C’è una “fase 2” un po’ per tutto: del resto, si dice, una seconda possibilità la si dovrebbe dare a tutto e a tutti. Lo dice il Vangelo, lo suggerisce l’umanità che cantava Rino Gaetano, forse ispirato da un genuino senso di solidarietà sociale che contrastava con un egoismo che appare sempre più determinante nel secondo tempo di questa tragedia planetaria che si è rivelato essere il Covid-19.
C’è chi minimizza sul piano sanitario e tratta il tutto come qualcosa di poco più di una influenza e chi massimizza le preoccupazioni invece sul piano economico, protendendo il tutto ad un allarme tanto derivante dalle istituzioni bancarie continentali europee (e non solo) quanto dalle singole piccole o grandi patrie che compongono questa scompagine politica chiamata “Unione Europea“.
Il capitalismo di second’ordine tutto italiano prova a mostrare toni muscolari nel rivendicare un ruolo che lo ponga al di fuori delle diatribe politiche e che, soprattutto, consenta al sindacato dei padroni di potersi riaccreditare come fonte unica di ispirazione (chiamiamola metaforicamente così…) per la rappresentanza politica che deve difendere i privilegi di classe delle moderna borghesia imprenditoriale. Le dichiarazioni del nuovo presidente di Confindustria paiono proprio aprire una “fase 2” della dirigenza della parte antisociale in questione: le misure prese dal governo, sostiene Bonomi, sono insufficienti e penalizzano le imprese. I soldi distribuiti “a pioggia” sarebbero inefficaci nel produrre una spinta per il motore produttivo del Paese che, si intende, non sono i lavoratori, no… Sono loro, gli imprenditori.
Sintetizzando, ed uscendo da tecnicismi verbosi, il presidente degli industriali vorrebbe che l’esecutivo (o “un” esecutivo… In questi casi il passaggio da un articolo determinativo ad uno indeterminativo fa una differenza enorme!) concentrasse i fondi stanziati, trovati con tagli, suppliche alla BCE e quant’altro, sì a pioggia ma alle imprese e non ai lavoratori. Gli stanziamenti fin qui fatti non bastano, perché, oltre tutto, si lagna Confindustria, non sono a fondo perduto.
Invece di redistribuire il lavoro tra molti, “lavorare meno e lavorare tutti” (lo sostiene anche il quotidiano della Conferenza Episcopale Italiana, proprio in data odierna), gli imprenditori rivendicano “una ridefinizione dal basso turni, orari di lavoro, numero giorni di lavoro settimanale e di settimane in questo 2020“. Il punto di vista è, ovviamente, la difesa dell’interesse di classe del padronato italiano: ottenere condizioni tali da rimodulare le condizioni di contrattazione tra le parti in causa, scompaginando i diritti dei lavoratori e piegandoli al pretesto dell’attuale crisi sanitaria che si riverserebbe sul comparto aziendale e niente più.
Una politica sindacale unitaria dovrebbe contrattaccare nettamente e proporre la rimessa in campo della gestione unitaria degli interessi dei lavoratori: Confindustria vuole spezzettare ancora di più l’attuale parcellizzazione del lavoro per indebolirne le richieste, tutto, si intende, nell'”interesse del Paese“. Lo specchietto per le allodole bisogna pur sempre metterlo davanti alle proprie ipocrite affermazioni e pretese.
Il fronte del lavoro dovrebbe reclamare potentemente un ritorno al Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL), mentre si sta sulla difensiva e si rilancia al massimo nella ridefinizione della contrattazione di secondo livello, gestendo il tutto mediante ritocchi sulla defiscalizzazione delle imprese con interventi normativi del governo, senza pensare ad una ridistribuzione della domanda tradotta in lavoro pratico, in forza-lavoro vera e propria che deve poter trovare uno sbocco occupazione soprattutto oggi, mentre ai tempi del Coronavirus la società si pauperizza maggiormente e soltanto il 40% delle famiglie italiane (dati dell’ISTAT) può andare avanti a sbarcare un lunario precarissimo solo per pochi mesi.
Non esiste ormai da troppo tempo la possibilità di risparmio, di accumulo di una parte del salario in un conto corrente per costruirsi un fondo di salvaguardia della propria vita che non sia né una previdenza integrativa né, tanto meno, un prestito bancario a tassi onerosi.
La “fase 2” della lotta di classe in Italia si è, dunque, riaperta in queste settimane sotto la pressione del virus, colta al balzo da Confindustria con la nomina di un presidente energico, che fa sentire la sua voce e quella della maggioranza dei padroni che, per l’appunto, l’hanno votato ed eletto.
Sul fronte invece finanziario, l’offensiva è (quasi) tutta tedesca: fresca fresca è la notizia della decisione della Corte costituzionale della Repubblica federale di Germania che a Karlsruhe ha sentenziato la prevalenza del diritto germanico su quello comunitario europeo, intimando alla Banca Centrale di giustificare il ricorso al finanziamento del debito da Coronavirus mediante l’acquisto dei titoli di Stato. Una risposta che i giudici alemanni vogliono entro agosto, pena il ritiro della Deutsche Bundesbank dal piano di sostegno del “Quantitative easing” (già di Mario Draghi un tempo, sostenuto dalla giurisdizione europea nel 2018).
In sostanza, su ricorso di due deputati euroscettici, la Germania apre un fronte con le istituzioni monetarie e bancarie europee, la cui sovranità in materia di decisioni sulla stabilità economica dell’Unione viene messa in discussione da singoli Paesi che ne fanno parte. E’, e diviene, anche una questione di diritto, in punta di fioretto. Si intrecciano interessi economici particolari e globali, piani di legislazioni e ne nasce, per la prima volta nella storia europea, un faccia a faccia virulento tra una magistratura nazionale e una continentale.
E’ abbastanza evidente che lo scontro, anche in questo frangente, non fa soltanto riferimento ad un mero orgoglio nazionalistico di questo o quel deputato dell’estrema destra della famigerata populista ed estremista di destra “Alternative für Deutschland“. A questo proposito si aggiungono indubbiamente spinte del capitalismo tedesco che intende difendere i propri interessi tanto finanziari quanto sul piano concorrenziale, sul terreno stesso della produzione e sulla riproposizione – al termine della fase pandemica – di un rilancio della cosiddetta “locomotiva tedesca“.
Lo spostamento degli equilibri di potere politico sarà determinato da queste dinamiche economiche che si riflettono ora nello scontro di potere tra gli Stati, nella primazia di questo o quel modello di intervento da attuare per limitare i danni della retrocessione da Coronavirus e nel confronto tra le varie particolarità nazionali dopo l’uscita del Regno Unito da una Unione Europea sempre meno virtuosa nella sua proposta di rafforzamento politico e sempre più al traino delle emergenze globali o delle insufficienze finanziarie.
Una sofferenza che l’Europa patisce nel confronto sia col dragone cinese, pronto ad ripartire nella sua migliore espressione produttiva volta alle esportazioni (anche se ancora non si comprende bene come possa essere soddisfatta una domanda estera che non vede alcuna ripresa, visto il persistere della pandemia e la contrazione conseguente dei consumi), sia verso la sponda occidentale statunitense, dove Trump mostra di voler costruire già ora le condizioni per la riapertura totale della Repubblica a stelle e strisce alla sfida economica globale.
L’Italia nemmeno a dirlo, vista la caratteristica insufficienza concorrenziale del capitalismo dello Stivale che investe nella finanziarizzazione di sé stesso, nell’accumulo di capitali e nello sfruttamento delle speculazioni peggiori a buon (o cattivo) mercato, invece che brevettare nuovi prodotti da immettere sul piatto della sfida tra i poli concorrenziali; ma la Germania sembra oggi patire, come un tempo la Gran Bretagna descritta da Philip Stephens dalle colonne del “Financial Times“, un adeguamento delle proprie “ambizioni internazionali a condizioni economiche ridimensionate“.
Il vampirismo delle nazioni più potenti a discapito di quelle deboli non è certo una scoperta di oggi: sta nelle dinamiche bulimiche del capitalismo, nella sua onnivoricità, nel tentativo di rafforzarsi peggiorando ora questa ora quella condizione di difficoltà di un popolo a tutto vantaggio di un determinato ambito nazionale o sovra-nazionale che sia, come l’Unione Europea.
Gli Stati Uniti, dal canto loro, mostrano in questi giorni un discredito della classe media e dirigente del Paese nei confronti di un presidente altamente incapace di gestire la crisi sanitaria e quella economica che inevitabilmente sono legate e sono state sottovalutate pensando che potessero essere gestite, con una buona dose di cinismo, mostrando al mondo solo qualche migliaio di morti: un po’ come la Cina. Lo scontro a distanza ravvicinata tra i due colossi continua e si allarga a sfere di egemonia mondiale sempre più vaste.
In Europa, però, anche i più fervidi sostenitori della moneta unica e della BCE, come l’ex Commissario europeo Pierre Moscovici, si mostrano consapevoli che tirare troppo la corda, lasciare sola l’Italia in questo frangente significa minare alle fondamenta una UE priva di un substrato politico-istituzionale, costruita soltanto sugli interessi comuni regolati dal profitto e non certo dalla condivisione mutuale del debito.
Il MES, alla fine dei conti, è proprio questo punto di non ritorno: anche se “regolato consapevolmente“, secondo una straordinaria formula sempre ipocritamente costruita per celarne la vera spietata natura antisociale, può diventare un cappio al collo per l’Italia, la Spagna, persino per la Francia che accrescendo il loro debito, puntando su un acquisto dei titoli di Stato da parte della BCE e vedendo sconfessare poi il tutto dalla Germania, non avrebbero altra scelta che rintanarsi negli interessi nazionali per salvare il salvabile, per evitare un effetto inflazionistico catastrofico e una disoccupazione di massa che genererebbe flussi interni all’Europa ingestibili, sovvertendo tutti i piani di regolamentazione della soddisfazione della domanda tanto interna quanto estera.
Ma tutto ciò vorrebbe dire la fine dall’Unione Europea vera, quella monetaria, quella del capitale, quella delle banche e degli scambi commerciali. Semmai vi fosse stato un briciolo di volontà di costruzione di una federazione di Stati sul piano politico, un comune intento di una vera Costituzione europea, di una unità sociale e civile, in quel modello, forse solo con la sua fine avrebbe qualche speranza di intraprendere una nuova strada, una via nuova che oggi si mostra ancora, sempre e soltanto, come scontro tra le varie economie e alte finanze nazionali.
I rapporti di forza mutano e una nuova fase di ricollocazione del potere economico capitalistico è in veloce definizione. Per questo è molto, molto pericolosa nella sua traduzione antisociale: imprescindibile ma contrastabile con la costruzione di un movimento dei lavoratori, degli sfruttati e degli anticapitalisti di tutti i paesi. A cominciare da quelli della vecchia, vecchissima eppure moderna Europa.
MARCO SFERINI
6 maggio 2020
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