A giorni alterni qualcuno si ricorda che in Italia esistono i giovani e anche quelli che giovani non lo sono più sebbene siano ugualmente precari. Nella crisi precedente iniziata nel 2007 tra i ministri c’era l’abitudine di disprezzarli. Li chiamavano «bamboccioni». Pensavano così di spronarli ad accettare qualsiasi lavoro, anche gratuito, per dimostrare la loro moralità di cittadini. Ancora oggi si ricordano le polemiche furiose contro la spocchia paternalista dei vari Padoa-Schioppa, Fornero o Poletti.
Una decina di anni dopo, con la nuova crisi sociale innescata dal Covid, l’approccio è cambiato. Con Draghi alla presidenza del consiglio si è passati a un atteggiamento più liberale e compassionevole. Nella sostanza poco o nulla è cambiato. Non si parla di una politica sociale e di una riforma universalistica del Welfare, ma di bonus e incentivi i cui risultati saranno un fallimento.
Il «Decreto sostegni bis», ad esempio, dovrebbe allargare l’accesso al fondo per i mutui sulla prima casa dei giovani. Si dice che ci siano 55 milioni di euro per il rifinanziamento del fondo attraverso agevolazioni fiscali. Per capire l’inutilità di una misura decontestualizzata rispetto a una visione organica dello Stato sociale, è utile leggere uno studio pubblicato ieri dal Consiglio nazionale giovani (Cng) e Eures.
Su 960 giovani tra i 18 e i 35 anni intervistati tra marzo e aprile 2021 oltre la metà ha avuto negli ultimi tre anni un reddito medio inferiore a 10mila euro. Solo il 7,4% ha guadagnato oltre 20 mila euro. L’effetto di detrazioni fiscali su redditi mediamente così bassi è inconsistente. Anche nel caso in cui una banca conceda un mutuo, questi giovani dovrebbero sostenere le spese con risorse che non possiedono. Solo il 12% di loro è proprietario della casa in cui abitano. Uno su 10 ha provato ad acquistarne una e solo il 7,8% ha ottenuto un mutuo, mentre al 3% è stato rifiutato. Il 40% non prova nemmeno a chiederlo perché è consapevole di non avere i requisiti. Nei cinque anni successivi al completamento degli studi solo poco più di uno su tre (37%) degli intervistati ha potuto contare su un lavoro stabile, il 26% ha un contratto a termine e un quarto risulta disoccupato. Per questo il 50,3% vive con i genitori che, si presume, non hanno le risorse per comprare una casa ai figli. Circa quattro su dieci (38%) vive da solo o con il proprio partner in affitto. Questo è uno degli effetti del precariato di massa: è noto a tutti, ma è messo sotto il tappeto.
Nel 2022 il governo Draghi ha l’intenzione di varare l’«assegno unico universale per i figli» fino a 21 anni. Nel caso dei maggiorenni tra i 18 e i 21 anni l’assegno andrà, in maniera decrescente ai genitori, a conferma della solida impostazione familista del welfare italiano. Senza contare che quell’assegno non sarà erogato dai 22 anni in poi. E qui stiamo parlando di un precariato che dura tutta la vita. Ecco il paradosso: da un lato, ci si commuove per i giovani restano dai genitori anche oltre i 40 anni; dall’altro lato, il Welfare residuale va alle famiglie da cui quei giovani dovrebbero emanciparsi. Gli inviti a procreare, giunti copiosi dai palazzi della politica e da quelli vaticani, si infrangono immancabilmente contro questa realtà. Solo il 6,5 % del campione intervistato afferma di avere figli. Un terzo ha dichiarato di non averne e di non volerne neanche negli anni a venire.
Nel rapporto Cng-Eures si parla di pensioni: il 44,4% pensa che ci andrà dopo i 70 anni, il 35,4% tra i 65 e 69 anni, il 10,7% prima dei 65 anni. Oltre il 73 % immagina che la pensione non gli consentirà di vivere dignitosamente. Hanno tutti ragione. Questa è la bomba sociale che sta incubando il Welfare attuale. Il 75%, inoltre, si dice favorevole all’introduzione di una pensione di garanzia. Una misura che si avvicina, anche se è insufficiente, oggi si chiama «pensione di cittadinanza». Non volendo garantire salari dignitosi, rifiutando di istituire un reddito di base e politiche sociali per tutti, si punta su misure simboliche che arriveranno…tra 40 anni.
ROBERTO CICCARELLI