Gorbaciov e il socialismo che si era tradito da sé

Michail Gorbačëv è morto due giorni fa alla veneranda età di 91 anni. Per tutte e tutti noi il suo cognome era italianamente traslitterato in “Gorbaciov“. Un cognome che...

Michail Gorbačëv è morto due giorni fa alla veneranda età di 91 anni. Per tutte e tutti noi il suo cognome era italianamente traslitterato in “Gorbaciov“. Un cognome che ha segnato un’epoca, come fosse l’appellativo dato ad un’era geologica, ad un passaggio davvero storico per il mondo intero.

Quell’Unione Sovietica che, da Stato dei lavoratori con i primi presupposti leninisti era divenuto una elefantiaca macchina burocratica, oppressiva e militarizzata, speculare in questo al suo competitor occidentale, gli Stati Uniti d’America, aveva perso ogni primordiale spinta propulsiva sia della Rivoluzione d’Ottobre (come sottolineò acutamente Enrico Berlinguer) sia il conseguente interesse a creare una società alternativa a quella capitalistica.

Essa stessa si era trasformata in un capitalismo di Stato, in un grande padrone delle esistenze di decine di milioni di uomini e donne che vivevano sotto un potere e non ne partecipavano se non grazie ad una buona dose di ruffianeria e di consorteria con le maggiori cariche del Presidium del Soviet Supremo e del Partito che fu di Lenin e Trotzkij.

Gorbaciov arrivò, nella storia dell’URSS, alla fine di un settantennio in cui le guerre avevano creato solchi invalicabili, dopo mezzo secolo di Guerra fredda, di divisioni in blocchi che avevano tenuto il mondo col fiato sospeso più e più volte. Ed anche con leader come Nikita Sergeevič Chruščëv che, messa in archivio la stagione criminale dello stalinismo, avevano provato a inaugurare un periodo di “distensione” dei rapporti tra Est e Ovest, tra Russia e USA.

Gorbaciov aveva, dunque, alle sue spalle la somma che fa il totale, tutta una serie di stratificazioni di un potere che si era andato imbolsendo su sé stesso, comparendo alle parate sulla terrazza del Mausoleo di Lenin e dando mostra al mondo della sua ancora enorme potenzialità militare e nucleare.

L’eredità migliore di quell’esperienza, di quel tentativo di “assalto al cielo” poteva ancora trovarsi nella gratuità di tutta una serie di servizi che erano tipici del socialismo reale: il prodotto felice di una intuizione primordiale del marxismo che, col passare del tempo, si è rivelata di più un alibi dietro cui nascondere potenti oligarchie in declino, decrepitamente crepuscolari e affidate alla languida inesorabile meccanica macchina statale che ogni giorno faceva compiere ai propri funzionari il dovere verso il Partito e la nazione.

Quello stato-sociale (ma non socialista) che ancora resisteva tanto in URSS quanto nei suoi satelliti del Patto di Varsavia era, forse similmente agli esperimenti socialdemocratici scandinavi, la vera differenza tra la voracità liberale del capitalismo (che di lì a poco si sarebbe evoluta nel liberismo che conosciamo) e il tentativo di instaurazione di una democrazia del lavoro.

Il tentativo di Gorbaciov, di aggiornare l’apparato statale e quello anche ideologico del Partito, attualizzandolo e rendendolo modernamente compreso in un mondo che subiva trasformazioni indipendenti dal potere stesso, affidate al protagonismo di masse tenute nei recinti dei paesi dell’Est per troppo tempo, fu una resipiscenza più che onorevole.

La Glasnost’ (“trasparenza“) e la Perestrojka (“ristrutturazione“) sono scrivibili con la maiuscola iniziale perché, proprio grazie a Gorbaciov, ebbero vita propria e divennero un programma politico, sociale, economico e culturale: un rinnovamento che si avvertiva necessario per traguardare l’URSS dalla fine degli anni ’80 al nuovo millennio.

Questa coraggiosa operazione di recupero di ciò che di buono si era realizzato nella grande unione di popoli così diversi tra loro – eredità dell’immenso impero zarista – divenne il principale nemico di due opposte fazioni.

La prima era, ovviamente, il capitalismo americano (ed europeo); la seconda erano gli oppositori interni di un PCUS che non voleva cambiare, e non tanto per mantenere intatta l’ideologia presuntamente “comunista” del proprio essere tale, quanto per la trasformazione rivoluzionaria che si sarebbe andata a verificare ai vertici dell’Unione con, a cascata, una sostituzione di apparati, funzionari e conventicole di potere che avrebbero dovuto lasciare il posto a donne e uomini del nuovo corso.

Si trattava di una lotta tutta di potere e per il potere: ma non quello tanto sbandierato del proletariato, bensì quello di chi aveva cumulato cariche prestigiose e, a sua volta, si era disposto intorno una rete di protezione fatta di povera gente che aveva visto nell’accondiscenza e nella servitù obbligata, nella totale mancanza di iniziativa critica e decisione personale la sola via per la sopravvivenza in un sistema era tutt’altro che efficiente, democratico (nel senso più letterale del termine) e libertario.

Michail Gorbačëv fece quel tentativo: non smantellare l’URSS, ma riformarla. Farne un nuovo Stato dei lavoratori, con i lavoratori stessi. Non aprendo a riforme di mercato, ma aprendo l’Unione al mondo. I sommovimenti europei negli Stati satelliti accelerarono le distopiche prospettive di una libertà che provenisse dal mondo cosiddetto “libero“, da un Occidente visto come la manna dal cielo, la salvezza dall’oppressione dei Partiti-Stato e delle loro ginepraiche consorterie burocratiche.

Gorbaciov fu travolto non dal suo disegno innovatore, ma da una serie di eventi che equivocarono la Glasnost’ e la Perestrojka da un lato con una risposta conservatrice dell’apparato sovietico e di quello peggiore del Partito, dall’altro con una voglia di buttare a mare tutta la storia dell’URSS e la sua involuzione per passare armi e bagagli al liberalismo di mercato, al capitalismo tout court.

Per la virtuosa politica di mezzo della trasparenza e della ristrutturazione non c’era spazio e, infatti, del colpo di Stato interno dell’agosto 1991, che venne mosso contro lui e le sue riforme, approfittarono tanto quelli che sarebbero divenuti i futuri oligarchi (Borís Nikoláevič Él’cin e il suo delfino Vladimir Vladimirovič Putin, tra i primi e anche tra gli altri…) quanto il fronte occidentale pronto a penetrare nel grande spazio mondiale lasciato libero dalla superpotenza nucleare.

Gorbaciov non ammainò mai la bandiera rossa sul Cremlino. Furono altri a farlo. Furono proprio Boris Eltsin e i nuovi signori del potere che, in questo modo, complice certamente un KGB che tramava fin dal 1990 per organizzare la destituzione del propugnatore della Perestrojka (si può leggere al proposito: John B. Dunlop, The rise of Russia and the fall of the Soviet empire), misero la parola fine a qualunque possibilità di recupero di quello stato-sociale che, nonostante tutto, era la migliore eredità politica dell’URSS.

Per quanto riguarda l’eredità storica, nessuno potrà mai dimenticare, o fare finta di niente, sul contributo dato (nonostante Stalin) dalla Russia all’abbattimento del Terzo Reich.

Le problematiche di carattere storiografico sarebbero da trattare con una meticolosità tale da impedire di poterne scrivere in un breve editoriale, soprattutto quando si tratta di persone come Gorbaciov che, prescindendo dai giudizi prettamente politici (ed ideologici) che se ne possono dare, hanno oggettivamente segnato un’epoca e cambiato (forse anche un po’ involontariamente e indubbiamente non nel senso che avrebbero auspicato) il mondo.

Quella di Gorbaciov è stata una lunga vita, che ha attraversato quasi tutto il Novecento e ha potuto accorgersi, in questi ultimi vent’anni, della direzione presa da una umanità quasi completamente fagocitata dalla peggiore declinazione finanziaria del capitalismo.

A ben vedere, con tutti i difetti che poteva avere e le storture antidemocratiche, quell’Unione Sovietica tanto aborrita ed esecrata dai benpensanti che ossequiano il mercato e le sue spietate leggi, aveva messo una gran paura alla borghesia imprenditoriale, al mondo dei padroni, ad una stabilità economica che rifuggiva come la peste l’idea che fosse lo Stato a regolarla.

L’idea era buona, la sua messa in pratica è stata un fallimento. A Michail Gorbačëv dobbiamo questa riconoscenza: averci provato. Salvare il salvabile e farne una reale alternativa moderna a quel capitalismo che, invece, oggi ha campo libero ovunque. Anche in quella Cina allora agli albori della sua emersione mondiale e che oggi è, diversamente dall’URSS pre-gorbacioviana, una nuova chiara opportunità per i mercati e che, quindi, di comunista non ha niente altro se non il nome che mantiene il suo Partito.

MARCO SFERINI

1° settembre 2022

Foto di Azamat Hatypov

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