Il vero sta al dinamismo dialettico così come il falso sta alla staticità, ad un immobilismo che nega, sostanzialmente, qualunque processo di mutamento e, quindi, di sviluppo. Ereditando gli assunti engelsiani sull’antidogmatismo, Lenin, in una considerevole massa di appunti filosofici (che vanno dal 1895 fino agli anni della Rivoluzione d’Ottobre), si accinge a ridefinire i propri convincimenti tanto nei confronti dell’hegelismo (esattamente in rapporto alla dialettica) quanto in quelli del proprio approccio materialista e anti-individualista nei confronti della realtà.
Punto primo: la verità è in antitesi con la teorizzazione parmenidea dell’unicità dell’essere se intesa come univoca e non altrimenti declinabile in tutta una serie di particolari esperienze espresse, oggettivamente, in un complesso armonico e non completamente conoscibile da noi che, pure, ne siamo parte. La falsità, per quanto possa essere assimilata ad un immobilismo prima ancora ideologico rispetto a quello materialistico “rozzo“, risponde ad una estensione del concetto di inazione, di osservazione passiva degli eventi.
Il contrario, è evidente, di un moto rivoluzionario: sia nel significato astronomico, sia in quello prettamente storico di capovolgimento degli eventi e di trasformazione della realtà in altro da sé stessa. Se, per lo meno anticamente, ciò non significava espressamente un cambiamento radicale anche degli standard propri della Natura medesima, oggi l’associare progresso scientifico e verità significa collocare in un unico ordine sistemico dinamismo e verità, dialettica e conoscenza.
Proprio il tema ultramillenario dell’acquisizione della conoscenza è, nella gnoseologia leniniana, reso con maggiore particolarità nei “Quaderni filosofici” poco sopra citati. Qui, la nozione di “dialettica” viene ulteriormente approfondita, tanto che alcuni autori, riferendosi alla maturità degli scritti del rivoluzionario russo in materia di pensiero, comunque mai disgiunto dall’azione, fanno cenno, quando non parlano espressamente, di un primo e di un secondo periodo dello studio dei rapporti tra materialismo e idealità, tra percezione e pensiero.
Una distinzione non inopportuna, visto che è proprio Lenin a chiarire senza alcun dubbio interpretativo che la dialettica non si esprime esclusivamente nel passaggio dalla materia alla conoscenza, «ma anche dalla sensazione alla riflessione». Se volessimo giocare un po’ con le parole, la teoria del riflesso potrebbe essere avvicinata a questa frase per poter essere intesa come penetrazione della razionalità entro i confini della materia stabiliti dalla natura. Pensando ad un fiore, noi siamo in grado di osservarlo, di averne l’idea platonica, quasi innata in noi. Siamo in grado di riconoscerlo dopo averlo visto e, quindi, dall’esperienza acquisiamo delle nozioni.
Tuttavia, sia una conoscenza superficiale, affidata ai sensi (in questo caso a vista, olfatto e magari tatto), quanto una affidata all’indagine scientifica, ci porterebbero non alla consapevolezza delle leggi della Natura, ma a comprendere le origini biologiche del fiore stesso. Oltre, nell’essenza del meccanicismo che ci appare come un susseguirsi di fenomeni uguali a sé stessi per ogni elemento naturale, non è possibile arrivare. Ma Lenin non deduce da ciò che la scienza sia zoppicante, claudicante, incapace di esprimere tutto il suo potenziale.
Ogni scoperta è, proprio dinamicamente parlando, fonte di una verità. Non della verità assolutisticamente concepita e, per questo, staticamente affidata ad un presupposto para-dogmatico. Allontanandosi da una concezione esclusivamente sensoriale della conoscenza, la gnoseologia leniniana, proprio come l’indagine botanica, si esprime in nuove caratteristiche che, a seconda delle interpretazioni, possono essere lette in chiave evolutiva o, piuttosto, differente dal passato.
L’idea stereotipata che si ha dei materialisti è, generalmente, quella di studiosi, politici e uomini d’azione tutti dediti alla considerazione soltanto di ciò che è oggettivo nell’intrinseca struttura atomica delle cose. Invece, come dimostra la prosecuzione del pensiero leninista nello scorrere i frammenti dei quaderni, la considerazione della riflessione razionale non è separata dalla sensazione che, così, diviene il gradino più in alto rispetto alla mera percezione delle cose e degli stessi sentimenti.
La verità è nella dinamica, si è detto. Dunque, vero è tutto ciò che si muove entro un’esistenza ovviamente materiale ma il cui riferimento alla sola materialità non basta per spiegare fenomeni che, per quanto contenuto nei confini dell’essere (qui si concepibile in senso parmenideo), hanno caratteristiche profondamente differenti dalla sensibilità cui sono sottoponibili mediante l’acquisizione delle conoscenze umane. Vista, tatto, olfatto, gusto, udito non spiegano tutto, ma sono le porte verso una sempre più perfettibile acquisizione di informazioni per stimolare e farsi stimolare dal procedimento dialettico.
Se una critica severa non abbandona mai gli appunti vergati da Lenin, tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, è quella all’idealismo che, nonostante le distanze che vengono prese (così pure dal soggettivismo che si accompagna agli slanci romantici che rifuggono in larga parte la passione per il mutamento e la giustizia sociale), diventa più indulgente dopo il 1909. A quel materialismo rozzo citato poco sopra, il rivoluzionario russo rimprovera una mancanza di sostanza, attribuendogli delle sterili anetemizzazioni delle idee che non sono vere e proprie critiche.
L’altro materialismo, quello che lui definisce appunto “dialettico” (quindi lontano da tentazioni e tentativi di dogmatismo persino aprioristicamente incosciente e, pertanto, privo di qualunque caratterialità filosofica), concepisce l’idealismo come uno sviluppo degli aspetti della conoscenza in una indagine sempre più meticolosa della realtà, della materia, dell’essenza delle cose. Proprio nel microscopico, nell’invisibile agli occhi sta una dinamica dialettica che, contro ogni tentativo di negazione oggettiva, esiste: basta un microscopio per accorgersene.
Questo idealismo è per Lenin “intelligente“, perché si sgancia dal soggettivismo e si unisce al materialismo dialettico in una lotta comune per la liberazione umana dalle catene di un apriorismo che è complice di un’astrazione metafisica che scade nella superstizione, nella negazione dell’essenza delle cose e persino della genuinità naturalissima dei sentimenti, delle percezioni, di tutto ciò che la sensorialità ci può comunicare o, attraverso cui, noi stessi viviamo esperienze che consideriamo indescrivibili a parole.
Il concetto, il pensato, lo studiato diviene così afferente ad un oggettivismo che è parte di un procedimento scientifico che non nega ciò che non arriva a conoscere, ma che supera immediatamente sé stesso in ogni attimo, perché la conoscenza è sempre in movimento e il movimento è pietra angolare della dialettica stessa. Nel considerare oggettività e soggettività della percezione e della sensazione poi, quindi nell’avvicinare il pensiero all’oggetto e all’oggettività, Lenin pone le distanze tra sé e il criticismo kantiano, valutato troppo soggettivistico. Mentre riprende schemi dell’hegelismo: gli paiono più affini al suo intendimento del reale.
Se ne desume che l’unità o, se vogliamo, la consequenzialità tra teoria e prassi resta un dettame inscindibile nel pensiero anche gnoseologico leniniano, mettendo in risalto il pericolo che la teorizzazione possa influenzare esageratamente la prassi e quindi distorcerne il carattere dialettico, alterando i contorni di una verità dei fatti che non deve mai essere smarrita. Almeno per un rivoluzionario. D’altro la canto, non manca di sottolineare il pericolo inverso: anche la pràxis può essere di ostacolo alla teoria e depotenziarne la spinta iniziale, perché può indurre ad una separazione dalla conoscenza e dalla ricerca della stessa.
La tesi dell’unità tra teoria e prassi, dunque, deve legarsi all’interpretazione dei fenomeni naturali e rimanere simbioticamente pervasa dallo scientismo che è principio di espressione di questa sintesi: ipotesi, verifica, dimostrazione o fallimento della stessa. Ma il processo dialettico qui è proprio evincibile in tutta la sua essenza ideale e materiale. Di un idealismo intelligente e di un materialismo che vi si confà senza perdere i suoi connotati di aderenza all’oggettività di elementi e di strutture.
Qui Lenin si separa da Hegel, ritenendo la scienza e gli studi naturali ineludibili per il progresso umano: il susseguirsi delle teorie scientifiche non è una convenzione ma un sempre maggiore approfondimento della realtà e, quindi, se volessimo estendere i concetti e forzare la loro capacità descrittiva, potremmo affermare che la scienza è di per sé rivoluzionaria, visto che determina trasformazioni senza soluzione di continuità e si avvicina a tante verità, pur non risolvendo il mistero esistenziale.
La rappresentazione che noi abbiamo dell’esistente, tuttavia, è sfuggevole alla pratica: quante sono le cose che non sappiamo spiegare e che la scienza stessa non può disarticolare fin dentro la loro essenza, nell’imperscrutabilità di quelle che chiamiamo “leggi naturali” o che regolano l’universo. L’indeterminazione è, quindi, una caratteristica tanto del pensiero (quindi dell’astrazione e della metafisica) quanto della materialità dell’essere, dell’esistente. Nonché dell’esistenza nostra.
Questa indeterminazione è, proprio riferita al processo dialettico, uno stimolo alla continua ricerca, alla propensione verso la verità, alla conoscenza in quanto intrinseca natura di una animalità umana inconoscibile per larga parte a sé medesima (basti ricordarci delle potenzialità del nostro cervello e di quanto ancora poco ne sappiamo…). Impedisce, nel sembrare incompletezza, che ci si fermi su fissità assolutistiche e che si arrivi a ritenere ciò che sappiamo il tutto che possiamo sapere. Significherebbe la fine di ogni stimolo per vivere, per sopravvivere, per continuare a farsi domande e cercare risposte.
Non c’è, quindi, coincidenza tra la teorizzazione della realtà da parte di Hegel e di Lenin. Quella di cui parla il rivoluzionario russo è molto differente dalla concezione del filosofo tedesco. C’è la radice dell’oggettività in entrambe le analisi, ma quella leniniana è essenzialmente materiale e viene, a poco a poco, ma incessantemente, rivelandosi mediante lo studio delle scienze naturali. Quindi, non è dal pensiero (teoria) che soltanto deriva la verità (dialettica), ma da come si comporta la materia che, in quanto tale, è produttrice anche dei nostri cervelli.
L’autocomprensione che noi abbiamo, di noi stessi, dell’esistente, è quindi la migliore prova dell’unità tra teoria e prassi, tra pensiero e materia: lì dove ogni cosa, anche quelle apparentemente più statiche ed inamovibili, prive di vita ma ontologicamente presenti (pure non a sé stesse), sono parte di un mutamento non frenabile, soggetto alla temporalità, alla spazialità, alla trasformazione, verrebbe da dire “eterna“, del tutto.
MARCO SFERINI
6 ottobre 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria