La ragione delle norme, la “ratio“. Ispira ogni legge, ogni decreto, ogni ordinanza. Non può esistere una disposizione impositiva senza una motivazione e, pertanto, non può esistere senza una spiegazione che la giustifichi e la renda, per questo, necessaria. Tempi e modi di applicazione sono successivi alla norma stessa: fondamentale è invece l’origine della medesima. Il perché, insomma.
Tenuto conto che in tempi di pandemia ad avere la meglio sulla “ratio” è una sorta di improvvisazione normativa, giustificata dal carattere di emergenza del momento, non si spiegano certe acrobazie che vengono fatte compiere alle disposizioni che determinano le ormai tanto famose restrizioni su larga parte, se non su tutto, il territorio nazionale. La sequela di Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri più che configurare un paventato abuso dello strumento normativo eccezionale, segnala una inefficienza programmatica da parte del governo su un periodo più lungo di quello rappresentanto dai mesi dell’esplosione dell’epidemia in Italia.
Marzo e aprile, parzialmente maggio, sono stati lo scossone tellurico bello forte: poi avremmo dovuto essere pronti, in qualche modo, alle scosse di assestamento, dopo che la curva dei contagi e tutti gli altri indicatori relativi al rapporto tra tamponi e infezioni, ricoveri in terapia intensiva e decessi sembravano se non scendere repentinamente almeno stabilizzarsi e – come abbiamo imparato a sentire dai virologi – “piegavano la curva esponenziale“, quella che cresce raddoppiando senza sosta i dati del giorni precedente.
Quindi dall’improvvisazione normativa saremmo dovuti tornare ad una riconsiderazione della ragione delle norme, non tanto singolarmente intese, ma semmai inserite in un oculato piano di riorganizzazione di tutti i settori amministrativo-politici, medico-sanitari, sociali e di sicurezza generale del Paese. Invece, alle porte dell’inverno, siamo costretti a parlare nuovamente dei ritardi nella gestione della cosiddetta “seconda ondata” del Covid-19, in cui siamo assolutamente immersi.
L’effetto “a fisarmonica” rappresentanto dal ciclo “chiusura totale – apertura – chiusura parziale – apertura parziale” è già di per sé illuminante nella disomogeneità persistente tra le varie istituzioni nella catena di coordinamento e di comando che invece dovrebbe aver stabilito uno schema preciso e inderogabile al momento della recrudescenza del virus. Non si è mai trattato di considerare la probabilità del ritorno in forze del patogeno vagante in ogni dove del pianeta: si è semmai tracheggiato sulle tempistiche, lasciando ad una interpretazione tanto molteplice quanto sempre meno scientifica, priva di una voce sola che spiegasse e chiarisse i motivi di nuovi provvedimenti, la decisione ultima sul “che fare“.
Troppe ragioni, nessuna ragione. Troppe norme che si sovrappongono producono esattamente questa conseguenza: si seguono, alla fine, i comportamenti base che si sono imparati da inizio pandemia, sfuggendo alla insopportabile tempesta di informazioni che si parlano l’una con l’altra tentando di implementarsi e finendo per creare un caos mediatico e politico ingestibile, che sfugge di mano prima ancora del tracciamento dei contatti da Covid-19.
Così la “ratio” delle norme diventa un accidente, qualcosa cui si deve ottemperare per mero formalismo, ma non ispira veramente più la disposizione che si intende dare come regola generale da seguire scrupolosamente. Tocca assistere allo spettacolo di giornalisti che la cercano questa razionalità delle leggi, dei decreti, perché l’interpretazione è necessaria, ma quando diviene esclusiva e non lascia spazio a nessuna certezza, anche minima, in merito ai fondamentali su cui si è lavorato per scrivere un dispositivo normativo, allora si è innanzi alla genericità, ad un vuoto legislativo pur in presenza di una legge o di più leggi.
I continui ricorsi ai Tribunali amministrativi regionali sono l’evidenza vera di queste problematiche: il governo, le Regioni, i singoli comuni si appellano alla magistratura per avere ragione della fondatezza della particolare interpretazione della gestione pandemica su vari livelli che riguardano comunità che stanno dentro ad altre comunità. E’ la matrioska istituzionale che si scompone in tutta la sua essenza perché non riesce a convivere unitariamente, non riesce a condividere una visione di insieme del problema sanitario, sociale, economico e civile in cui ci troviamo.
Ci siamo illusi di poterci riferire al 2020 come all'”anno del coronavirus“. Visti invece i colpi di coda del virus, aiutato dalla disorganizzazione istituzionale, determinata pittosto direttamente dai tanti interessi economici, commerciali – comunque strutturali – che hanno destabilizzato una continuità nella buona, sarebbe più opportuno rifersi a questo periodo pandemico come agli “anni del coronavirus“. Un plurale che diventerà tale appena entreremo nel 2021, con l’annuncio di tanti vaccini, troppe incertezze, pochi dati e molte date che vengono chieste dai giornalisti ai virologi per trovaare un po’ di psicologica rassicurazione come notizia sensazionale da dare in pasto ad una opinione pubblica esausta di appelli, raccomandazioni, restrizioni, aperture, chiusure e cannibalismo massmediatico.
Anche per tutto questo, riprendendo lo schema di un ormai celebre pubblicità-progresso tedesca su come comportarsi al meglio per ridimensionare la virulenza della seconda ondata del Covid, chi farà un giorno la storia sarà costretto ad analizzare l’epoca del coronavirus studiando le mutazioni che hanno investito il campo della legislazione in tutte le sue declinazioni partcolari, facendo riferimento alla formazione delle legislazioni di urgenza nei singoli Stati europei, delle normative comunitarie varate per affrontare economicamente gli effetti devastanti sui settori industriali e sul commercio, così come sulla più micro-economica struttura casalinga.
Si potrebbe in fondo affermare che la pandemia è una specie di globalizzazione nella globalizzazione liberista: non ha nessun obiettivo classista, ma ha messo e mette a nudo le contraddizioni di un mercato che dovrà inevitabilmente cambiare le sue relazioni internazionali e persino i suoi obiettivi strategici in materia di investimenti. Non saranno scelte spontanee. Non almeno per la maggior parte: l’induzione al mutamento dei settori da occupare con nuove fette di investimenti riguarderanno la medicina, la ricerca e l’indotto che si è fatto largo intorno al mondo scientifico e che ha dettato la linea alla giurisprudenza di molti paesi, di molte comunità internazionali nate per governare i processi economici e gli equilibri tra i vari continenti e poli capitalistici.
La rivoluzione del Covid-19 tocca struttura del sistema dello sfruttamento, del profitto e delle merci e sovrastruttura istituzionale: per questo ha una fisionomia tipica della crisi ciclica del capitale ma non ne ha le caratteristiche più peculiari che ne farebbero un vero cambio di passo per il capitalismo mondiale.
Non è, in sostanza, una forza sociale che impone una differenziazione tra passato e presente, in prossimità del futuro in costante divenire. Non nasce da un moto classista, da un risveglio della coscienza anticapitalista, ma può essere utile per rigenerarla, visto che questo effetto si mostra evidente nella presa di consapevolezza dei padroni di Confindustria e della grande finanza quando guardano alle spread collegandone le oscillazioni allo sviluppo di una nuova ingegneria sanitaria.
Mentre il mercato liberista aggiusta il tiro, l’emergenza sociale si acuisce e la legislazione continua a disperdere la sua razionalità, incapace di formulare, attraverso il Parlamento, una vera e propria Legge che riguardi eventi come le pandemia, fornendo alla decretazione d’urgenza un aggancio costituzionale che renderemme meno improvvisata la formulazione delle norme e, soprattutto, la includerebbe in un piano programmatico di gestione degli eventi eccezionali sanitari al pari di altre grandi problematiche cui ha dovuto fare fronte l’Italia nel corso della sua storia: si pensi alle catastrofi naturali, a fenomeni come quello del terrorismo o al ben più consolidato rapporto tra mafia, società e parti dello Stato.
Per questi ultimi accadimenti sono tutt’ora in corso processi proprio su quella vergogna incivile e immorale che è conosciuta come “trattativa Stato-mafia“.
La pandemia, pertanto, è una occasione da cogliere per ridare “ratio” alle norme, agendo mediante la concretizzazione di nuove Leggi e ripensando il rapporto tra gli enti istituzionali: una riforma della riforma del celeberrimo “Titolo V” oggi sembra scontata, almeno nelle intenzioni di quasi tutte le forze politiche. Non è detto però che, terminata la pandemia, questa buona intenzione rimanga tale e dimostri di essere quello che sembra: la presa di coscienza di un pessimo equilbrio tra centro e periferia, tra locale nazionale, tra Regioni e Stato.
Aspettiamo e lo sapremo.
MARCO SFERINI
21 novembre 2020
Foto di Engin Akyurt da Pixabay