Donald Trump. L’unico spauracchio delle elezioni presidenziali statunitensi sembrerebbe avere solo due nomi: per la precisione un nome e un cognome. Tutto il resto rientra nella normalità democratica. Sappiamo bene che il confronto – scontro tra democratici e repubblicani ha, spesso, avuto riflessi molto poco caratterizzati da differenti comportamenti in politica estera, soprattutto, ma anche in quella interna una volta arrivati alla Casa Bianca.
Un tempo il Partito democratico era considerato “progressista” mentre quello repubblicano “conservatore”. Oggi questa distinzione è veramente molto difficile da cogliere: Hillary Clinton è sostenitrice del liberismo più sfrenato, dei trattati internazionali che lo metterebbero in pratica e ha mosso qualche passo verso tematiche di natura sociale solo per ottenere l’appoggio di Bernie Sanders.
Un appoggio che non le porterà, tuttavia, l’intero pacchetto di consensi avuto dal senatore socialista: moltissimi giovani sostenitori di Bernie hanno infatti deciso o di non esprimersi o di votare per la candidata verde – libertaria Jill Stein che rappresenta la terza opzione, una delle due scelte non considerate dai mezzi di comunicazione di massa.
Quindi, Hillary Clinton è tutt’altro che una candidata “democratica” e “progressista”. Così come Donald Trump è tutt’altro che un candidato classicamente incardinabile nella casella del conservatorismo liberale. E’ un battitore libero, un uomo di denaro, potere economico personale che somiglia molto al Berlusconi dei primi tempi, all’imprenditore che scende in campo.
Lo fa con impeto, irruenza e, quindi, consegna agli avversari la carta dello spauracchio, della paura incontrollata del “giorno dopo il voto”. Cosa potrebbe accadere con un miliardario che fa dichiarazioni sessiste, con affermazioni apertamente razziste e xenofobe, con simpatie per l’oligarchia putiniana, con una voglia di autarchia che fa impallidire vecchi esperimenti in altri continenti?
Una serie di domande possono essere appunto queste, quelle legate più all’aspetto esteriore della praxis politica di Trump.
Dall’altra parte, la Clinton risulta sempre meno credibile. E non solo perché le inchieste sull’utilizzo dei server di posta elettronica pubblici vanno avanti e vi si aggiungono nuovi scandali da parte della agenzia federale di investigazione, ma perché ricalca passo passo una politica del passato che non ha dato i frutti sperati da un popolo americano che su Obama aveva investito una seconda volta (e di misura nel conteggio totale dei voti assoluti) augurandosi che sarebbe stato impresso un colpo d’acceleratore nell’attuazione di riforme e nella protezione di diritti elementari che invece sono rimasti carta e lettera morta.
Dunque, il dilemma è: tra una candidata poco credibile e certamente poco “democratica” (e anche molto poco “pacifista”) e un candidato pericoloso chi scegliereste?
Se si equivalgono per motivi differenti è evidente che la scelta è quasi annullata da degli opposti che abbiamo citato appena sopra. Ma se vi si scorge qualche differenza, allora la scelta diventa cruciale.
Anche perché Trump sta rimontando nei sondaggi e se dovesse ottenere Ohio e Florida, fino ad ora dati quasi certi per i democratici, allora avrebbe qualche possibilità di arrivare alla presidenza della Repubblica stellata.
Nelle ultime settimane, leggendo i più autorevoli commenti della stampa borghese americana, si può notare come gli scandali che avvolgono la Clinton abbiano avuto l’effetto del ricompattamento interno al Partito repubblicano.
Una linea più morbida del magnate, qualche inciampo per i democratici e il gioco dei sondaggi è praticamente fatto.
Negli stati meridionali, quelli della vecchia Confederazione sudista, il voto per Trump si sta facendo strada tra la “middle class”, quel ceto medio che teme di essere surclassato nella corsa alla rivendicazione delle proprie esigenze e del proprio ruolo sociale dal femminismo, dall’antirazzismo e dal fenomeno dei migranti.
Trump, dunque, avanza nell’incertezza che il Partito democratico non riesce ad eliminare laddove l’americano medio, non necessariamente il proletario dei sobborghi di Manhattan, percepisce che il finto progressismo della Clinton porterebbe ad uno scontro con un Congresso probabilmente a maggioranza repubblicana, dando vita ad una amministrazione conflittuale e sostanzialmente immobile in tema di protezione di certi privilegi spacciati per diritti.
Anche negli Stati Uniti si verifica il fenomeno dell’abbandono: la presunta sinistra democratica di Hillary abbandona quel popolo di sanderisti che invece dovrebbe appoggiare per avere una vittoria che la differenzi nettamente da Donald Trump.
Invece preferisce appoggiarsi ad una borghesia nordista che la appoggia soltanto perché impaurita dal protezionismo isolazionista del magnate biondastro, una recinzione mercantilista che rischia di minare il potere economico del dollaro, la funzione di gestione del capitalismo in una buona fetta di mondo da parte dello Stato che si autoproclama condottiero della libertà e della democrazia.
Mancano cinque giorni al verdetto finale. Saranno cinque giorni interessanti, senza esclusione di colpi e certamente ricchi ancora di colpi di scena. Come in uno scontato film hollywoodiano dove alla fine l’assassino ha sempre una seconda possibilità, l’ultima, per sferrare il suo fendente quando meno ce l’aspettiamo.
MARCO SFERINI
4 novembre 2016
foto tratta da Pixabay