Guerra congelata e fine della guerra: le tattiche variabili

Giorni fa l’esercito israeliano ha bombardato nuovamente Gaza. Ad essere colpito è stato l’ospedale di Kamal Adwan nella città di  Beit Lahiya, a nord di Jabalaya, presso il confine...

Giorni fa l’esercito israeliano ha bombardato nuovamente Gaza. Ad essere colpito è stato l’ospedale di Kamal Adwan nella città di  Beit Lahiya, a nord di Jabalaya, presso il confine con Israele. Immediatamente dopo la notizia di questo attacco, che ha provocato oltre cinquanta morti, è arrivata la notizia di quattro neonati uccisi dal gelo. Non avevano nemmeno sufficienti panni, coperte per potersi salvare dalla morsa del freddo invernale.

Di oggi è un altra notizia: un soldato nordcoreano parrebbe essere stato preso prigioniero dalle truppe di Kiev, probabilmente nella zona occupata del Kursk. E mentre questo avveniva, un aereo ipermoderno fornito dagli Stati Uniti d’America all’Ucraina veniva abbattuto dalla contraerea russa nei pressi della città di Zaporižžja. Con tutti gli orrori che la guerra si trascina appresso, sul fronte di Gaza e del Libano non c’è il minimo cenno di diplomazia al lavoro.

Sul fronte russo-ucraino qualcosa pare muoversi: anche perché la guerra si protrae ormai da quasi tre anni e i segni della stanchezza politica, militare, economica, ed ovviamente civile, si fanno sentire tutti quanti. La povertà di informazioni non rende facile l’avere un quadro complessivo degli umori delle rispettive popolazioni. Ma, da un lato, decine di migliaia di diserzioni paiono spingere Volodymyr Zelens’kyj a più miti consigli sulle future trattative con Mosca.

Dall’altro lato Putin, invece, ribadisce la risolutezza bellica nel 2025 ma, al contempo, non esclude un tavolo di trattative in Slovacchia. Invece, a Gaza il conflitto non sembra avere queste pur timidissime speranze di uscire dall’impasse di un regolamento totale di conti con le fazioni palestinesi, con quelle organizzazioni estere che le supportano e, più in generale, con una parte del mondo arabo che non intende scendere a compromessi con lo Stato ebraico.

La presunta fine della Guerra civile siriana ci restituisce forse una immagina un po’ troppo edulcorata della situazione che si sta ridisegnando nel Medio Oriente: con troppa facilità si è pensato che la presa del potere da parte degli jihadisti di Al Julani stesse determinando almeno le premesse ottimali per una stabilizzazione del mosaico impazzito di colori, interessi, contatti esteri e scambi commerciali tra i nuclei di potere attivi in Siria e i paesi confinanti.

La contestualizzazione è necessaria per avere un quadro chiaro, e tuttavia sempre molto dinamico nel suo evolversi, nella compenetrazione dei conflitti tra Israele, Palestina, Hezbollah nel sud del Libano e alture del Golan. Se si prova a fare un paragone con la situazione russo-ucraina, ci si accorgerà abbastanza facilmente che le difformità riguardano le premesse dei conflitti e il loro evolversi; ma c’è un elemento quasi strutturale che è comune a queste due regioni in guerra: ogni paese coinvolto non è per questo isolato dal resto del mondo.

Ognuno degli attori politico-militari sulla scena ha da tempo solide relazioni internazionali con quelli che sono i protagonisti della nuova fase multipolare del capitalismo liberista, dell’evoluzione proprietaria di un neocolonialismo su vasta scala: piano inclinato su cui si confrontano concorrenzialmente grandi centri di sviluppo di una economia anche di guerra, oggi soprattutto tale, che non tralascia però di inserirsi nei contesti nuovi di una rimodulazione più generale e globale.

Quando Donald Trump parla di un “congelamento della guerra“, per quanto concerne il teatro tragico del fronte nel Donbass e negli oblast confinanti ad esso, mette sul tavolo della discussione internazionale un punto di non poco conto: non la fine del conflitto ma, se vogliamo interpretarlo così, una sorta di “stabilizzazione” dello stesso, al fine di poter oltrepassare la rigidità bellica e passare ad un livello tattico ulteriore, certamente molto differente da quello sino ad ora osservato.

Se si può parlare di “strategia imperiale” tanto da parte degli Stati Uniti e della NATO quanto da parte della Russia, così come si può invocare lo stesso parallelismo se si legge in chiave difensiva l’espansionismo dell’Alleanza atlantica verso est o quello della Russia verso Ovest, ebbene lo si può fare non scomponendo il quadro complessivo dei conflitti, ma anzi avvicinandoli ed osservandoli compiutamente nelle loro dinamiche profondamente attuali rispetto al contesto di contesa mondiale.

Putin corregge Trump: la Russia non vuole congelare la guerra ma farla finire. Il sottile gioco propagandistico è evidentissimo; tuttavia, tra le righe, vi si può leggere l’importanza di una fase espansiva tanto del potere dello zar, pur nelle difficoltà interne che, oggettivamente, sono state affrontate senza un ricorso massiccio ad una repressione del dissenso che esiste ma che risulta limitato, anche e soprattutto dall’estero verso Mosca, quanto del fronte che avanza quotidianamente.

La capacità di implementare i rifornimenti, di sostituire truppe stanche con altre fresche, di fare fronte allo sforzo bellico senza far precipitare – nonostante i tanto declamati pacchetti di sanzioni dell’Europa e del governo Biden – così come le minacce di utilizzare sempre maggiori armamenti di ultimo modello (come i missili ipersonici Oreshnik) aumentano qualcosa di più di una semplice percezione della guerra di lunghissimo termine. Non fosse altro perché, numeri alla mano, le risorse occidentali si stanno esaurendo, quelle di Mosca no.

L’ostinazione, quasi tutta europea, ad andare fino in fondo al conflitto, preconizzando la vittoria totale nordatlantica come l’unica possibilità per il ribaltamento della fase multipolare ed un ritorno ad un bipolarismo ovest-est, non tiene per niente conto del coinvolgimento degli attori principali dell’attuale competizione politico-economico-militare in essere: indirettamente la Cina (almeno per quanto è dato sapere dalle fonti ufficiali) e più direttamente invece la Corea del Nord, sono implicate nel sostegno alla Russia.

Non di meno, naturalmente, la guerra per procura è sostenutissima dall’asse euro-statunitense a tutto tondo, seppure, anche qui, certe differenziazioni non manchino. Poi esistono i paesi pseudo-neutrali: come la Turchia, crocevia di interessi molteplici e multilaterali. Dalle basi NATO sul suo territorio al problema curdo; dal sostegno alla causa palestinese alle simpatie pro-Putin. L’Europa di von der Leyen si sopravvaluta e si getta in un conflitto senza valutare le conseguenze. E dire che, oramai, dopo quasi tra anni, la lezione dovrebbe essere stata sufficientemente chiara.

Volodymyr Zelens’kyj, forse perché direttamente presente sul campo, inizia a persuadersi che un compromesso con Mosca bisognerà trovarlo perché, come già sostenuto in una intervista recente, per l’Ucraina, anche con l’aiuto occidentale e con le promesse di una futura adesione alla NATO (ma del territorio rimasto sotto il controllo di Kiev, così da permettere sempre una guerra ipocritamente per procura), è letteralmente impossibile il recupero dei territori perduti: tanto meno della Crimea già annessa alla Federazione russa.

L’irreprensibile risolutezza del capo di Stato che è determinato a risolvere la guerra riprendendosi fino all’ultimo centimetro di terra occupata si è frantumata impietosamente innanzi all’oggettiva sproporzione di forze: il “congelamento della guerra” diviene così una alternativa tattica alla indefessa esponenzializzazione del conflitto caldeggiata dalla NATO, bene espressa dalle parole del suo nuovo segretario generale, Mark Rutte. Secondo l’Alleanza non si deve parlare di pace, di trattative, ma solamente analizzare e mettere in pratica una tattica che faccia parte di una strategia più generale di liberazione totale dell’Ucraina.

Ricacciare la Russia entro i suoi confini antecedenti addirittura il 2014, prima dello scoppio dei conflitti autonomisti e indipendentisti del Donbass, quando la Crimea veniva riportata in seno alla madre patria. Rutte e Trump, Putin e Xi Jinping. Sul palcoscenico orrorifico della rappresentazione delle mosse nella scacchiera della guerra, questi sono i protagonisti del pericoloso gioco che si complica invece di semplificarsi.

Eppure Rutte sa che i russi «…se prima avanzavano dieci metri al giorno oggi ci sono giornate in cui guadagnano terreno al ritmo di dieci chilometri al giorno…». Nella regione del Kursk, un terzo del territorio occupato è tornato in mano a Mosca, mentre nell’oblast di Kharkiv da nord e da est premono le truppe di Putin per sfondare anche in quel quadrante e ampliare la linea di un fronte tuttavia molto difficile da gestire. Ma, senza dubbio, questa difficoltà è maggiore per gli ucraini. E il Cremlino segue – come ha dichiarato Putin – “giorno e notte” l’evolversi dell’avanzata del fronte stesso.

Non tutto dipenderà dalle decisioni del quasi neo-presidente rieletto Donald J. Trump. Ma molto, senz’altro sì. La linea nuova che Washington deciderà di adottare pare inevitabilmente destinata a scontrarsi con quella della risolutezza indefessa della NATO e di Mark Rutte. L’Europa fa da servente damigella del disonore. Ma non si può pretendere di più da un aggregato politico-economico che non possiede una unica politica estera. Non da oggi. Un po’ da sempre per la conglobazione nell’Unione di storie così diverse di Stati altrettanto tali da riuscire difficile una sintesi.

La crisi politica e parlamentare tedesca potrebbe, seppure nel breve termine dello svolgimento delle nuove elezioni a fine febbraio prossimo, aprire un nuovo capitolo, ma questa volta tutto interno all’Europa istituzionale, monetaria e parabellica: da un lato lo scricchiolare dell’asse franco-tedesco (il nascente governo Bayrou non sembra al momento dare garanzia di stabilità in questo senso…) e dall’altro un più marcato consolidamento delle incertezze sul lato est dell’Unione, quello quindi più prossimo ad una frontiera russo-ucraina che sarà certamente modificata rispetto al passato.

La guerra delle tattiche, dunque, si potrebbe fare su più sponde: atlantica, squisitamente europea ed euro-mediorientale-asiatica. Non farebbe che riprendere la multilateralità di una dinamica globale che si sviluppa su una polarizzazione così plurale, eppure così reciprocamente compenetrante, da non permettere di prevedere le conseguenze nel lungo termine ma di osservarne compiutamente quelle sul breve-medio periodo.

Ed è proprio la debolezza europea, a metà tra disperazione e ostinazione cieca, a complicare la risoluzione del conflitto. Il ruolo della Germania rischia di essere nuovamente quello di un tempo: dalla Grande guerra alla Seconda guerra mondiale, fino ad oggi, la compressione tra due potenze ha scatenato gli istinti peggiori del mondo tedesco e della Mitteleuropa. Dall’epoca napoleonica ad oggi, cento anni prima dei conflitti di trincea, la ricerca dello “spazio vitale“, di una espansione quindi imperialista in mezzo alle potenze che si andavano affermando, ha innescato le micce di nuove guerre.

Non andò meglio nella Guerra fredda, con le due Germanie. E non va meglio oggi: la spinta neonazi-onalista soffia sul fuoco delle crisi economiche, del disagio diffuso, nonostante la tenuta di livelli di stato-sociale migliori, tanto per fare un esempio, di quello italiano. Di questo, forse, la tattica imperialista d’oltreoceano si occupa poco, tesa com’è a cercare una stabilizzazione globale che permetta ago Stati Uniti di distogliere risorse, truppe e sforzi da contesti di guerra vissuti come lontani geograficamente ma di cui il conservatorismo a stelle e strisce sente tutta la portata dell’occasione.

L’occasione di sfruttare le debolezze altrui per affermare le proprie. Seppure di non molto, ma quel tanto che basti a rimettere Washington sulla prima fila della scena. A costo di altre decine, centinaia di migliaia di morti. Qualcuno dovrà pure sacrificarsi per i privilegi dei pochi che pretendono di vivere alle spalle di tutto e di tutti… La partita è aperta. Si aspetta di capire chi farà, tra USA, Russia e Cina la prima mossa: dall’Europa al Medio Oriente fino ai conflitti dormienti (ma mica poi tanto…) del centro-sud del Pacifico.

Per quanto possa essere cinicamente baro, la mossa del “congelamento della guerra” non sembra essere la peggiore. Siamo messi male. E la dimostrazione non abbisogna di ulteriori spiegazioni…

MARCO SFERINI

27 dicembre 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

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