Si è spenta l’altro ieri sera, all’ospedale di Frascati dover eer ricoverata da qualche giorno, Giovanna Marini. Aveva 87 anni, e già definirla sinteticamente è un problema, madre e fonte ispiratrice di voci, canzoni, tradizioni e melodie, che affondavano nelle migliori tradizioni, e che lei per tutta la vita ha salvato, raccolto, riscrittto, reinventato con assoluta dedizione.

Anche se la sua era stata una formazione classica, all’Accadema di Santa Cecilia: famiglia borghese, un fratello gesuita a cui era molto legata per l’apertura di lui, e un inizio clamoroso, dopo un lungo soggiorno negli Stati uniti, che mise in musica al ritorno con un ancora oggi esplosivo Vi racconto l’America.

Dopo quel soggiorno, tornata in Italia, fu attratta dalla musica e dalle canzoni che qui erano patrimonio e tradizione delle «classi subalterne». Si avvicinò così a quel gruppo di artisti e intellettuali che si raccoglievano attorno alle indagini di Ernesto De Martino (che lei fece appena in tempo a conoscere) e scoprì nuovi mondi, dal canto delle mondine a quello che era il patrimonio vocale delle «classi subalterne».

A metà degli anni 60 si trovò così a Spoleto, al Festival dei due mondi, a cantare con un gruppo di altre voci straordinarie, le canzoni dei lavoratori e della loro storia. Ma quello spettacolo Bella ciao scatenò l’inferno: parapiglia, contestazioni e fischi dalla platea, militanza fisica degli artisti sul palco che continuavano a cantare le canzoni delle mondine e dei minatori.

Con la regia e l’iniziativa di Dario Fo, Giovanna Marini a fianco, tra gli altri e le altre, a Giovanna Daffini, che mondina era stata davvero, a rivendicare con Ivan della Mea, Sandra Mantovani (e tutto quello che poi sarebbe stato «il nuovo canzoniere italiano») la forza culturale e politica di quelle canzoni.

Una eredità che Giovanna Marini si è portata dietro tutta la vita, facendo di quel patrimonio di canti e suoni un «bene comune» per le generazioni future, per le quali sdoganava un valore, che è andata negli anni approfondendo e ampliando attraverso viaggi, seminari e rielaborazioni per i quali sarebbe stata poi chiamata anche ad insegnare nelle università parigine. Era la vigilia del ’68, e quel patrimonio divenne bagaglio comune e linguaggio riconoscibile di una trasformazione politica che suonava davvero epocale.

Formatasi in quel decennio con intellettuali come Cesare Bermani, Gianni Bosio, Roberto Leydi, Diego Carpitella, e quindi Ivan della Mea, si affiancò nell’avanguardia politica con artisti come Paolo Pietrangeli (cantore sessantottino di Valle Giulia) passando dai piccoli spazi come la Ringhiera, sempre a Trastevere, ma nel tempio della musica nuova che era il Folkstudio di Cesaroni.

Le sue ballate diventavano dischi (quelli mitici «del Sole»), ma la realtà delle lotte e della protesta diventavano capolavori di uso comune. Ancora oggi I treni per Reggio Calabria resta grazie a lei la testimonianza più viva, nei primi anni 70, del viaggio traumatico di una manifestazione sindacale di grande respiro nel profondo sud calabrese, dominio allora della destra eversiva di Ciccio Franco. Un brano ripreso nel disco in coppia con Francesco De Gregori (Il fischio del vapore, 2002) che la portò addirittura in hit parade.

Appare oggi impressionante come quella ragazza di buona famiglia possa aver dato voce ai movimenti popolari più forti e generosi della storia recente del nostro paese. Fondò con un gruppo di musicisti a lei vicini la Scuola di musica Popolare del Testaccio (tuttora funzionante) all’interno del vecchio Mattatoio, educò una nuova generazione di cantanti e artiste che si esibivano a fianco a lei, rimanendo sempre in prima fila su ogni fronte, sociale come musicale.

È stata insomma la voce (e la «madre» di ogni altra voce) che abbia cantato le trasformazioni, e ogni altro processo, di questo paese, da quelli andati a buon fine a quelli generosamente repressi da ogni autorità.

Le sue canzoni, e ballate e variazioni, sono quelle che per le generazioni future potranno essere fonte di informazione e formazione, con il ritmo, il suo, attento al nuovo della ricerca musicale, ma sempre in grado di comunicare in profondità, che fossero trasformazioni epocali come variazioni di cultura e costume.Le musiche per Le Troiane di Salmon e per il furore poetico di Delbono

È sempre stata attenta Giovanna a quanto succedeva intorno: un esempio per tutti il suo rapporto con Pier Paolo Pasolini. Conosciuto una sera a cena a casa di Laura Betti (personaggio grandioso anch’essa, notoriamente tosta verso chiunque, ma sempre pronta a riconoscere, rispettare e favorire la grandezza di Giovanna) si stabilì tra loro un grande feeling, con la possibilità di future collaborazioni, stroncate presto dall’assassinio poco tempo dopo del poeta, che da allora è stato per Giovanna oggetto di ispirazione e riflessione musicale, protagonista di alcune strepitose creazioni che ne restano tuttora bellissima e dolorosa testimonianza.

Una per tutte, la messa in musica dei Turcs tal Friul alla Biennale di Venezia negli anni 90. Dove il ricordo più tenero e commovente, al di là dello spettacolo, molto bello e inquietante, è quello personale di Giovanna che asciuga con degli stracci le sedie della platea all’aperto, prima dell’inizio dllo spettacolo e dell’ingresso del pubblico, perché un tremendo temporale aveva letteralmente allagato palcoscenico e platea….

E non si possono dimenticare gli altri suoi interventi, emozionanti e decisivi, per altri spettacoli teatrali che hanno fatto storia: le musiche ad esempio per Le Troiane di Thierry Salmon cantate in greco antico, o per il furore poetico di Pippo Delbono sempre a Gibellina, o ancora per il racconto della prigionia di Oscar Wilde che lei recitava con Umberto Orsini.

E ci sono poi alcune testimonianze di Giovanna Marini impressionanti, per aver dato davvero ritmo e senso a passaggi in qualche modo epocali. Si può vedere anche su YouTube la sua performance in morte di Bruno Trentin, uno dei maggiori sindacalisti della nostra storia recente, che l’aveva espresso come desiderio.

Quelle tre canzoni da lui particolarmente amate che lo hanno salutato per l’ultima volta in pubblico, da lei cantate e suonate su Corso Italia (una ballata francese della Comune di Parigi, We shall overcome inno del 68 americano, Bella ciao che faceva canticchiare attorno a lei la dirigenza del vecchio Pci, e perfino Romano Prodi). Anche per questo è un peccato che proprio a lei vengano ora precluse celebrazioni pubbliche dalla scelta della famiglia di esequie rigorosamente private.

Ma ricordarla, nel cuore e nell’orecchio, sarà per ogni suo ammiratore sempre struggente.

GIANFRANCO CAPITTA

da il manifesto.it

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