L’impronta comune tra Israele e Hamas nella guerra che avvampa in Medio Oriente, in quello che, almeno per il momento, pare un conflitto regionale ma che, obiettivamente, non può essere separato dal contesto internazionale e globale, sembra la vocazione alla distruzione dell’altro nel nome della sopravvivenza propria.
Fin dagli albori del conflitto israelo-palestinese, la vocazione reciproca è stata questa: sgomberare il campo, fare tabula rasa di un popolo, di una sua organizzazione nazionale su quello che un tempo era la Palestina del mandato britannico e, prima ancora, la terra della diaspora del popolo ebraico compresa, nei secoli successivi, nel dominio romano, in quello dei sovrani arabi che vi si sono succeduti.
Di convivenza e di due popoli e due Stati si è iniziato a parlare dopo la Seconda guerra mondiale, quando il problema si è posto per via dell’esodo ebraico dall’Europa e la ricerca di un luogo in cui, finalmente, le popolazioni semitiche potessero trovare quella terra promessa mai veramente raggiunta.
Oggi, nel pieno della guerra che oppone Hamas ad Israele e viceversa, la questione della coesistenza, della coabitazione e dello sviluppo comune ritorna con forza sul tavolo delle proposte che si possono immaginare e ipotizzare concretamente; anche se alcuni analisti danno per spacciata la possibilità della creazione di uno Stato di Palestina accanto a quello ebraico.
La rassegnazione in questo frangente è data dalla complicazione dei rapporti tanto con Gaza quanto con un’Autorità Nazionale Palestinese che dipende – oggettivamente – quasi in tutto e per tutto dalle decisioni di Tel Aviv. Non si muove foglia in Cisgiordania se non lo vuole Israele.
Ed ogni presupposta sovranità palestinese sulle atomizzate comunità che rimarrebbero sotto il controllo dell’ANP è puramente aleatoria, priva di un riscontro politico e gestionale pratico, nel quotidiano della sopravvivenza di una popolazione privata, di giorno in giorno, dei propri spazi, delle terre, dei diritti umani fondamentali e irrinunciabili.
Dopo quasi due settimane di violenze, eccidi, criminali rappresaglie e bombardamenti che stanno radendo al suolo Gaza, e che hanno provocato più di tremilacinquecento morti, tra cui migliaia di bambini, non può non essere riconsiderata la domanda su dove veramente volesse andare a parare Hamas nel colpire Israele con quella crudellissima ferocia che si è riversata contro centinaia e centinaia di civili nei kibbutz e contro il rave party nel deserto.
Se l’attacco fosse stato esclusivamente militare, oggi Israele avrebbe certamente meno ragioni dalla sua parte nell’esigere una ritorsione spietata contro la Striscia di Gaza. Ma l’attacco ha avuto tatticamente un effetto devastante proprio perché si è diversificato dai soliti lanci di missili contro le città del sud e del centro dello Stato ebraico. Questa volta si è oltrepassata la recinzione, si è andati oltre le torrette di guardia.
Certamente la stessa dirigenza di Hamas non poteva immaginare di trovare tanto campo libero nella penetrazione del territorio israeliano, nello spingersi per decine di chilometri laddove, un po’ tutte e tutti, immaginavamo che l’esercito presidiasse l’area senza poter lasciar passare nemmeno uno spillo.
Ma il quesito che più assilla è questo: i capi di Hamas erano in grado di presagire, anche lontanamente, che la controbattuta di Israele sarebbe stata a quel punto la più energica e, quindi, spietata possibile e che il popolo di Gaza ne avrebbe fatto le spese subendo perdite ben oltre il pareggio numerico con le tante vittime israeliane?
Se ci rispondiamo che Hamas non aveva contezza di tutto questo, mentre potevamo benissimo averla noi che viviamo da molto lontano tutti questi fatti e per l’interposta informazione di giornali, televisioni e di Internet, facciamo un torto alla nostra intelligenza e un torto anche a quella dei dirigenti dell’organizzazione nazionalistica e islamica.
Se ci rispondiamo che, invece, Hamas aveva ben chiaro il piano che stava mettendo in pratica, ne dobbiamo dedurre che, quel popolo palestinese che a parole intende difendere e per il quale rivendica il diritto di esistere in un territorio con uno Stato indipendente (seppure molto diverso da quello inteso dall’ANP), è stato posto sull’altare dei sacrifici, offerto in pasto alla furia israeliana dopo il massacro di più di millecinquecento cittadini.
La questione degli ostaggi è un altro elemento primario di questa guerra che è veramente fuori dal comune nel tratteggio storico dei conflitti tra israeliani ed arabi. Sono circa duecento. Bambini, donne, anziani. E molti militari. Sono indubbiamente una priorità per Tel Aviv e, forse anche per questo, fino ad ora l’invasione di terra è stata rimandata; anche se, a ben vedere, fanno più vittime fra gli ostaggi le bombe dell’Heyl Ha’Avir che non le incursioni terrestri di Tsahal.
E’ tutto molto nebuloso in questo scenario multipolare che si forma, a poco a poco, col passare dei giorni, come un rimescolamento complessivo delle carte date per distribuite e, quindi, delle storiche alleanze che preesistevano al 7 ottobre scorso.
I paesi arabi si infiammano, l’Iran minaccia, Hezbollah viene bersagliato e bersaglia a sua volta. Gli USA schierano le loro portaerei davanti alle coste meridionali di Israele, mentre l’ONU fa appelli umanitari e si rivela ancora una volta preda di una geopolitica che non riesce ad influenzare.
Le risoluzioni per lo stop momentaneo delle ostilità, presentata da Russia e Brasile vengono bocciate a maggioranza o bloccate col diritto di veto della Repubblica stellata, mentre si vocifera dell’apertura del valico di Rafah con l’Egitto per far passare gli aiuti umanitari a quel milione e mezzo di palestinesi che dal nord della Striscia si è spostato a sud, come impostogli minacciosamente dall’esercito israeliano.
In tutto questo caotico divenire di fatti e di sovvertimento dei rapporti tra governi, Stati, poteri che più o meno si riconoscono vicendevolmente, si muovono le grandi nazioni. Alcune come la Russia mantengono rapporti tanto con Hamas quanto con Israele (la comunità ebraica a Mosca, San Pietroburgo e in tante altre città del vecchio impero zarista è una delle più grandi e consolidate del mondo).
Turchia e Cina lanciano messaggi di sostegno alla causa palestinese e tentano ugualmente di porsi come mediatrici all’uopo. L’Egitto si preoccupa di non vedere accampati per sempre centinaia di migliaia di profughi nel deserto del Sinai; Arabia Saudita e Qatar fanno la voce più grossa ma non dimenticano di strizzare contemporaneamente l’occhio all’amico americano.
Torna dunque la domanda di prima: Hamas era sufficientemente conscia di scatenare tutto questo attaccando così frontalmente Israele? Se non lo era, può oggi dire di raccogliere il risultato di aver contribuito a far ammazzare parte del popolo palestinese e di aver trascinato il mondo sulle soglie di un conflitto molto più che ristrettamente racchiudibile nella regione mediorientale.
Di contro, la reazione israeliana è, ugualmente, corresponsabile per un buon cinquanta per cento nell’essere causa di effetti che risvegliano un panarabismo mai veramente sopito, una voglia di riscatto di aree del pianeta considerate da troppo tempo di “serie B” e che la repressione dell’autonomia palestinese e del diritto alla vita di un popolo su un territorio che gli apparteneva, con tutte le vicende storiche pregresse del caso, ha sempre interpretato.
La distruzione dell’ospedale al-Ahli, che ha comportato la morte di quasi cinquecento persone e il ferimento di molte altre, è, lo si voglia o no, un salto di qualità che, chiunque sia stato a colpirlo, fanno le parti in causa.
Se la colpa è di Hamas, questa si somma alla strategia messa in campo il 7 ottobre: l’eclatante, inaspettato attacco ad Israele avrebbe avuto una giustificazione storico-attualistica sul piano della contesa militare. Lo perde nel momento in cui si punta al massacro e al rapimento dei civili. Se la colpa è di Israele, siamo ugualmente davanti ad un vero e proprio crimine contro l’umanità.
Chiunque abbia colpito quel presidio sanitario, è andato oltre le ciniche cosiddette “regole di guerra” (che echeggiano qualcosa di cavallerescamente medievale che veramente non trova spazio nella brutalità dei conflitti dei giorni nostri, e che ci ricordano quanto siano disattese la Convenzione di Ginevra e tutte le altre…); ed è andato oltre il diritto internazionale oltre alla propria presunta morale da un lato e al proprio dirsi Stato democratico dall’altro.
Joe Biden ha chiesto a Benjamin Netanyahu di non commettere gli stessi errori fatti dagli Stati Uniti d’America dopo l’11 settembre e tutto quello che ne venne fuori: la guerra al terrorismo, l’intromissione imperialista in interi stati e regioni del pianeta, la riduzione di popoli che prima vivevano relativamente in pace in un pullulare di guerre intestine, (in)civili da cui è rinato il fanatismo religioso jihadista.
Sembra un appello tardivo, remissivamente proposto come appello a non invadere Gaza, a limitare il più possibile i danni di un allargamento del conflitto che gli USA temono in particolare nei confronti dell’Iran e degli altri Stati arabi. Ne va di un equilibrio precarissimo e, ovvio, degli interessi di Washington nella regione coinvolta oggi e in quella africana e asiatica dove non sono poche le tragedie interetniche e le richieste di autonomia dalla sfera di influenza occidentale.
La questione palestinese e quella israeliana sono un crocevia torvo di giochi finanziari, economici e di guerra che può dar vita a fenomeni totalmente inattesi e inaspettati. I “lupi solitari” che si rifanno vivi nella vecchia Europa, da Bruxelles ad Arras, uccidendo innocenti, diffondendo allarmi bomba nella reggia di Versailles o al Louvre, sembrano una specie di riflesso condizionato degli eventi.
Una reazione quasi meccanicistica, un istinto pavloviano per alcuni scalmanati che, pur nel loro intento di radicalizzazione e di fedeltà all’ISIS (si badi bene, al vecchio Stato islamico, non ad Hamas), se non eterodiretti da un movimento reale che coordini le singole slegate realtà individuali, non possono avere (per fortuna) l’impatto che hanno fatto registrare in passato in mezza Europa: dal massacro della redazione di “Charlie Hebdo” alla strage del Bataclan, dagli attentati nei mercatini di Natale alla folle corsa omicida del tir sulla Promenade des Anglais a Nizza.
Nonostante i tentativi di andare a fondo nella ricerca di una logica tattica, di una pianificazione strategica, di un presupposto politico realizzabile, non si riesce ad individuare nel folle attacco criminale di Hamas una contropartita utile alla causa del popolo palestinese o, anche, a quella incomprensibile, ma purtroppo reale, del jihadismo gazawita.
Forse, soltanto immedesimandosi in quel tipo di realtà martoriata da decenni è possibile entrare nei meccanismi di disarticolazione delle ragioni e delle lucide follie di un movimento militare e politico che oggi è impossibile non definire “terrorista“. Pertanto l’enigma rimane. Lo scioglierà la Storia con lo svolgersi del tempo. Ma prima di allora tante, troppe vittime entreranno nel computo di un conflitto che poteva essere evitato.
Non è vero che era nell’ordine delle cose, in una sorta di naturale evoluzione-involuzione dei non-rapporti tra Hamas ed Israele. Le colpe dell’Occidente sono enormi, tanto quanto gli interessi delle rispettive economie.
La notte della Palestina è diventata oggi anche la notte di Israele. E questa nottata è la più lunga di sempre.
MARCO SFERINI
19 ottobre 2023
foto: screenshot tv