal campo medico per passare a quello della incedente novità dell’allora nascente movimento psicoanalitico e psichiatrico.

La normalità, dunque. Sempre Franco Basaglia sosteneva che, avvicinando lo sguardo prospettico ai nostri simili, ci saremmo accorti che nessuno di noi, ma per davvero nessuno, visto sempre più in prossimità del nostro sguardo esteriore e interiore, è veramente ascrivibile a qualcosa di simile alla normalità. Beninteso, la normalità intesa come maggioranza dei comportamenti sociali che vengono accettati in quanto minimo comun denominatore delle azioni più stravaganti e immaginabili dell’essere umano e del cittadino.

Si può dunque asserire che esista “la normalità” per antonomasia oppure anche solamente “una normalità” cui aspirare? Nel 1920, quando ancora nei dizionari americani il concetto di normale/normalità non è espresso così modernamente come potremmo immaginare, il candidato repubblicano alla Casa Bianca Warren Harding ne fa un suo slogan elettorale, parlando espressamente di “Return to normalcy“. Ma se per la politica il concetto può essere molto più di una variabile dipendente, per le scienze si tratta di un enigma irrisolto.

Soprattutto se si indaga a fondo dal punto di vista medico, la normalità non è una premessa per la sanità e viceversa. Per quanto le cure tendano ad essere uniformanti e, quindi, in questo quadro più generale a divenire dei punti di certezza nella lotta contro le malattie che possono colpirci tutte e tutti, le casistiche delle “anormalità” sono innumerevoli; e ciò non delinea una smentita della bontà dell’intervento farmacologico su vasta scala.

Se una medicina fa bene a migliaia di individui e ne attenua o fa sparire le cause del disagio psichico o fisico, il singolo caso che sfugge a quella cura non dimostra che la cura sia inefficace. Cos’è dunque normale? Quello che è possibile classificare come “maggioranza” o tutto quello che, invece, si presenta come fenomeno assolutamente naturale ma appartiene ad una “minoranza“? Per tanti secoli la questione è stata vissuta, studiata e polemizzata proprio a partire da questa ambivalenza.

La maggioranza contro la minoranza e non, invece, la loro inclusione nel più ampio spettro di ciò che spontaneamente esiste e si manifesta nella natura di noi stessi e di noi nella Natura con la enne maiuscola. Dai sentimenti alle emozioni, dai desideri alle pulsioni, dalle patologie fobiche a quelle fisiche, il pregiudizio dettato dalla morale imperante, a sua volta corrispondente ai rapporti di forza di una economia classista, ha imposto un’altra naturalità alla Natura stessa.

Si è considerato “normale” ciò che rientrava nella maggioranza dei comportamenti e dei casi. Anormale ciò che invece era in minoranza rispetto a questa schematizzazione. Fromm parla di “adattamento” dell’essere umano al contesto che lo riguarda e individua proprio qui il punto focale su cui concentrare lo studio tra normalità e anormalità e, quindi, tra sanità e insanità. Lì dove gli esseri umani vivono con una relativa ma certa serenità, in quel preciso luogo si può parlare di una presunta “normalità“.

Dove invece si patisce, si subisce, si sopravvive e si fa fatica a superare un giorno dopo l’altro, tanto psicologicamente quanto – senza dubbio – materialmente, lì si può invece parlare di “anormalità” e quindi anche di una serie di patologie che emergono nell’animo e nel corpo dell’individuo che soffre la condizione della sopportazione e non della condivisione delle esperienze singole e sociali. Medicina e biologia non possono considerare la “normalità” come un concetto da cui derivano assunti certi.

Il calcolo probabilistico fa di queste scienze dei campi del sapere che, per eccellenza, utilizzano la ricerca continua e il continuo superamento dell’incerto come motore di un processo in cui non esiste soluzione di continuità per l’apprendimento sempre differente e, quindi, sempre imprevedibile seppure affidato all’esame da laboratorio e alla prova provata. La “normalità“, quindi, vale più come concetto filosofico, come condizione di un pregiudizio che, infatti, si viene stabilendo come nesso causale tra premesse maggiori e minori sovente alterate da errori clamorosi.

Le valutazioni su ciò che è o può essere normale sono affidate ai rapporti di forza esistenti nella società: per cui se un certo gruppo prevale su un altro, economicamente, politicamente e socialmente, la cosiddetta “morale” e “buon senso comune” cambia di conseguenza. Fromm attribuisce una grande importanza, in questo frangente, alla mutazione linguistica dei popoli, delle comunità: non essendo propriamente un amico del materialismo dialettico e storico, il concetto di “alienazione” non gli risolve il problema dell’estraniazione umana da sé stessa.

Il linguaggio che cambia è un presupposto di un mutamento di quella che lui considera una tendenza intrinseca all’essere di noi stessi: l’alienazione fa parte di noi e non è indotta solamente dal capitalismo. Una tesi ovviamente opinabile, perché è abbastanza evidente che le caratteristiche del sistema in cui viviamo inducono ad una quanto meno esponenziale esasperazione di quella che potrebbe anche essere una atavica alienazione che ci abita innatamente.

Se le parole mutano, sostiene Fromm, è evidente il cambiamento dei piani di astrazione da cui prendono forma e poi si sostanziano nei rapporto comuni tra individui, contribuendo a formare quella coscienza sociale che è il prodotto dell’essere sociale degli umani. La normalità in questo caso è il punto di partenza di una condivisione interpretativa di ciò che circonda: le parole condivise sono comprensione di per sé, ma non per sé. Perché sono affidate all’associazione con cose, persone o situazioni da cui si possono tranquillamente astrarre.

Nulla ci impedisce da domani, infatti, premessa una condivisione universale, di chiamare tavolo la sedia e sedia il tavolo. La nostra mente dovrebbe adattarsi a quella che non sarebbe la “normalità“, fondata su una abitudinarietà che è tipica di quella che possiamo definire la “natura umana“. Il patologico che Fromm indaga in merito alla costruzione della “normalità” come elemento caratterizzante la vita singola e collettiva, affonda le sue radici proprio nella trasmutazione linguistica che il capitalismo impone alla modernità delle relazioni.

La capacità astrattiva delle parole viene mortificata da una superficialità dell’assunzione dei concetti: la provvisorietà, se non del tutto almeno del molto, fa sì che la velocità con cui si muove l’evoluzione antisociale del capitale impedisca una nuova sperimentazione dell’essenza dei concetti relativamente alla sostanza delle cose. L’esperienza concreta che possiamo fare durante la nostra giornata viene così alterata da un significato improprio e molto soggettivo che fatica a stare nel perimetro logico (e cronologico) di una “normalità” odierna.

Se partiamo dall’assunto che la Natura è “normale“, dovremmo poter arrivare alla conclusione piuttosto semplice e scontata che tutto ciò che è presente in Natura è tale. Quindi dovremmo considerare patologico quel tentativo di alterare la normalità sul presupposto della dittatura della maggioranza e della discriminazione della minoranza. Dovremmo reputare “normale” l’esistente ma non “anormale” ciò che ancora non esiste: proprio perché la Natura è in continua trasformazione ed è difficile sapere a priori quali forme prenderà la materia in futuro.

Il fatto che tutto questo dipenda anche (e soprattutto) dal comportamento umano è una triste verità, inconfutabile. Ma non incontrovertibile.

I COSIDDETTI SANI
LA PATOLOGIA DELLA NORMALITÀ
ERICH FROMM
MIMESIS / COLLANA “ETEROTOPIE”
€ 16,00

MARCO SFERINI

14 agosto 2024

foto: particolare della copertina del libro


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