Hamas e Netanyahu, due calamità per due popoli

Arrivati a questo punto, la domanda è: qualunque atto di terrorismo, prescindendo dall’entità, quindi proprio qualunque, esattamente come quello delle Torri gemelle, oppure quello del Bataclan, o ancora oggi...
I capi contrapposti: Yahya Sinwar di Hamas e il premier israeliano Benjamin Netanyahu

Arrivati a questo punto, la domanda è: qualunque atto di terrorismo, prescindendo dall’entità, quindi proprio qualunque, esattamente come quello delle Torri gemelle, oppure quello del Bataclan, o ancora oggi quello di Hamas contro la popolazione israeliana, può giustificare la reazione di un governo a tal punto da corresponsabilizzare un intero popolo con i terroristi che vi appartengono e che l’hanno perpetrato?

Può, in sostanza, fare di un’intera comunità di milioni e milioni di persone un unicum col gruppo criminale che ha ammazzato persone inermi, indifese, civili, pacifiche e prive di qualunque responsabilità per le politiche, altrettanto criminali, dei governi della destra israeliana nei confronti dei palestinesi?

Le Nazioni Unite hanno già dato una risposta: l’assedio che Netanyahu ha deciso di porre a Gaza, circondando la Striscia con oltre trecentomila uomini dell’esercito, tagliandole, luce, gas e impedendo che entrino nell’exclave palestinese medicinali e qualunque tipo di altri beni di primissima necessità, è illegale sul piano del diritto internazionale, delle convenzioni di guerra, quindi delle regole stesse che – paradossalmente – dovrebbero regolare gli scontri tra gli Stati.

Abbiamo quindi la risposta in punta di diritto, ma abbiamo anche la risposta del governo israeliano che, come gabinetto di guerra, si appresta ad una invasione di terra che nessun osservatore, critico, giornalista, esperto di politica mediorientale e di tattiche belliche osa definire eufemisticamente come una semplice invasione per ripulire l’area dalla presenza mortifera di Hamas.

Tutti convengono sul fatto che sarebbe un massacro indiscriminato. Già ora, togliere l’elettricità all’intera popolazione della Striscia di Gaza significa lasciare nell’inerzia più totale i servizi essenziali.

A cominciare dagli ospedali. Come possono curare tanto i malati quanto i feriti? In questo modo ogni nosocomio diventa un anticamera della morte. Ed è quello che vuole Netanyahu: sterminare per dare alla vendetta la forma totalizzante di un monito esemplare.

Qualcosa da ricordare, associata alla data del 7 ottobre 2023, una data che, oggettivamente, non scorderemo e che rimarrà nei libri di Storia. La recrudescenza delle atrocità dilania la causa palestinese. Oggi Hamas è il principale nemico dell’esistenza stessa dei due milioni e mezzo di persone che sono letteralmente rinchiuse nella prigione a cielo aperto di Gaza.

Oggi i palestinesi in chi possono confidare? Nell’abulia dell’Autorità Nazionale di Abu Mazen? Nel fanatismo religioso e integralista? Nella sinistra israeliana e negli arabi che circondano lo Stato ebraico? In Hezbollah che, similmente ad Hamas, è un partito jihadista, filoiraniano e che ha, quindi, in nuce un disprezzo pressoché totale per una laicità istituzionale che possa rappresentare una pluralità di posizioni tanto sociali quanto culturali e civili di un popolo realmente libero?

I palestinesi non sono soli, ma sono sempre meno rappresentati dalle loro istituzioni barcollanti, dal caracollare di una politica che in Cisgiordania è stata certamente costretta a subire il processo di colonizzazione della destra fanatica israeliana (ben rappresentata nel precedente e nell’attuale governo di Netanyahu), ma che non ha saputo creare una alternativa generazionale allo stanco governo impersonale di Maḥmūd ʿAbbās.

Prova ne è il fatto che, a quanto pare dalle cronache che piano piano prendono corpo in forma di analisi e di inchieste su quello che sta avvenendo, ben trentatrè brigate dell’esercito israeliano erano in questi giorni concentrate sul fronte cisgiordano, mentre soltanto tre presidiavano il confine con Gaza.

E nonostante questo, Hamas è riuscita a penetrare una barriera che, nell’immaginario collettivo, doveva essere una delle più sofisticate al mondo, una frontiera guardata a vista da un modernissimo sistema di controllo che non avrebbe dovuto lasciar passare nemmeno un alito di vento verso Israele.

In questa crisi regionale, dove rischiano di essere coinvolti, direttamente o meno, Siria, Libano, Egitto, Turchia, Iran, e quindi anche inserirsi la questione curda e la grande problematica dell’irrisolta guerra civile combattuta da Damasco contro l’ISIS prima e contro le sacche di resistenza rimaste poi, non risalta solamente il fallimento dell’intelligence israeliana e il crollo delle certezze di uno Stato militarizzato da capo a piedi.

In questa crisi mediorientale tornano a galla tutti i problemi irrisolti dell’ultimo mezzo secolo novecentesco che si riverberano nel grande problema palestinese, perché lì vi è il cuore della questione che inerisce i rapporti tra Occidente ed Oriente, tra tre continenti che si incontrano ancora una volta a Gerusalemme: un’Europa appannata che fa da riflesso ideale delle democrazie in cui pretende di essere considerato il teocratico Israele; la propaggine più ad ovest di un’Asia che pure non è così lontana come appare; un mondo arabo che va dalle sponde dell’Atlantico a quelle del Pacifico.

Dunque, come è abbastanza palese, il dramma palestinese, l’irrisolto rapporto di mai pervenuta convivenza con Israele, è parte di una globalità da cui è impossibile prescindere.

Se parliamo di Palestina, necessariamente parliamo di un equilibrio che riguarda tutto il Medio Oriente e che, infatti, Netanyahu ha sbandierato all’ONU qualche settimana fa mostrando una cartina in cui là, nella porzione di terra tra il Giordano e il Mediterraneo si trovava, nemmeno a dirlo, soltanto Israele. Nessun territorio palestinese, nessun territorio nemmeno più occupato.

L’affondare nella Storia del Novecento per comprendere le ragioni di un conflitto ormai ultrasecolare, è utile per comprendere la genesi dello stesso, ma oggi ci aiuta fino ad un certo punto nella disamina delle sragionevolezze con cui Hamas ha portato l’attacco contro la popolazione civile israeliana. E’ inconcepibile dal punto di vista, anche soltanto lontanamente inteso, delle azioni che un tempo l’OLP di Arafat metteva in essere contro il potere istituzionale di Israele, contro il suo progetto di colonizzazione forzata di quel che rimaneva della Palestina dopo gli accordi del 1967.

I massacri di Sabra e Chatila, in cui la complicità dell’esercito israeliano con le falangi libanesi di Elie Hobeika venne accertata cronachisticamente e storicamente, sono il termine di paragone che, a mano a mano che il numero dei morti aumenta da entrambe le parti, si può fare per capire la portata del dramma.

Quasi tremila persone sono state assassinate: milleduecento dai missili e dai proiettili di Hamas, le altre dalle incursioni aeree israeliane sopra una Gaza che, a memoria, è uno dei territori più densamente popolati del pianeta. Si preannuncia una strage di proporzioni spaventose se non sarà aperto un corridoio umanitario verso l’Egitto.

Anche nell’orrore della guerra, degli attacchi contro le città dello Stato ebraico, dei kibbutz tanto al confine con la Striscia quanto nelle altre province israeliane, la differenza dell’impatto sui civili si fa sentire. Mentre i missili di Hamas vengono preannunciati dagli allarmi aerei, mentre molti sono intercettati dal celeberrimo sistema “Cupola di ferro” (“Iron drome“), il cui nome oggi suona quasi come una beffa viste la tante brecce in cui si sono insinuati gli attacchi del gruppo islamico, a Gaza non ci sono preavvisi.

Non c’è nulla di nulla. Nessuna contraerea. I missili e le bombe piovono dal cielo e distruggono tutto quello che trovano. Hamas utilizza come scudi umani gli stessi palestinesi, piazzando le sue postazioni in edifici civili che, prontamente, vengono colpiti dall’aviazione israeliana, la cui consegna è non fare prigionieri.

Il grande dilemma per Netanyahu sarà come comportarsi, in caso di invasione terrestre, con le centinaia di ostaggi che le brigate Ezzedin al-Qassam hanno fatto e che detengono chissà dove entro gli stretti confini urbani delle città della Striscia. Israele ha la forza militare dalla sua. Hamas ha israeliani anche di nazionalità europea, americana, della cui vita si deve tenere conto se si vuole passare ancora come “democrazia” per di più filo-occidentale.

Tutto smentisce che Tel Aviv possa sempre più rivendicare questo ruolo in un Medio Oriente in cui le autocrazie e le dittature sono all’ordine del giorno e non certo per una forma osmotico-politica di reciprocità, visto che sovente gli Stati arabi si detestano fra loro (basti pensare agli Emirati Arabi Uniti, al Qatar, all’Arabia Saudita nella sola penisola di quella che un tempo era un terra considerata “felix“).

Semmai la politica statunitense di controllo preventivo dell’area mediorientale, proprio grazie alla comprimarietà israeliana ed ai satelliti iracheni, nonché alla presenza della NATO in Turchia e alla perenne amicizia con Riyad, è stato ed è uno degli elementi che ha favorito la destrabilizzazione completa di un settore strategico nei rapporti tra est ed ovest, tra nord e sud del mondo.

La Palestina è nell’oscurità reale di Gaza, dove la centrale elettrica è stata spenta meno di ventiquattro ore fa, ed è nel buio di una solidarietà internazionale che fatica ad arrivare, perché la narrazione ufficiale deve continuare nel suo unilaterlismo: aiutiamo chi è simile a noi, chi è democratico, chi riconosce le opposizioni, che fonda il suo vivere civile su basi liberaleggianti (ma la destra israeliana tutto è tranne che liberale e democratica…).

Hamas ha completato in queste ore una quadratura del cerchio che fa di Israele la vittima per antonomasia, oscurando tutte le atrocità che i palestinesi hanno subito in oltre settanta anni di occupazione militare, di privazione delle loro terre, dei beni essenziali per la sopravvivenza, di confronto continuo sul piano civile, sociale, culturale e politico.

Hamas, al pari di Netanyahu, è il peggiore nemico dei palestinesi, così come, invertendo i fattori, il prodotto non cambia: il primo ministro israeliano, insieme al gruppo fanatico jihadista, è il peggior avversario di una società veramente solidale, egualitaria, ispirata ad una laicità che deve essere parte fondante di qualunque democrazia.

Senza questa piccola caratteristica, il pluralismo è una chimera, perché uno Stato religioso è uno stato assoluto per definizione, visto che non concepisce altra morale se non quella che è dettata direttamente da una legge che si ritiene superiore a qualunque costrutto umano.

Proclama il governo israeliano che Gaza rimarrà senza acqua, luce, gas, benzina fino a che non saranno rilasciati gli ostaggi. Un ultimatum che Hamas non accetterà, perché la condizione disperata dei prigionieri è l’unica garanzia che rimane ai fanatici jihadisti per garantirsi una preservazione di una immunità che altrimenti sarebbe spazzata via nel giro di pochi giorni con uno spianamento di qualunque cosa possa rimanere viva o in piedi nel fazzoletto di terra tinto solo di sangue.

Non ci sono qui migliori o peggiori ipotesi da fare. Non si riesce nemmeno ad immaginare di invocare una forza di interposizione dell’ONU che garantisca una tregua. Lo scontro è talmente andato oltre da prefigurare solamente un scenario davvero olocaustico.

Questa volta per il popolo palestinese, vittima due, tre, tante, troppe volte: di chi lo ha scacciato dalle sue terre, di chi lo ha massacrato per decenni, di chi lo ha privato del futuro, di chi gli ha negato una patria, uno Stato, una repubblica da costruire piano piano. Vittima di chi lo ha governato malamente, nella divisone interessata delle fazioni. Vittima della corruzione delle stesse. Vittima delle contraddizioni di una politica globale in cui i diritti umani valgono sempre meno.

Non c’è una soluzione a breve termine. Ma, visti gli attori in campo, dall’una e dall’altra parte, non c’è nemmeno da sperare che i palestinesi di Gaza possano fuggire. Non hanno altra scelta, al momento, se non cercare un rifugio in cui la spirale del conflitto arrivi il più tardi possibile. Sopravvivere a Gaza ora è solo l’attesa di una morte certa.

MARCO SFERINI

12 ottobre 2023

foto: screenshot ed elaborazione propria

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