Gira e gira, i detrattori si attarderanno come sempre a rimproverare chi voterà per altri candidati che non siano Hillary Clinton o Donald Trump d’essere la causa della vittoria dell’uno o dell’altro e non l’espressione di una diversa visione della società americana, magari anche del mondo.
Tutta colpa dei sistemi elettorali. Così si etichettano le presunte o meno costrizioni a scegliere il celeberrimo “meno peggio”. Così si etichettano anche le posizioni di chi, volendo sfuggire a questa morsa apparentemente ineludibile, fa una scelta terza o quarta. Chi lo fa, diventa il traditore, colui o colei che consegnano la Patria al dominio delle destre più feroci sui diritti civili e anche sociali o delle sinistre più radicali nel voler colpire i privilegi conservati dalle classi dirigenti.
Per Clinton e Trump non valgono né l’una e nemmeno l’altra pericolosa opzione da mettere in auge come fantasma politico di evidenza da spingere al voto “utile”.
Donald Trump è un pericolo, indubbiamente, ma è un prodotto genuino della classe imprenditoriale statunitense, un miliardario che rappresenta la parte più regressiva e conservatrice di un’America che in larghissima parte sogna una autarchia economica, un razzismo dalle buone maniere, fatto di muri e chiusure e di verifica persino dei certificati di nascita dell’attuale presidente in carica per appurare se per caso non sia originario del Medio Oriente… Con quel suo nome “strano”…
Donald Trump rappresenta una grossolana politica reazionaria: spazia dalla xenofobia all’isolazionismo della Repubblica stellata in campo anche internazionale. Adora Putin e odia chi non è “puro” nella sua discendenza americana, dimenticando che tutti i cittadini della grande nazione della libertà sono originari o dell’Africa o dell’Inghilterra, dell’Irlanda o di qualche ultima riserva indiana chissà dove esistente.
I nativi, appunto, erano altri: erano le tribù dei Sioux, degli Apache, dei Comanches. Non i nonni di Donald Trump.
Economicamente parlando, il miliardario difende il liberismo sfrenato e, quindi, ogni cosa che il denaro possa comperare e sovvenzionare. Dai piani di difesa nazionale della Cia fino all’esaltazione delle armi come strumento democratico di difesa inserito nella Costituzione dai tempi dei coloni del lontano West.
Hillary Clinton, del resto, è l’immagine perbene di una America che vuole essere meno greve nei ragionamenti, più docile nei rapporti con i cittadini, con gli avversari stessi e con gli altri paesi del mondo. E’ l’abito buono da mettersi per apparire ma non per essere: in politica estera potrà anche detestare Putin e Assad, potrà anche dichiarare di fare la guerra al califfato nero di Al Baghdadi ma rimane una sostenitrice dei più feroci califfi che si fanno chiamare “presidenti”. Uno di questi è proprio Erdogan, il satrapo di una Turchia sfuggita ad un colpo di stato di poche ore, fallito nel giro di una notte e di cui ancora oggi dobbiamo conoscere la reale origine e natura politica.
La moglie di Bill Clinton non è più liberale di Barack Obama: per certi versi ha una vena caratteriale che ne influenza le scelte politiche e che la porta ad essere più rigida in merito alle questioni internazionali.
Vogliamo discutere ancora una volta della prigione di Guantanamo Bay a Cuba? Doveva essere chiusa già nel primo mandato di Obama. Invece si trova ancora lì, come carcere di terroristi o presunti tali trattati al di fuori di qualunque convenzione internazionale sui diritti dei prigionieri siano o non siano di guerra e in spregio alle stesse leggi degli Stati Uniti d’America.
In campo economico Hillary Clinton non è la paladina dei ceti più deboli della società americana, non si prefigge di salvaguardare i redditi dei proletari moderni degli Usa: vuole attenuare gli eccessi di un turbocapitalismo che ha già più volte preso grandissime cantonate e subito fallimenti di banche dalla statura quasi invisibile dei grattacieli che occupavano nelle metropoli yankee, ma non è certo fatta dei tratti e della pasta di socialismo, seppur tenue, di un Bernie Sanders.
Lui invita a votarla in nome proprio del voto utile, della necessità di battere Donald Trump che neppure l’intero Partito Repubblicano sostiene e di cui, probabilmente, si vergogna un poco. Ma, nella patria dell’esaltazione a tutto tondo della democrazia rappresentativa, bisogna osservare che Trump, attualmente, è il candidato che riscuote la maggioranza delle simpatie e dei consensi tanto dei repubblicani quanto dei cittadini dei più grandi stati, quelli che forniscono il numero più alto di “grandi elettori” (coloro che poi saranno chiamati a votare per il presidente).
Poi, in mezzo a questa finto dualismo, entrano in scena due altri candidati che sparigliano i sondaggi, le carte e le previsioni. Si tratta di Gary Johnson, un ex governatore repubblicano del Massachusetts che, a sua volta, ha scelto come vicepresidente un ex repubblicano: giocano a fare i libertari nel Partito libertario americano. In realtà di libertario e di anarcoide c’è veramente poco: libertà di impresa senza troppi controlli da parte dello Stato, diritti civili per tutti e abolizione dello stato sociale. Più che “libertario”, siamo davanti ad una forma di liberismo repubblicano depurato dagli eccessi razzisti di Trump. E, probabilmente, attirerà una parte del voto giovanile del partito del miliardario in corsa per la Casa Bianca.
Poi abbiamo Jill Stein, esponente dei Verdi americani. E’ una dottoressa che si è laureata ad Harvard e ha trascorso la sua vita ad occuparsi dei problemi dell’ambiente. Lei segue le linee sociali di Sanders e vi aggiunge una marcata attenzione, appunto, per una ecologia che si coniughi con la giustizia sociale.
Nei sondaggi riceve il 4% dei consensi generali, mentre il finto libertario Johnson la doppia con l’8%.
Entrambi stanno riuscendo nell’opera, democratica, legittima e costituzionale, di attirare dei voti sui loro nomi e programmi: molte ragazze e ragazzi che si erano schierati con Bernie Sanders possono scegliere ora di evitare la trappola del voto utile. Possono scegliere di evitare la preferenza per un liberismo ammantato fintamente d’attenzione verso una nuova forma di stato sociale adeguata alle esigenze del mercato e rappresentata da Hillary Clinton e preferire un voto per Jill Stein.
In fondo, l’eterna lotta tra Partito Democratico e Partito Repubblicano per sedere alla Casa Bianca non ha mai prodotto, se non nel lontano caso di Roosevelt, avanzamenti anche timidi di diritti sociali tali da poter far dire che l’uno era veramente il contraltare dell’altro.
Sento già la domanda che mi potrebbe essere fatta: “Ma tu, se vivessi negli Usa, per chi voteresti?”.
“Avrei votato per Bernie Sanders al giro di quella mezza farsa che si fa chiamare “elezione primaria”. Ora sarei profondamente indeciso: se dovessi seguire le mie idee e non la logica illogica del “voto utile”, darei il mio voto a Jill Stein. E se dovessi sentire il richiamo delle sirene del battere a tutti i costi il peggio del peggio, Donald Trump, mi toccherebbe votare per il “meno peggio”…”.
Sarebbe una bella scelta, da fare forse all’ultimo, sull’onda delle idee e dei sentimenti e di una ragione che, ancora una volta, verrebbero scissi votando per Hillary e ritroverebbero una unità dignitosa votando per Stein.
Poi si potrebbe anche impazzire e votare per Trump. Ma a questa soluzione ultima penseranno bene di affidarsi molti milioni di americani: non pazzi, ma fintamente convinti che chi ha successo può distribuire successo. Non è mai accaduto, ma l’importante è fidarsi. Non crederci.
MARCO SFERINI
16 settembre 2016
foto tratta da Wikimedia Commons