L’eversione nascosta (?) di Matteo Renzi

Non ho mai avuto pregiudiziali sul monocameralismo, così come non ho mai avuto ostilità per il bicameralismo perfetto. L’atto di compensazione delle responsabilità e dei poteri dei due rami...

Non ho mai avuto pregiudiziali sul monocameralismo, così come non ho mai avuto ostilità per il bicameralismo perfetto. L’atto di compensazione delle responsabilità e dei poteri dei due rami del nostro Parlamento è stato ampiamente discusso dagli storici e dai politici sin dalla sua introduzione con la Costituzione del 1948: i fondatori della Repubblica Italiana volevano che non si ripetessero gli errori e gli orrori del ventennio fascista e, per questo, hanno introdotto nella nostra massima e fondamentale espressione del diritto e dell’organizzazione delle istituzioni una serie di precauzioni incontrovertibili se non tramite i meccanismi previsti dalla Costituzione stessa, dal famoso articolo 138.
La storia ci dice che un “Senato” c’è sempre stato: sin dalla nascita della Repubblica romana dopo la cacciata di Tarquinio il Superbo dall’Urbe. Quando a Roma non ci furono più re, allora fu il senato a dividere la responsabilità della res publica con il popolo. E comparvero le insegne che avete visto sui libri e al cinema con l’acronimo “SPQR”: Senatus PopulusQue Romanus”. Il Senato e il Popolo Romano.
Oggi si potrebbe tradurlo in: “Il Parlamento e il Popolo italiano”. E questa traduzione sarebbe così diversa da quella dell’antichità: la vicinanza tra il senato romano e il suo popolo e quella tra le Camere italiane e il loro popolo è così diversa da essere un paragone almeno improprio, quantomeno tale.
E non tanto per una ragione di collocazione temporale che tutto ha modificato col passare dei millenni, quanto per una dimensione assolutamente inconcepibile dei rapporti che la politica, la gestione sempre antica ma che non dovrebbe mai essere archiviata della “res publica“, dovrebbe conservare nell’essere l’arte nobile del comando sulla base di una delega onesta, non truccata con sbarramenti, premi di maggioranza o altre corse ad ostacoli messe qua e là per consentire a chi è grande di essere ancora più grande e a chi è minoranza di piombare ancora di più nel minimalismo.
In questo senso, c’era molta più democrazia ai tempi di Giulio Cesare e anche nel passaggio al Principato augusteo che non in una Repubblica Italiana del 2014, dopo vent’anni e più di berlusconismo, dopo il trionfalismo tronfio di un bonapartismo cesaristico che ha fatto del leader il nuovo condottiero di una popolazione spaventata dalla crisi economica, dal disagio sociale crescente, dalle migrazioni di popoli dove portiamo la guerra con la parola pace, dove spacciamo per solidarietà l’appoggio agli interventi armati per consentire agli Stati Uniti e ai loro maggiori alleati di mettere le mani sulle risorse preziose che si spargono per il pianeta e che rischiano di sfuggirgli di mano.
Matteo Renzi non sta facendo altro che impiegare le sue doti di abile comunicatore, di semplice ragazzotto fiorentino dalla battuta sempre pronta, per completare un disegno che già Silvio Berlusconi aveva intrapreso più volte senza mai venirne a capo: rompere lo schema del bicameralismo perfetto, mostrando l’apparenza della semplificazione degli iter legislativi e scambiando questo con il rafforzamento dei poteri dell’esecutivo. Un governo più forte e un parlamento più debole. Il contrario dei valori costituzionali, quasi un disegno eversivo.
E quale migliore eversione può passare quasi inosservata se a farla è un governo invece di un gruppo di rivoluzionari, di sovversivi, insomma fuori dal classico cliché dell’opposizione al potere. Qui è il potere che si rinnova non riformandosi, ma restaurandosi, riprendendosi degli spazi che erano invece stati delegati ad un consenso popolare a suffragio universale dopo una dittatura e una guerra che avevano distrutto l’intero Paese.
Le riforme che Renzi propone sono la sua linea rossa di guerra: o sei con lui o sei contro di lui. L’ha chiaramente detto prendendo anche in giro chi, tra costituzionalisti e intellettuali, cercava di aprire un dialogo, una polemica senza infingimenti, provando – sulla scia dei valori di reciprocità e di interazione e scambio delle idee promosse proprio dalla Costituzione – a dare un contributo al dibattito sulle “riforme”.
Il giovane presidente del Consiglio invece archivia con qualche battuta queste obiezioni e persino le fronde interne ad un PD che è diviso sull’abolizione del Senato della Repubblica e sulla riforma della legge elettorale in senso così maggioritario e bipartitista da far impallidire persino l’incostituzionalità del Porcellum.
A scrivere certe righe si passa per profeti di sventura e, dice il sacro vecchio detto, “Nessuno è profeta in patria”. Sarebbe, infatti, troppo facile prevedere quello che potrebbe accadere laddove si vive e si conoscono bene gli eventi quotidiani.
Ma ecco, la verità è proprio questa: siamo in pochi ad accorgerci dei tentativi eversivi portati avanti sotto il velo della legalità e della tutela governativa? Probabilmente siamo una minoranza. A volte anche troppo silenziosa.
Ma una coscienza critica esiste e può unirsi ad altri malesseri che ancora non danno vita ad altre coscienziosità, altre prese di consapevolezza di ciò che veramente accade e che le risate e le battutine di un arrampicatore politico e sociale, nato in mezzo al vuoto lasciato dal PD in seno al progressismo italiano, non potranno del tutto mai nascondere.

MARCO SFERINI

1° aprile 2014

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