Giotto dal vivo della materia

Viaggio nell’immaginario «francescano» dell’artista: una visita al cantiere dei restauri in corso della Cappella Bardi nella chiesa di Santa Croce a Firenze. Da fine luglio, secondo previsioni, si potrà salire sui ponteggi per vedere da vicino gli affreschi del maestro

Non ha avuto una grande fortuna la Cappella Bardi della chiesa di Santa Croce. Dipinta da un Giotto maturo su commissione dei ricchi banchieri fiorentini, sicuramente non prima del 1317 (sulla parete di fondo, a sinistra della finestra, figura il ritratto di san Ludovico di Tolosa con l’aureola che fu canonizzato proprio in quell’anno), è considerata un capolavoro anche per le soluzioni spaziali e prospettiche adottate dall’artista e dalla sua preparatissima bottega in ogni episodio narrato.

Eppure, quelle e sei scene della vita di san Francesco, che interpretavano la Legenda Maior di Bonaventura da Bagnoregio (come già nella basilica superiore di Assisi), erano cadute in disgrazia fin dal Cinquecento. In precario stato di conservazione, nel 1730 furono scialbate (imbiancate a calce) e all’inizio dell’Ottocento l’inserimento di due monumenti funebri nel registro inferiore delle pareti laterali provocherà danni irreversibili.

Ma lo sperimentatore Giotto tornerà in auge con il vagheggiamento della «patria Italia» e nel 1851, prima per volontà di un pittore come Carlo Morelli (cui era stato chiesto addirittura di dipingere la cappella), poi con Gaetano Bianchi, comincerà l’operazione di descialbo per riportare alla luce gli affreschi. Un’operazione che, spiega la restauratrice Maria Rosa Lanfranchi dell’Opificio delle pietre dure, «veniva condotta anche da manovali, forse dai frati stessi: era un procedimento meccanico e qualcosa si rovinava, la pellicola cromatica veniva via».

Molto fu perduto (Giotto aveva dipinto a secco diverse parti), molto fu poi ricostruito per offrire una visione unitaria. Che, però, non era più Giotto.

«I visi erano sinceri, i cieli invece erano ripassati di blu intenso ed erano state ricostruite le architetture, anche lì dove non erano deducibili da ciò che era rimasto – continua Lanfranchi –. Oggi si prova a dare continuità soltanto dove ci sono gli elementi che lo rendono possibile e si va alla ricerca di un tono neutro che riduca il candore del bianco delle innumerevoli cadute di colore e delle lacune più estese. Per esempio, dell’azzurrite del cielo noi vediamo solo il fondo, non c’è più la campitura cromatica. L’azzurrite, infatti, non poteva essere stesa a fresco: era grossa e si alterava con la calce». Ciò la rendeva altamente deperibile.

Il primo grande restauro, nel 1957/ ’58, si deve al soprintendente Ugo Procacci e al restauratore Leonetto Tintori. I due dovettero temere anche le reazioni dell’opinione pubblica dato che restituirono un Giotto certamente vero e non d’invenzione, ma incompleto. Tintori, però, aveva fatto uso di fissativi sintetici a base vinilica e questi, alterandosi, offuscavano la cromia originale.

Dal 2022, quel testo pittorico tormentato è sottoposto a un nuovo, importante intervento di restauro, preceduto da anni di indagini diagnostiche con tecniche raffinatissime e un’apparecchiatura no touch, mentre sulla base di un rilievo laser scanner è stato ottenuto il modello HBIM 3D dell’intera cappella.

Sui ponteggi, quando i lavori saranno terminati – intorno a fine luglio 2025 – potranno salire per altri due mesi i visitatori (per ora, le visite guidate al cantiere sono consentite solo ai residenti nel fine settimana), in un emozionante «a tu per tu» con Giotto e i suoi; per evitare danni, il microclima sarà costantemente monitorato con termocamere così come la struttura muraria che presenta disomogeneità.

Il restauro – affidato all’Opera di Santa Croce, presieduta da Cristina Acidini e all’Opificio delle pietre dure, cui sovrintende Emanuela Daffra, che può contare sui contributi della Fondazione Cr Firenze, dell’Arpai e su donazioni private – prevede una spesa di un milione di euro.

Dai ponteggi, si intuisce perfettamente il susseguirsi delle «giornate» di lavoro, si notano le prove di colore dell’artista, i disegni a mano libera, il rosso della preparazione, i graffi, le figure cancellate.

Come quel Cristo crocifisso, che spunta come un fantasma dietro al san Francesco che appare al Capitolo di Arles, vivificando l’idea di un’identificazione con il santo (l’alter Christus), come sottolinea la storica dell’arte dell’Opera di Santa Croce Donata Grossoni.

Intanto, in quel luogo che può considerarsi una macchina delle meraviglie, si sta mettendo a punto un percorso nuovo. Il «viandante», prima di entrare nelle navate della chiesa, sarà accolto dallo stupore metafisico della Cappella Pazzi di Brunelleschi.

ARIANNA DI GENOVA

da il manifesto.it

foto: screenshot da Wikipedia

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Arte e mostre

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