Li chiamano «ribelli» ma occupano la capitale Sanaa da quasi dieci anni, governano il 70% del Paese e controllano l’esercito yemenita: alleati dell’Iran – come Hezbollah, Hamas, il regime siriano di Assad e le milizie sciite irachene – minacciando la navigazione dallo stretto di Bab el Mandeb fino a Suez, sono il nuovo «nemico perfetto» degli Usa e dell’Occidente. Tutto questo senza averci mai parlato o negoziato e considerato le loro istanze. Non volevamo la guerra allargata in Medio Oriente ma stiamo contribuendo a un altro conflitto senza avere tentato di evitarlo.
Anche agli Houthi applichiamo una logica perdente, dal momento che dopo l’invasione russa dell’Ucraina l’Iran non solo non è più isolato ma conta sull’appoggio di Russia e Cina, membri del Consiglio di sicurezza e di quelle alleanze del Sud del mondo che stanno cambiando gli equilibri mondiali.
Gli Houthi stanno risucchiando gli Usa – e forse anche noi – in nuovo conflitto mediorientale che non riguarda solo il Mar Rosso ma anche la terraferma dove gli Stati uniti sono paladini di un’unica sovranità, quella israeliana, cosa chiarissima già con l’attacco all’Iraq del 2003, l’inizio del caos.
La deterrenza americana è un’illusione di stabilizzazione, anzi provoca esattamente il contrario. Perché gli Houthi sono intervenuti in Mar Rosso? I «ribelli» dicono che vogliono colpire le navi dirette in Israele e hanno anche lanciato attacchi contro il porto israeliano di Eilat, così come nel settembre 2019 avevano bersagliato gli impianti petroliferi sauditi.
La mancata reazione americana a protezione del regno wahabita allora fu uno dei grandi motivi di dissenso tra Washington e Riad che pure dalla guerra aperta agli Houthi, lanciata nel 2015, è uscita pesantemente sconfitta. Un fallimento visto che Riad aveva pesantemente bombardato e con gli Emirati aveva assoldato decine di migliaia di mercenari.
Se da una parte gli Houthi oggi intendono colpire le navi dirette nei porti israeliani, dall’altra forse il vero motivo è che intendono tenere in scacco l’Arabia saudita e la comunità internazionale per mostrare la loro influenza militare e ottenere in futuro un riconoscimento politico internazionale che finora non è mai arrivato.
Ma chi sono? Nel dicembre del 2009 credo di essere stato uno dei primi a conoscerli da vicino. La guerra contro il regime del presidente Saleh – poi ucciso dagli stessi Houthi nel 2017 in un tentativo di fuga – era già in corso e i sauditi pagavano i soldati yemeniti appoggiandoli anche con l’aviazione. Eccoli come mi apparvero allora. Erano una trentina, appostati sulla strada per Sada, la loro roccaforte storica.
Ad Harf Surfian, sullo sfondo di montagne con rocce nere e taglienti che preludono alla frontiera saudita, si mostrarono mentre ripiegavano nelle ultime sacche di resistenza, braccati dai soldati e dalle tribù fedeli al presidente. Un portavoce disse che avrebbero ripreso la città «molto presto» mentre «altri gruppi di guerriglieri – affermava – erano lanciati nel distretto di Jawf per attaccare i sauditi al confine».
Indeboliti e stanchi, gli Houthi di Harf Surfian non portavano però segni evidenti della battaglia, come se fossero usciti ancora indenni da questi santuari di roccia scura, crateri e fortificazioni millenarie e dove applicavano la tattica del “mordi e fuggi”. Armi ne avevano poche, a tracolla gli Ak 47 con bandoliere colorate e giberne militari. Ma niente ordigni pesanti, soltanto qualche lanciagranata Rpg appoggiata sul cassone dei pickup Toyota. Quasi tutti indossavano le kefiah a scacchi che incorniciavano volti duri, provati, tra loro combattenti esperti ma anche ragazzi di 14-15 anni o forse meno.
Gli Houthi già allora combattevano per Teheran anche una sorta di guerra per procura oltre che di liberazione. Eppure – fu quello che mi spinse ad attraversare lo Yemen – nessuno si interessava alla questione Houthi, un’altra delle grandi sottovalutazioni dei conflitti contemporanei. Gli Houthi appartengono alla minoranza zaydita e furono anche manovrati per contrastare l’ascesa dei predicatori wahabiti appoggiati dai sauditi.
Poi, quando ebbero acquisito un certo potere rivendicativo, si ribellarono facendo adepti nelle regioni del Nord più tradizionalista, dove ancora oggi non digeriscono la rivoluzione del ‘62 che abbatté l’imamato millenario. Il clan famigliare degli Houthi se ne sente in qualche modo l’erede rivendicando come Seyyed (i religiosi dal turbante nero) una discendenza diretta da Maometto.
Il conflitto locale degli Houthi ha dunque una dimensione religiosa, culturale, geopolitica e territoriale. Ma da isolato che era si è trasformato in una crisi internazionale collegata a problemi regionali. Nata all’inizio degli anni ’90, la ribellione rimane uno degli elementi chiave della situazione yemenita. Gli insorti hanno rappresentato il principale avversario delle forze governative sostenute da Arabia saudita ed Emirati.
Di natura tribale e regionale, il movimento Houthi ha a lungo giustificato la propria ribellione con il desiderio di porre fine alla marginalizzazione dello Yemen nord-occidentale. A questo si aggiunge la difesa della minoranza religiosa che rappresentano, lo zaydismo, una corrente inclusa, con più di qualche dubbio degli islamologi, nello sciismo.
La loro è stata un’avanzata anche violenta, spesso anche indiscriminata contro i civili, e alla devastante coalizione guidata da Riad, gli Houthi hanno opposto l’implacabile logica della ritorsione, non esitando a utilizzare bambini-soldato e a ricorrere al terrore contro ogni voce di dissenso.
Qual è la possibile evoluzione di questo conflitto? Gli Houthi puntano nel conflitto Israele-Hamas a ridurre la pressione militare israeliana su Gaza e intanto tengono sotto scacco soprattutto l’Arabia saudita, mettendo Riad in una posizione scomoda, proprio mentre negoziava per un cessate il fuoco.
Riavvicinandosi all’Iran con la mediazione cinese (i pasdaran armano e addestrano gli Houthi), i sauditi speravano di raggiungere un compromesso. Ma ora prevale la logica delle armi e i sauditi con l’attacco anglo-americano temono, come molti altri Stati della regione, una guerra maggiore e senza freni.
ALBERTO NEGRI
foto: screenshot tv