Hamas e Netanyahu, le radici dei crimini contro due popoli

La Procura della Corte Penale Internazionale ha parlato, ha scritto, ha inviato la richiesta di incriminazione. Dei leader di Hamas per la strage di oltre milleduecento civili israeliani il...

La Procura della Corte Penale Internazionale ha parlato, ha scritto, ha inviato la richiesta di incriminazione. Dei leader di Hamas per la strage di oltre milleduecento civili israeliani il 7 ottobre 2023; di Benjamin Netanyahu e di Yoav Gallant per sterminio, per azioni volte ad affamare la popolazione civile palestinese, ad usare l’indigenza e l’inedia come armi su vasta scala. Il tutto mentre la guerra israeliana contro Gaza prosegue e minaccia Rafah ancora più decisamente.

La differenza tra l’accusa di sterminio e quella di genocidio è tutt’altro che di lana caprina: qui la procura internazionale mette nero su bianco il fatto che, in assenza di un dolo che, invece, riguarda l’accusa di genocidio mossa dal Sudafrica e accolta nell’istruttoria della Corte di Giustizia, siamo comunque in presenza di azioni di morte su vasta scala.

Le premesse affinché ciò avvenisse stanno tutte nel proposito della guerra che, tuttavia, se limitato ai combattimenti tra milizie ed eserciti, dovrebbero – in teoria…, molto in teoria… – limitare al minimo le perdite civili.

Invece Israele ha agito senza distinzione. Ha indotto il suo esercito ad un’azione su vasta scala, prendendo di mira chiunque: dai cecchini che ammazzano i bambini che in bicicletta vanno a prendere un po’ di pane o di acqua, fino agli anziani che cercano la fuga su carretti trainati da muli e cavalli.

L’accusa di sterminio, quindi, è rivolta all’oggi più oggi che mai: al conflitto in corso, perché ogni giorno è verificabile sul campo. Mentre scriviamo centinaia di palestinesi muoiono assassinati nei combattimenti portati da Tsahal nel centro della Striscia di Gaza e in quel sud di Rafah dove il riparo è pressoché ormai un non-luogo, una utopia concreta.

Il tutto avviene mentre la Corte di Giustizia Internazionale va avanti col procedimento che vede indagato lo Stato di Israele con l’accusa di perseguire intenti genocidiari nei confronti dei palestinesi. Il tutto mentre oltre trentacinquemila persone sono state assassinate dalle armi di Tsahal e Heyl Ha’Avir. Si può, ora, stabilire un parallelo tra le mosse dei due tribunali: uno fa riferimento all’ONU, l’altro al Trattato di Roma con cui, nel 1998, fu istituito questo alto ufficio di giudizio dei più efferati crimini contro l’umanità.

E di questi sono imputati tanto Hamas quanto Netanyahu e i suoi ministri. Perché di orrende stragi di massa si tratta. L’equiparazione tra i due contendenti è sgradita tanto agli uni quanto agli altri che si ritengono, reciprocamente ed inversamente aggrediti e aggressori. Ma le vittime rimangono sul terreno, sotto le macerie, traumatizzate dal 7 ottobre dagli stupri, dai rapimenti, dall’essere tenuti in ostaggio nel campo di battaglia e di morte in cui Israele ha trasformato la Striscia di Gaza.

Le vittime di questa lotta omicidiaria sono i civili. Sono decine di migliaia di bambini, innocentissimi, privi di qualunque colpa. Ammesso che colpe ne abbiano gli israeliani che sono stati brutalmente assassinati dalle brigate di Hamas o i palestinesi trucidati sotto le bombe, sepolti sotto quelle case che per il settanta per cento sono ormai delle montagne di macerie. I fatti del 7 ottobre – come qualcuno ha opportunamente osservato – non sono più sufficienti a giustificare la reazione israeliana.

Se questa fosse stata mirata ad individuare i capi di Hamas, avrebbe avuto una logica, un senso anche politico, oltre che civile e militare al tempo stesso. Invece Netanyahu ha inverato la sua dottrina di esacerbazione dell’imperialismo sionista nel prendere cinicamente come occasione la strage del 7 ottobre per scatenare la guerra totale contro i palestinesi, col fine ultimo di scacciarli dalla Striscia di Gaza. La vergognosa implementazione dell’azione colonizzatrice in Cisgiordania aumenta il portato disumano di questa guerra.

La brutale ferocia dei coloni, integralisti, spietati fanatici nazionalistico-religiosi, sta impedendo in queste ore, col beneplacito dell’esercito israeliano, che dà indicazioni agli stessi su come e quando fermare gli aiuti umanitari che tentano di entrare a Gaza, i rifornimenti di materia prime: cibo, acqua, medicine… Non una parola si leva dal governo di Netanyahu per fermare queste azioni criminali. Tutto avviene così perché i coloni sanno di andare incontro alla volontà dell’esecutivo di guerra.

La guerra si fa con le bombe, con i droni, con i cannoneggiamenti dal mare e con il ridurre alla fame e alla sete milioni di persone. La Procura della Corte Penale Internazionale ha consegnato al mondo, quanto meno, il principio del diritto internazionale che deve valere per tutti. Ed anche se Israele non ha firmato il Trattato di Roma, ciò non toglie che quelli che vengono commessi in Palestina sono da tempo immemore crimini contro l’umanità, ed oggi, più di ieri, sono sistematici, perché sono una guerra.

Una guerra che Netanyahu vuole portare avanti per sei mesi, forse di più. In coincidenza con la scadenza del mandato presidenziale statunitense e, ovviamente, per evitare una sua prevedibile rovinosa caduta in disgrazia politica e personale che lo vedrebbe additato in patria come colui che deve rispondere di problematiche con la giustizia fiscale e con pericolosi tentativi di sovvertire la giustizia stessa di Israele; mentre all’estero con un probabile mandato di cattura internazionale.

La richiesta fatta dal procuratore capo Khan è inoltrata ai giudici dell’alta corte. Ci vorranno alcuni mesi per sapere se sarà accolta. Ma quello che ora conta è il messaggio che si invia al mondo per intero ed è cristallinamente riassunto nelle parole finali della conferenza stampa del capo dell’ufficio giudiziario della Corte:

«Oggi sottolineiamo ancora che diritto internazionale e leggi sui conflitti armati si applicano a tutti. Nessun soldato, comandante, leader civile – nessuno – può agire impunemente. Nulla può giustificare la privazione intenzionale a esseri umani, tra cui tante donne e bambini, dei beni di prima necessità necessari alla vita. Nulla può giustificare la presa di ostaggi o l’uccisione di civili».

La Corte Penale Internazionale ha come compito quello di giudicare le azioni delle singole persone, mentre la Corte di Giustizia i fatti nel loro insieme. I due procedimenti, quindi, possono viaggiare su binari paralleli, rappresentando una contestazione più generale di ciò che avviene nello specifico di situazioni che non sono riconducibili, come pretenderebbe lo Stato ebraico, ad un effetto di azione e reazione per quanto avvenuto il 7 ottobre.

L’alibizzazione è una cifra costante della storia israeliana: quando Tel Aviv intende ridicolizzare le posizioni critiche nei suoi confronti assume l’argomentazione dell’antisemitismo. È sempre avvenuto nel corso della fondazione prima e della costruzione poi dello Stato di Israele.

Le stesse guerre arabe mosse fin dal 1948 contro l’espansionismo sionista, rispetto al progetto del mandato britannico per la Palestina e al piano di spartizione dell’ONU poi, non avevano come scopo la cancellazione del popolo ebraico, ma il contenimento della sua espansione nella Palestina, nel territorio dello stato arabo.

Le minacce di cancellazione di Israele dalla carta geopolitica del Medio Oriente, contenute prima negli statuti dell’OLP e poi in quelli di Hamas, non hanno mai veramente avuto un carattere antisemita, bensì antisionista. Parimenti, in tutto questo calderone di odio e di disprezzo per la vita umana, si è sviluppato un filone della cultura nazionale israeliana in cui la traccia religiosa ha influito nella costituzione della democrazia dello Stato ebraico. Per l’appunto tale. Ebraico. E ragionevolmente, anche.

Ma la ragione propria finisce lì dove pretende di anteporsi preventivamente e pregiudizialmente a quella altrui. Così come la libertà. La situazione attuale è divenuta di una gravità così enorme da spingere gli Stati europei a dichiararsi pronti a riconoscere lo Stato di Palestina proprio per l’accanimento genocidiario con cui Israele sta portando avanti il conflitto che stermina i gazawiti da un lato e reprime i cisgiordani dall’altro.

L’Irlanda, la Norvegia, il Belgio, la Spagna. Non Stati antidemocratici, ma fondanti quell’Unione Europea che dovrebbe essere sinonimo di condivisione dei valori di pace, giustizia ed eguaglianza tra i popoli, hanno riconosciuto o stanno per riconoscere la piena legittimità della Repubblica palestinese, dello Stato di Palestina. Così come ha fatto l’assemblea delle Nazioni Unite poche settimane fa, pur sapendo di trovarsi davanti, in seguito, al veto del Consiglio di Sicurezza espresso dagli Stati Uniti d’America.

La Procura della Corte Penale Internazionale ha agito indubbiamente sulla spinta dell’esasperazione della guerra, ma lo ha fatto su dati oggettivi che nemmeno Israele sconfessa. Di quegli oltre trentacinquemila morti pare gloriarsene, con una spietato cinismo che fa il paio con la meschinità dei coloni che distruggono le derrate alimentari e medicinali che dovrebbero passare i nuovi punti di accesso messi da Tsahal a metà della Striscia di Gaza, dove i combattimenti sono efferatissimi.

La Procura della CPI ha così messo fine al presupposto di agire su un doppio standard. Biden e Netanyahu minacciano magistrati e giudici di ritorsioni, di dare seguito a vere e proprie sanzioni.

Qui si svela la democraticità di regimi che si sentono minacciati nella legittimità dei loro dettami, di un potere che potrà anche essere garantito dai grandi gruppi economici che li sorreggono, ma che agli occhi del mondo vacilla nel momento in cui si fa prendere dalla disperazione megalomane del proclamarsi i soli detentori della morale, del diritto, della giustizia universale.

Gli Stati, in quanto aggregazioni di potere, sono di per sé esercizio della coercizione e della violenza. Ma c’è sempre una linea di confine che non va oltrepassata. Israele l’ha scavalcata da settant’anni, da quanto ha iniziato a trattare i palestinesi come esseri umani di serie B, da ghettizzare, da non considerare come popolo accanto ad un altro popolo, come vicini, come coabitanti di una terra che poteva essere, istituzionalmente, una confederazione.

Fa ben sperare l’avanzare del riconoscimento sempre maggiore da parte di numerosi Stati, europei anzitutto ma anche in altre parti del mondo, della futura Repubblica palestinese. Unita alla richiesta di incriminazione per i leader di Hamas da un lato e di Benjamin Netanyahu dall’altro, disegna i contorni di una indicazione solerte a mettere insieme il meglio delle due società ora in lotta a causa dell’avidità di potere, di interessi e del fanatismo nazionalista che va messo da parte.

Una indicazione che descrive la possibilità di archiviare la stagione dell’odio fomentato dal suprematismo, dal razzismo religioso, dalla mancanza di sicurezza che vivono i due popoli in uno stato di tensione e di allarme permanente. Israele e Palestina possono costruire un futuro insieme, ma devono cambiare radicalmente i loro governi, le loro classi dirigenti. Allora sì che l’ultimo giorno di occupazione sarà davvero il primo, vero giorno di pace. Per entrambi, per tutti.

MARCO SFERINI

23 maggio 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

categorie
Marco Sferini

altri articoli