Le presidenziali americane sono l’occasione, per noi di sinistra che viviamo al di qua dell’Oceano Atlantico, in cui ripercorrere le contraddizioni che ci attraversano nel momento in cui siamo messi, sempre più frequentemente, di fronte ad una scelta che pone, sostanzialmente, in essere due opzioni. In Italia la chiamiamo “alternanza“; negli Stati Uniti è la prassi consolidata di un sistema elettorale che riprende tutta la complessità di una repubblica federale presidenziale.
In particolare nelle formazioni della sinistra di alternativa, che quindi di per sé stessa rifiuta l’ambiguità (ed è un sinonimo…) proprio dell’alternanza, fiutandone il trappolone della somiglianza piuttosto ampia tra le coalizioni che si disputano l’accesso alla maggioranza parlamentare e, quindi, a Palazzo Chigi, subentra, immediatamente dopo una valutazione approssimativa sulla qualità dei programmi, un draconiano giudizio di equipollenza che renderebbe indistinguibili sinistra moderata e destra estrema.
Dal 2008 a questa parte, quando l’esperimento de “La Sinistra l’Arcobaleno” mancò il quorum per entrare in Parlamento, il percorso analitico-critico in merito agli insuccessi del progressismo alternativo e radicale ha seguitato a trascinarsi stancamente su un piano di valutazione autoconsolatorio, giustificazionista, facendo di una sorta di nuovo “cretinismo parlamentare” la cifra interpretativa del tutto.
Con qualche ragione, visti i precedenti dei governi di centrosinistra, si era riflettuto sul fatto che forse l’alleantismo non pagava, che sottraeva invece consensi alle formazioni comuniste e di alternativa perché chi vi si doveva riconoscere si sentiva, alla fine, tradito dai compromessi con liberali e liberisti. La natura di classe della sinistra, quindi, si sosteneva, veniva progressivamente meno e per questo il margine di ampiezza nella separazione tra partiti e popolo aumentava di conseguenza.
Per questo, la tattica veniva mutando e si provava, complice anche il tentativo di terzapolarizzazione pentastellata del panorama politico e sociale italiano, a fare il famoso “quarto polo“: un insieme di partiti e movimenti progressisti che escludevano però, a differenza del PD qualunque alleanza col centro e che si richiamavano, differentemente dalle teorizzazioni lettiane, gentiloniane e renziane, schiettamente al socialismo di sinistra, al comunismo ed all’ambientalismo critico.
Ma anche questo viatico non ha pagato in termini elettorali, pur ottenendo a volte risultati non disprezzabili: però non ha eletto (tranne per l’episodio felice de “L’Altra Europa con Tsipras“) mai rappresentanti nelle istituzioni ed ha quindi finito la sua funzione aggregatrice, dopo ogni singola tornata elettorale, col consumarsi rapidamente per una inedia decretata più che altro dai fatti e, indubbiamente, sostenuta da una mancanza di volontà a proseguire privi di entusiasmo per via dei mancati risultati che ci si attendeva.
Di fronte a tanti decenni di cocenti delusioni, con il riemergere del multipolarismo globale, di sfide epocali come quelle delle migrazioni, della crisi climatica e delle guerre regionali che compongono un puzzle inquietante di sconvolgimento planetario, dettato da un capitalismo imperialista che non accenna a rallentare la sua corsa verso la profitualizzazione e la mercificazione di tutti e di tutto, la risposta nostra, come comuniste e comunisti, non è stata quella di comprendere le differenze che ancora intercorrono tra destra estrema e sinistra moderata, ma semmai quella di accomunare il tutto in un unico calderone.
L’indistinzione è divenuta la formula magica di un moderno settarismo politico che si attribuisce anzitutto la giustezza delle proprie posizioni e che la proclama senza riceverne in cambio un consenso popolare che, invece, meriterebbe. Alla domanda del perché tutto questo avvenga, si risponde in tanti modi diversi, con argomentazioni altrettanto tali, ma si sfugge alla risposta diretta e più occamianamente logica: non sarà che avremo ancora una volta preso lucciole per lanterne?
Dopo la consunzione del progetto tripolare e la presunta fine dell’alternanza bipolare, con la crisi endemicamente verticale del Movimento 5 Stelle (acutizzatasi ancora di più con le ultime regionali liguri e le liti interne nella fase di ripensamento strutturale del partito da grillino a contiano), l’alternanza è ritornata, se non proprio ancora protagonista della vita politica italiana di questi ultimi anni, quanto meno comprimaria dello scenario complessivo che si è involuto con l’arrivo a Palazzo Chigi della compagine meloniana.
L’aggressività antisociale, incivile e immorale delle destre di governo, che attaccano i diritti fondamentali, che privilegiano il privato al pubblico, che difendono i grandi possidenti e il confidustrialismo a tutto tondo, mentre penalizzano il lavoro salariato, i pensionati e le reti un tempo di garanzia per i ceti più deboli, destrutturando gli ambiti di formazione culturale, di valorizzazione civica e di partecipazione attiva alla vita del Paese, avrebbe dovuto indurre anche la sinistra di alternativa a riconsiderare la propria collocazione in questa fase.
Una parte di essa sta facendo questo sforzo di recupero tanto della propria memoria storica quanto dell’elaborazione di una linea politica di più lungo corso che sottragga al tatticismo la prevalenza che ha avuto, cautamente o incautamente e senza distinzione di posizioni, un ruolo esagerato, soffocando ogni possibilità di critica e di prospettazione di una “alternativa all’alternativa” stessa. Un’altra parte, invece, nel dibattito interno alla fase congressuale di Rifondazione Comunista, propone ancora una volta l’equiparazione tra destra estrema e sinistra moderata, ritenendo possibile, sic stantibus rebus, la concretazione di un polo della sinistra di alternativa competitivo.
Questa fideistica e presuntuosa politica di una esclusività che garantirebbe la verità delle proprie posizioni rispetto alla falsità di tutte le altre, per l’appunto nell’indistinguibilità dichiarata e proclamata dai portatori del Verbo anticapitalista per eccellenza, finisce con l’essere una ginnastica ripetitiva, un meccanicismo autoindotto per darsi un significato prescindendo dai reali rapporti di forza. Tanto politici quanto sociali. L’obiezione è sempre la stessa geremiade consunta, trita e ritrita: “PD e destre sono uguali“.
Una affermazione che, nel partire da un presupposto veritiero, ossia la verosimiglianza tra i poli su tematiche prettamente economiche, approda ad una falsificazione pressoché totalizzante. Il che fa venire meno anche quel minimo di giusta critica che deve riguardare una sinistra moderata che, troppe volte, si è fatta centro e, come nel caso della lunga esperienza renziana, ha lambito e costeggiato gli approdi verso destra.
Non c’è dubbio che le forze moderate e progressiste non intendano mettere in discussione il capitalismo e i suoi assi portanti. Ma una considerazione uguale può tranquillamente riguardare, ad esempio, i BRICS, visti invece da molta parte di questa sinistra di presunta alternativa come una sorta di polarizzazione di paesi antiamericani e, solo per questo, da annoverare nel nuovo pantheon dell’altermondialismo, dell’antiglobalizzazione e, magari, persino dell’anticapitalismo. Niente di più lontano dalla realtà.
Nella fase multipolare appena iniziata (da quasi un ventennio…), non vi è nessun blocco o polo emergente o riemergente che intenda proporsi come altro dal sistema in cui si trova. Poi, certo, se guardiamo a Cuba, al Brasile di Lula, al Vietnam, al Venezuela o al Cile, oggi vi possiamo trovare governi intenti ad andare nella direzione dell’aumento dei diritti sociali, della contraddittorietà rispetto al sistema delle merci, dello sfruttamento e dei profitti. Questo dovrebbe indurci a riflettere sul fatto che astrarre dal particolare verso l’universale è sempre una operazione rischiosa. E viceversa.
Assolutizzare e cancellare le differenze, anche minime, che possono intercorrere tra schieramenti, partiti, forze sociali, sindacali, culturali e tra governi e governi, è fare un torto alla causa del socialismo, al suo avanzamento moderno nel nuovo millennio. Dove esiste la possibilità di aprire delle contraddizioni, lì ci si deve inserire e provare a marcare nuove differenze, per ottenere dei passi in avanti nella direzione del miglioramento delle condizioni esistenziali di tutte e di tutti.
Per questo è colpevolmente miope affermare che Trump e Harris sono la medesima cosa, identici, quasi inseparabili. Senza dubbio sono entrambi pienamente dentro questo capitalismo liberista, ma il primo ha l’aggravante di essere un post-democratico che non intende provare a contenere gli eccessi del sistema ma, anzi, ad aumentarne gli effetti proprio sulla povera gente, depredandola non solo dei diritti sociali ma anche delle libertà civili. Non vedere queste “minime” differenze è una grave colpa politica, un enorme sottovalutazione sociale e un difetto di prospettiva di grande conto.
Il confronto tra la politica italiana ed europea e quella americana, in questo frangente, è piuttosto facile perché gli schemi si ripropongono molto similmente tanto al di qua quanto al di là dell’oceano: obbediscono allo stesso principio che poggia sulla proclamazione della purezza di posizioni alternative che, nel lato pratico delle questione, restano mere testimonianze che non hanno alcun riverbero sul fronte pratico, concreto della vita di ogni giorni della gente che soffre e patisce sempre più gli effetti devastanti del capitale.
Forse è ritornato il momento di riaprire una grande questione dei nuovi tempi: quella dell’utilità tanto dell’autonomia quanto dell’unità di forze comuniste, proprio come Rifondazione, che, laddove maturano le condizioni possibili, si inseriscano nuovamente in queste contraddizioni e, al contempo, si facciano portatrici delle critiche più radicali e intransigenti rispetto alle cedevolezze verso le seduzioni governiste a tutti i costi o gli spostamenti al centro(destra) delle coalizioni che potrebbero invece essere marcatamente progressiste.
Si tratta, in fondo, di seguire gli esempi francesi e spagnoli: non si fa la rivoluzione, questo è certo, ma si opera nella direzione di dare fiato e ossigeno sociale a chi diritti sociali ne ha sempre meno, provando a salvaguardare le libertà, i diritti e gli spazi di agibilità delle minoranze come delle maggioranze, legando i valori del socialismo a quello costituzionali di una Repubblica che non merita di rimanere nella mani della destra più estrema e pericolosa degli ultimi settant’anni.
Così come gli Stati Uniti d’America, nell’impossibilità di diventare domani una repubblica socialista, fanno meglio a scegliere il campo democratico rispetto a quello dell’eversione iperliberista, oscurantista, omofoba, misogina e retriva rappresentata da un trumpismo che è la fine della vecchia guardia repubblicana e la possibile riapertura di un ciclo politico, economico e militare che può far svoltare la storia della Repubblica stellata indietro di qualcosa di più di un mezzo secolo.
Nemmeno il reaganismo, per quanto fosse il più alto picco di conservatorismo raggiunto dal Grand Old Party nel secondo dopoguerra, può essere paragonabile alla grettezza di Trump e Vance. E una sinistra moderna, in Europa, soprattutto in Italia, dovrebbe avere chiara la differenza tra un neoautoritarismo che si innesta nell’impianto strutturale capitalistico e un democraticismo che, per quanto apparente possa sembrare (e talvolta essere), tenta di limitarne gli eccessi.
Comunisti, socialisti, libertari e ambientalisti dovrebbero stare dentro la contraddizione reale dei democratici e delle sinistre moderate: ritenere che si possa migliorare un sistema capitalistico che, invece, va oltrepassato e che è irriformabile. Ma questa lotta la si può fare solamente se prima si è sconfitto il revanchismo autoriritario e postdemocratico delle destre di casa nostra così come quelle a stelle e strisce.
MARCO SFERINI
5 novembre 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria
Leggi anche: