Qualche anno fa lessi la “Storia degli Stati Uniti” del giornalista, scrittore e docente universitario Oliviero Bergamini, uscita per Laterza. Si presentava come un’opera agile, un primo approccio ad una epopea fantastica che, nel giro di soli due secoli e mezzo, avrebbe rappresentato la nervatura principale di una nuova umanità globalizzata, il cui asse di sviluppo si spostava dalla vecchia Europa al Nuovo Mondo.
Tra le altre figure che spiccavano per come venivano trattate con obiettività, proprio con il metodo dello storico che analizza i fatti ed evita degli spropositati e devianti giudizi politici (anche se non trascura del tutto quelli personali), vi era quella di Henry Kissinger, più che giustamente resa nella sua davvero unica grandezza di uomo di potere che, dalle medio-borghesi origini tedesche, in seno alla Repubblica di Weimar che, di lì a poco, si sarebbe trasformata nel Terzo Reich, riuscì a dare al “sogno americano” una plastica evidenza.
Chiunque, anche se di umili origini, poteva nel grande paese della libertà e della democrazia assurgere anche alle più alte cariche dello Stato. La centenaria vita di Kissinger finisce oggi, con una morte che sarà il principio di una scrittura e riscrittura di una storia tanto sua quanto dell’America della seconda metà del Novecento. Una storia in cui cinismo e spregiudicatezza vanno a braccetto, si confrontano e si dicono che possono, insieme, evitare che gli Stati Uniti, soprattutto dopo l’archiviazione della Guerra Fredda, finiscano col perdere il loro pressoché incontrastato dominio planetario.
Kissinger, che amava Metternich e che a molti ha ricordato Machiavelli, da fine teorico della politica internazionale aveva teorizzato ed espresso più volte la necessità per Washington di non separarsi mai dal perseguimento dei propri obiettivi nazionali entro un contesto internazionale in cui fossero le linee guida dell’economia americana a dettare i princìpi e i valori a cui si sarebbero dovuti uniformare gli altri attori minori sulla scena mondiale.
L’opportunismo di Kissinger è la quintessenza di una sorta di modernissima realpolitik in cui non c’è spazio per quei sentimenti di umanità e di rispetto dei diritti universali. Nonostante ciò, nonostante abbia fatto da regista, nemmeno tanto occulto, di colpi di Stato come quello di Pinochet in Cile, di altri sparsi per l’America Latina da cui occorreva estirpare il nascente afflato di libertà dato dall’organizzazione delle masse lavoratrici attorno a forze politiche socialiste, gli venne tributato il Nobel per la pace.
La motivazione era legata al ruolo di presunta mediazione che tenne nella fase finale della guerra del Vietnam. Quel conflitto era la rappresentazione tragica di una tangibilità del giganteggiamento a stelle e strisce: la sconfitta americana significava per il mondo intero la rottura di un dogma precostituito da decenni, dalla fine della Seconda guerra mondiale, per cui era impossibile fronteggiare lo Zio Sam. Solo l’URSS aveva tutte le carte in regola per farlo. Ma farlo avrebbe significato il disastro atomico.
Che i vietnamiti del nord, ovviamente aiutati da Mosca, dopo tanti e tanti anni, dopo centinaia di migliaia di morti, dopo città e villaggi rasi al suolo, dopo le foreste incendiate e i bombardamenti al napalm che scorticavano la pelle, potessero prevalere sul più potente esercito americano, ebbene era questa una possibilità che nemmeno Kissinger aveva potuto mettere in conto nelle sue elaborazioni tanto teoriche quanto pratiche.
La fuoriscita da quel ginepraio di manifesta impopolarità che era diventato il Vietnam, sinonimo ormai di sconfitta a tutto tondo, fu non solo necessaria per evitare la consunzione delle forze armate, l’impoverimento politico della Casa Bianca, la completa rovina della credibilità di tutto un sistema di rappresentanza e di potere; fu oltremodo imposta da un riposizionamento sullo scacchiere internazionale delle pedine che erano, sino ad allora, state mosse male e nella frettolosa frenesia della guerra.
La trattativa “segreta” condotta da Kissinger insieme a Phan Đình Khải (alias Le Duc Tho), portò quindi alla fine del conflitto che rimarrà come profonda cicatrice nella storia dell’invincibilità statunitense su tutti i fronti. Fu tutt’altro che un compromesso con i vincitori.
Nella narrazione kissingeriana, più che altro, si trattò di una ritirata strategica per la riorganizzazione, sempre in chiave ferocemente anticomunista (o per meglio dire antisovietica), delle politica estere di un’America molto scossa, colpita al cuore della sua tronfia sicumera, alimentata, presidenza dopo presidenza, dalla certezza che nulla avrebbe potuto mettersi sulla strada della grande aquila di mare dalla testa bianca. Non fu così, e lo stesso Kissinger ne dovette prendere atto.
Si rifarà con il pieno sostegno a Pinochet, aggiornando il suo prontuario di mantenimento dell’ordine mondiale secondo i dettami del suo suo paese di adozione. Gli interessi economici al primo punto dell’agenda di una Casa Bianca che, in spregio alla sua Costituzione, foraggerà di soldi, di armi e di consiglieri militari e politici i nuovi dittatori di un’America Latina ridotta davvero a cortile di casa. All’atto delle dimissioni di Nixon, il potente segretario di Stato e consigliere per la sicurezza nazionale, si farà paladino degli interessi dei grandi dell’alta finanza.
Lo farà creando un vero e proprio centro di consulenza per il capitalismo nordamericano, simbolo della sua fedeltà indiscussa al teoriema liberista incedente, alla crescita di una economia in cui si vedono le prime crepe dell’assolutismo statunitense tra la presenza comunque ingombrante sovietica e quella cinese che, seppure timidamente, inizia a fare i primi passi verso un evidente sviluppo che oltrepasserà i confini della repubblica popolare.
L’Europa, in questa ridefinizione dei confini geo-politico-economici mondiale è una sorta di comprimaria che sta sullo sfondo. Preda della presenza della NATO, posta a metà tra Washington e Mosca sul piano geografico, la posizione che le tocca e che, quindi, le spetta, secondo la dottrina di Kissinger, è di piattaforma esplorativa tanto verso est quanto nella proiezione mediterranea.
In Medio Oriente c’è Israele che fa da fortilizio americano. Preoccupano, negli anni successivi alla guerra del Vietnam, le dinamiche interne agli Stati africani: Tunisia, Libia ed Egitto. Ma anche l’Iran che, nel giro di un lustro, sarà un’altra spina nel fianco dell’imperialismo unilateralista.
Kissinger è la chiave di volta che apre tante porte, che permette agli inquilini della Casa Bianca di sintonizzare il recupero della stabilità interna con una nuova prospettiva espansionistica estera. Quando scoppia la questione di Timor Est, non ci sono dubbi: si sostiene Suharto, che depose Sukarno, che governa con metodi dittatoriali, che reprime ogni dissenso, che è un po’ il Pinochet delle Molucche e che, quindi, va bene per essere considerato un presidio di anticomunismo, di neocolonialismo ammantato addirittura di motivazione anti-coloniali.
Kissinger è in prima linea in questa arbitraria occupazione, in questa ennesima sedimentazione autoritaria in territori, del resto, profondamente afflitti dalla povertà, da una miseria che oltrepassa la stessa concezione terzomondista che se ne potrebbe dedurre in allora. Ma l’eco del suo premio Nobel per la pace rimane come aurea dorata, che gli consente di sembrare un gigante sempre e comunque. E lo è, se lo paragoniamo ai protagonisti delle politiche estere di oggi: tanto europee quanto transatlantiche.
Un gigante non buono, un abile manovratore tra interessi letteralmente opposti. Camaleontico, ottimo per tutte le stagioni, preservato tanto dai repubblicani quanto dai democratici che si sono alternati alla Casa Bianca. Un genio della comunicazione, un conservatore che sapeva apparire progressista; un liberale di rito liberista. Questi uomini ricchi di contraddizioni sono, in un mondo altrettanto contraddittorio, la migliore risposta per il sistema che li alleva nel suo seno e li ricerca spasmodicamente, e che in loro vede le sentinelle di un ordine mondiale fragilissimo.
La nuova epoca del multipolarismo asiatico gli aveva solleticato le stanche membra del tessitore di relazioni sempre più resilienti: nell’interesse, si intende, esclusivo degli Stati Uniti d’America. La sua devozione per il potere senza se e senza ma, lo aveva portato a servire anche l’amministrazione Biden. Quale presidente, obiettivamente, avrebbe potuto fare a meno di una figura così ingombrante, quasi da padre della patria, che si offriva per aprire un corridoio di interlocuzione con Pechino, per ventilare una possibilità di disgelo con il drago cinese?
La “politica della navetta” (l’andirivieni tra le parti in causa) è stata una costante nella renovatio diplomatica kissingeriana. Su scala davvero intercontinentale. Un po’ tutti hanno preso spunto, copiato e imparato da questo campione di cinismo, di spregiudicatezza all’ennesima potenza, di amico di tutti coloro che si piegavano al dettame globalista nordamericano. L’America dei “Chigaco boys” appartiene forse al passato, ma la messa da parte del rispetto dell’autonomia e dell’indipendenza dei popoli è e rimane tutt’ora una parte fondamentale della politica estera USA.
La contesa mondiale non ammette eccezioni. Fino alla fine Kissinger lavora a questa visione di restaurazione della granduer statunitense nel mondo. Cercando di innovare la sua verve diplomatica, di ritornare ad essere quell'”amico del popolo cinese” ancora una volta, mutatis mutandis, sapendo che Xi Jinping non è Mao e che con una potenza come quella cinese Washington deve fare i conti.
Senza Henry Kissinger il mondo forse sarebbe stato migliore. E’ questa la desunzione che si può criticamente ricavare dal ripercorrere una lunga vita in cui, senza tema di smentita, si sono, nella sua figura, incrociati i destini di interi popoli, nonché di quello americano. Unico nella storia della Repubblica stellata, Kissinger ha mantenuto a lungo il doppio incarico di segretario di Stato e di consigliere per la sicurezza nazionale. Se dovesse accadere ancora, potremmo certamente dire che ne è stato il precursore.
Senza Henry Kissinger l’America avrebbe potuto espandersi imperialisticamente come ha fatto in tutta la seconda metà del Novecento e, non da ultimo, anche nel primo ventennio del nuovo millennio? Non è una domanda a cui corrisponde una risposta semplice e, soprattutto, definitiva.
Visto che la diplomazia a cui si era dato l’ex esule tedesco divenuto professore di Harvard era cambiata radicalmente proprio con lui, divenendo altro da sé stessa, soppiantando quasi le decisioni presidenziali e ispirandole in grandissima parte, si può iniziare col rispondere che senza lui gli Stati Uniti avrebbero forse fatto scelte meno sprezzanti in tema di rispetto delle indipendenze degli Stati latinoamericani, mediorientali e africani.
Ma, se si entra nel campo delle ipotesi, dei se e dei ma, si fa pochissima strada nell’appurare la vera congenialità tra Kissinger e il suo tempo, tra lui e il suo paese adottivo. Bisogna stare ai fatti. E i fatti sono impietosi e non fanno di lui un sostenitore della buone relazioni internazionali fondate su un principio cardine della Costituzione americana: la libertà. Si potrà obiettare che Kissinger non è il solo ad aver bypassato i princìpi nel nome della politica politicanteggiata, della pragmatica realtà degli interessi a stelle e strisce.
E’ vero. L’America è questo, del resto. E’ un groviglio di contraddizioni che si innesta nel capitalismo tanto ottocentesco quanto in quello del Novecento e che arriva fino a noi. C’è chi si è battuto per limitarne i danni; c’è, invece, chi come Kissinger si è speso per esacerbarne le ricadute negative su chi non poteva difendersi e ha dovuto subire la prepotenza statunitense. Il Nobel per la pace è quanto di più estraneo possa esservi nel riepilogo della lunga vita di questo potente personaggio che rimarrà nella Storia.
Kissinger non sarebbe biologicamente sopravvissuto fino a vedere gli effetti più consolidati di un multipolarismo che sta ancora crescendo e muovendo i suoi primi passi. La sua politica imperialista era già decrepita molto prima che lo divenisse lui. La sua morte chiude definitivamente un ciclo di politica estera che andrà studiato ancora a lungo. Ma il rischio che il suo comportamento e i suoi insegnamenti siano emulati è grande.
Anzi, non è proprio un rischio. E’ una certezza. In America, patria del rampantismo, ci sarà di certo chi proverà ad essere un “nuovo Kissinger“, dopo che lui venne considerato il “Machiavelli moderno“.
MARCO SFERINI
30 novembre 2023
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