Gli immigrati danno allo Stato più di quanto ricevono

Grazie al decimo Rapporto annuale sull’economia dell’immigrazione ad opera della Fondazione Leone Moressa, piccola bibbia dell’universo migratorio in Italia, si scopre che i lavoratori stranieri versano tasse e contributi...

Grazie al decimo Rapporto annuale sull’economia dell’immigrazione ad opera della Fondazione Leone Moressa, piccola bibbia dell’universo migratorio in Italia, si scopre che i lavoratori stranieri versano tasse e contributi per un totale di 18 miliardi di euro, producendo una ricchezza che vale 147 miliardi, il 9,5% del Prodotto interno lordo italiano. E visto che il costo totale dei servizi erogati ai residenti con cittadinanza straniera è pari a 26,1 miliardi, circa il 3% della spesa pubblica, a fronte di un gettito fiscale più contributi e imposte di ogni tipo che ammontano a 26,6 miliardi, il saldo attivo tra quanto le casse pubbliche ricevono e ciò che erogano è pari a 500 milioni l’anno.

Nello studio, redatto con il contribuito della Cgia di Mestre e il patrocinio dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim), dei ministeri degli Esteri e dell’Economia, e dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, non sono conteggiati, né considerati nel loro impatto sulla spesa pubblica, i cosiddetti “irregolari”. E questo aspetto, va da sé, ha subito inflazionato i social media di prese di posizione “sovraniste”, molto critiche sul Rapporto. Che sembra rispondere in anticipo, rilevando che dal 2011, cioè da nove lunghi anni, l’Italia ha di fatto chiuso la porta agli immigrati extra-comunitari in cerca di lavoro, che per entrare nella penisola hanno potuto usare solo i ricongiungimenti familiari o le richieste di asilo.

Di qui l’osservazione che quel 9,5% del Pil italiano prodotto dai lavoratori stranieri potrebbe essere ancora più corposo. Ma il potenziale è frenato dalla presenza irregolare sul territorio, e dal lavoro nero che naturalmente ne consegue, oltre che dalla poca mobilità sociale.

Un po’ di numeri. Oggi gli occupati stranieri in Italia sono 2,5 milioni e dal 2010 sono aumentati di 600 mila unità (+31%). È un’occupazione concentrata prevalentemente nelle professioni meno qualificate. I lavoratori stranieri sono in maggioranza uomini (56,3%) e sette su dieci hanno tra i 35 e i 54 anni. Oltre la metà ha come titolo di studio la licenza media, mentre il 12% è laureato.

Altro aspetto sottolineato nel Rapporto è che gli stranieri sono in aumento, ma gli ingressi per lavoro sono in drastico calo. Dal 2010 ad oggi gli stranieri residenti in Italia sono passati da 3,65 a 5,26 milioni (+44%), arrivando a rappresentare l’8,7% della popolazione, e superando il 10% in molte Regioni. Tuttavia i nuovi permessi di soggiorno sono complessivamente diminuiti del 70%, a causa di una riduzione di quelli per lavoro addirittura del 97%.

In definitiva gli stranieri extra-comunitari oggi arrivano in genere per ricongiungimento familiare o motivi umanitari. Una situazione analoga a quella vissuta da molti migranti prima di loro, che poi nel tempo – grazie al loro lavoro – sono diventati donne e uomini che contribuiscono alla ricchezza nazionale. Ricevendo dallo Stato meno di quanto non diano.

Nel rapporto un capitolo è dedicato all’espansione delle imprese straniere. Nell’ultimo decennio l’imprenditoria straniera è stata infatti un fenomeno più che significativo: gli imprenditori nati in Italia sono diminuiti (-9,4%), mentre i nati all’estero sono aumentati (+32,7%). Le nazionalità più numerose sono Cina, Romania, Marocco e Albania, e la crescita più significativa si registra tra gli imprenditori del Bangladesh e del Pakistan. Il 95% delle imprese a conduzione straniera è di esclusiva proprietà, senza soci italiani. Le imprese straniere producono un valore aggiunto di 125,9 miliardi, pari all’8% del totale, e l’incidenza maggiore si registra nell’edilizia (18,4% del valore aggiunto del settore).
INFINE, per quanto riguarda l’impatto fiscale, per l’Italia ci sono appunto più benefici che costi per complessivi 500 milioni, visto che gli stranieri sono giovani e incidono poco su pensioni e sanità, principali voci della spesa pubblica.

RICCARDO CHIARI

da il manifesto.it

foto: screenshot

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