Si pregano eventuali gentili lettrici ed eventuali gentili lettori di prendere nota di questo antefatto:
Intervista a Di Maio sul “Corriere della Sera” del 3 novembre 2018. L’ultima domanda riguarda la questione dello stipendio dei parlamentari.
Domanda: Tagliate gli stipendi però le vostre rendicontazioni sono ferme.
Risposta di Di Maio: Non è vero. Anzi proprio questo mese organizzeremo un Restitution Day. Rispetto al passato i soldi non vanno più al fondo per il microcredito, che ormai finanziamo come governo, ma sono destinati a finanziare progetti scelti dagli iscritti per fare interventi più diretti per le persone in difficoltà.
Una concezione privatistico – proprietaria del ruolo di governo. Quello che prima finanziava il partito adesso lo finanzia il governo che evidentemente si sovrappone direttamente al partito. Oppure governo e partito sono considerati ormai la stessa cosa. Com’è accaduto per tutti i ruoli di sottogoverno e di staff (in questo caso con notevoli incrementi di stipendio nella sovrapposizione tra partito e governo).
Il tema saliente però è quello della concezione privatistico – proprietaria del governo nel quale il M5S si identifica totalmente al punto da usare il “noi” (prima persona plurale) nell’identificare la fonte di finanziamento per il microcredito (ormai “noi” finanziamo attraverso il governo).
Non è la prima volta che questo fatto accade nella storia d’Italia.
Non successe, come molti tenderebbero a pensare, con la DC: la DC formò governi di coalizione anche quanto disponeva della maggioranza assoluta e non ci fu un’identificazione “tout court” del partito con il governo. Anzi, la fase centrale (53-63) nella quale la DC svolse una funzione “pivotale” all’interno del sistema fu dedicata interamente, e con grandi convulsioni, proprio all’allargamento del quadro di governo verso sinistra.
I “monocolori” si formarono o in situazione di “traghettamento” (Leone e i governi balneari) oppure in condizioni assolutamente eccezionali: le “convergenze parallele” (copyright Moro e Governo Fanfani) all’indomani del luglio ’60 e Andreotti all’epoca della solidarietà nazionale (1976 – 1978).
L’identificazione del partito con il governo si verificò invece con il “ventennio”. Il fascismo, infatti, non riformò lo Stato: rimase in vigore lo Statuto Albertino. Tanto è vero che l’esercito restò un corpo a sé rispetto alla struttura fascista, avendo gli ufficiali giurato fedeltà al Re. Gli effetti di questa situazione si videro all’8 settembre, sia negli episodi tragici di Cefalonia, sia nella deportazione degli IMI, sia nella possibilità di formare l’esercito del Sud. Il fascismo creò” strutture parallele” (Gran Consiglio, Milizia, Tribunale Speciale).
L’unico atto di aperta rottura con lo Statuto avvenne con l’istituzione della camera dei fasci e delle corporazioni in luogo della Camera dei Deputati (si era già nel 1939). Fu attraverso il partito unico e i plebisciti che il fascismo esercitò il suo potere totalitario. Tanto è vero che, al 25 luglio, furono sufficienti atti di legislazione ordinaria a riportare la struttura istituzionale al punto di partenza.
Tornando all’attualità non si può che notare come affermazioni del tipo di quelle pronunciate da Di Maio possono avere spazio senza timore di suscitare giuste reazioni, perché quella italiana è da tempo una società sfibrata, sfrangiata, priva di riferimenti culturali unificanti, divisa nelle sue esigenze fondamentali e nei suoi obiettivi.
Una società che non riesce a esprimere un’azione politica coerente, capace di elaborare una sintesi che guardi all’interesse generale.
E’ fallita la ricerca di un “Lord protettore” che era iniziata con il voto del 2008, così come in precedenza lo schema del “bipolarismo temperato”aveva mancato l’obiettivo di ricostruire un’identità collettiva con proiezione europea.
Anzi quello europeo è stato lo sviamento più grande, quello che ha scompaginato nella fase di caduta dei grandi partiti di massa.
Pare proprio che ci sia stia rifugiando nel corporativismo interpretato da soggetti che esprimono una concezione “proprietaria” di una sorta di “qualunquismo di governo” che finisce con l’esaltare le più retrive pulsioni individualistiche (condono fiscale, reddito di cittadinanza).
Società sfrangiata, debolezza del sistema politico, disintermediazione progressiva, crescita di egoismi competitivi: in questo quadro cresce il consenso per le attuali forze di governo nella presunta esistenza di un’azione politica che non è altro che finzione.
Sarà difficile, al momento proprio del disvelamento della finzione, evitare un rinnovamento del nichilismo, come forma estrema della propria affermazione soggettiva di fronte alla “collettività del dramma sociale”: un quadro complessivo che pare presupporre all’affermazione di una prospettiva di vera e propria “dissoluzione civile”.
La politica, almeno in Italia e in buona parte di Europa, ha perduto di senso e di ragione, ed è questo il tema sul quale cercare di ricostruire partendo dall’analisi dagli effetti sociali che impone l’inedita complessità delle “fratture” presenti nella modernità.
Una complessità di “fratture” dalle quali sortisce la necessità di rifondazione nella lettura degli interessi contrapposti alla quale deve corrispondere una concreta rappresentanza politica.
Fallita la previsione sull’idea del regno del Bengodi e della “fine della storia” nel post caduta del muro e ben presenti i rischi di guerra su scala mondiale, c’è molto di più da rifondare di una sola parte politica.
FRANCO ASTENGO
6 novembre 2018
foto tratta da Pixabay