Rialzo dei tassi (e meno stimoli fiscali), inflazione e rischi di recessione: a livello globale si sta chiudendo il ciclo apertosi dopo il grande crack del 2007-2008. L’Europa non è l’America, tuttavia. E l’Italia, in questo quadro, appare come uno degli anelli più deboli del sistema.

Come sarà il 2022 della nostra economia? Secondo il Fondo Monetario Internazionale, dopo il rimbalzo del 2021 (+6,5%) potremmo godere ancora di una crescita al 3%. Oltre la media dell’eurozona (+2,6%), un po’ sopra le previsioni del nostro Def aggiornato (2,9%). Non è dello stesso avviso l’agenzia di rating Moody’s, che invece ha tagliato le previsioni dal 2,3% al 2,2%. Su un punto però l’organizzazione di Washington e la società di New York concordano: il 2023 sarà duro sia per l’Europa che per l’Italia. Crescita poco sopra lo zero per entrambi (nella migliore delle ipotesi).

Come leggere questi numeri? Per il 2022 si registrano ancora gli effetti del rimbalzo post-pandemico, ma non è detto che tutto fili liscio fino alla fine dell’anno. Infatti circolano anche scenari peggiori. Un blocco totale delle forniture di gas da parte di Mosca, ad esempio, ci costerebbe almeno due punti di pil (stima di Confindustria). Il che significherebbe anticipare a quest’anno ciò che tutti gli osservatori internazionali prevedono che accadrà l’anno prossimo (anche senza stop al gas).

Pesa anche il deterioramento del saldo della bilancia commerciale e la caduta della fiducia dei consumatori, come spiega l’Istat. Anche l’Italia ha spinto molto in questi anni sull’export. Meno domanda interna (svalutazione del lavoro, salari bassi) per essere competitivi sui mercati internazionali. Il saldo della nostra bilancia commerciale è stato sempre positivo negli ultimi dieci anni (una media di 43 miliardi annui). Nel 2021 l’import è stato pari a circa 466 miliardi, mentre l’export a circa 516 miliardi.

Ora però qualcosa si è inceppato. Nei primi cinque mesi del 2022 il saldo della bilancia è passato da un attivo di 20 miliardi ad un passivo di 12. Pesa soprattutto il costo delle importazioni dei beni energetici. Ma non solo. Ci sono anche settori economici importanti che hanno visto contrarsi il loro volume d’affari con l’estero nell’ultimo periodo. Prendiamo il caso dell’ortofrutta. Dopo il grande balzo in avanti del 2021, si è arrivati a registrare un calo di oltre il 4% (-8,1% in quantità esportate). E l’import è tornato a superare l’export.

La domanda estera è stata un importante traino per il pil italiano in questi anni. Per questo gli attuali saldi negativi, cumulati ad inflazione ed a bassa domanda interna, devono destare qualche preoccupazione. Tanto più che le scelte delle banche centrali, da Francoforte a Washington, stanno puntando sulla riduzione dell’inflazione anche al costo di una brusca frenata dell’economia (gli Stati Uniti sono il 3° mercato di destinazione del nostro export).

L’Europa però non è l’America, dicevamo più indietro. Per quanto il tasso di inflazione sia più o meno coincidente (tra l’8 e il 9%). Negli Usa, l’aumento dei prezzi è indotto prevalentemente dall’aumento dei consumi, a loro volta sostenuti dalla ripresa occupazionale. Effetto della politica fiscale espansiva del governo. Infatti, questa inflazione rimane alta anche se depurata dal prezzo dei beni energetici. Non è così in Europa, dove l’inflazione «di fondo» rimane bassa e risalta l’impennata della componente energia. Non è una distinzione irrilevante. Inflazione diversa, diversi impatti delle decisioni dei banchieri centrali. Per l’Italia, osservata speciale in Europa per i suoi conti pubblici, il rischio è che al rimbalzo segua una brutta caduta.

LUIGI PANDOLFI

da il manifesto.it

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