Robusta e felicissima intuizione, ma anche sottile ragionamento che mira alla confutazione del pensiero magico ed occulto, è l’esposizione che Pierre Gassendi (italianizzazione di Pierre Gassend) fa riguardo un meccanicismo naturalistico che non prescinde dall’intervento divino che numerosi teologi del suo tempo (siamo sul finire del Cinquecento e la prima metà del Seicento) scorgono in ogni evento e situazione, ma che al contrario include tanto l’ambito dell’osservazione scientifica quanto quello più mistico (e metafisico) della presenza dell’Onnipotente.
Particolarmente interessante è l’argomentazione che il canonico e filosofo francese mette per iscritto senza verve polemica, ma prendendo in considerazione un esercizio dialettico onestamente paritario tra differenti elaborazioni concettuali. Gli interessa disarticolare minuziosamente i fenomeni naturali per mostrare (piuttosto che avere l’ambizione di dimostrare) che non esiste contraddizione alcuna tra il prodursi e riprodursi in uguale maniera di ogni processo della materia e quella che noi, da un punto di vista agnostico e laico, potremmo definire la “considerazione” dell'”ipotesi Dio“.
Più si va nel microcosmo di una natura che stupisce e meraviglia, più Gassendi vede in questo la prova dell’immanenza divina nel presente, in ogni elemento tanto materiale quanto spirituale. Il fantastico e l’irrazionale, così caldeggiato da una certa corrente filosofico-magica, sono qualcosa di diametralmente opposto alle spiegazioni che si possono dare del procedere dell’unità dell’esistente nella sua articolatissima molteplicità. Si alimenta in questo modo una ricerca continua e costante, fomentata dallo stimolo del dubbio che è il motore dell’apprendimento pur trovandosi, esso stesso, nella condizione dell’inconoscenza.
Partendo da questi presupposti, la filosofia di Gassendi approda, verrebbe da dire “naturalmente“, ad un atomismo che trae le sue origini dall’empirismo epicureo e che ci interessa per poter fare un successivo raffronto con il monadismo leibniziano. Questa sempre più evidente prossimità col concetto di atomo, di indivisibilità dell’essenza materiale, della sostanza pratica e tangibile, non è però qualcosa che eredita passivamente dal passato e che fa proprio in modo quasi dogmatico. Tutt’altro.
Germoglia una critica pacata alle verità assolute della filosofia greca che poggiavano su una incontestabile dedizione ad una precettività metafisica di impossibile interpretazione. La radicalità del suo pensiero si fa avanti tra i meandri di un rigore scientifico di cui era totalmente sprovvista la vecchia fisica di Aristotele. Il problema al centro dei suoi ragionamenti può così essere un po’ sinteticamente espresso: i mutamenti fisici sono qualcosa di oggettivo, incontestabile, innegabile. Avvengono sotto i nostri occhi e noi stessi ne facciamo parte, visto che il nostro corpo muta e, alla fine dell’esistenza, si trasforma in altro.
Ma tutti questi mutamenti – sostiene Gassendi – avvengono grazie al fatto che qualcosa permane, rimane, pur nel cambiamento continuo della materia, nella composizione e nella scomposizione di sé stessa, nell’assunzione di forme molto differenti tanto nella brevità del tempo di un giorno (basti pensare alla vita e alla morte di un fiore o di un insetto) o di un centinaio di anni (se facciamo generoso riferimento temporale a noi stessi animali umani). Cos’è dunque ciò che rimane immutato o che permette l’immutabilità della materia in quanto tale?
La risposta che Gassendi dà è: l’atomo che nessuna forza fisica è in grado di alterare, annichilire o, superando l’etimologia del termine stesso, dividere e suddividere in più e più parti. Siamo in un Seicento in cui le scoperte scientifiche avanzano dal macro al microscopico. E proprio queste ultime ricerche nel piccolo del più piccolo, dell’invisibile a priva vista (ma non agli occhi), rafforzano nel pensatore francese la convinzione che l’atomo sia il punto su cui far vertere la sua interpretazione della continuità materiale in una stabilità complessiva dell’Universo.
Nel pitagorismo la rappresentazione dell’indivisibile e dell’imperturbabile, quindi della “monade” (dal greco μονάς (“monas“, “unità“) a sua volta derivato da μόνος (“monos“, “unico“)), era afidata ad una circonferenza con al centro un punto. La precisione geometrica figurava quindi la continuità infinita della percorribilità della delimitazione esterna con dentro un nucleo che ne sintetizzava l’essenza, per l’appunto, unica e indivisibile. L’atomo, in sé e per sé, era più propriamente il concetto che esprimeva una fisicità della materia. La monade, invece, aveva avuto, nel corso dei secoli, un destino meno corporeo e – se vogliamo dirla così – più metafisico.
Gassendi distingue: tra atomi e punti matematici, proprio come quello pitagorico appena descritto. Non si tratta di una distinzione di poco conto e, al pari della sua afferenza all’epicurismo (non dogmatico) ma radicalmente scientifico, il nostro canonico di Digne, mette qui un ulteriore elemento distintivo del suo pensiero rispetto a quelli che lo hanno nominalisticamente, panteisticamente ed anche scetticamente preceduto, così come seguito. Non solo c’è differenza tra atomo e punto matematico, ma vi è anche con quelli che lui chiama i “minima sensus“, quindi gli oggetti piccolissimi visibili soltanto al microscopio.
Questa indagine nell’impenetrabile ad occhio nudo è la quintessenza di una necessità dell’essere umano di andare a guardare sempre più a fondo nella costruzione essenziale della materia: indotti a questo dalla voglia di apprendere il segreto dei segreti, il mistero dei misteri, l’inconoscibile che, forse, del tutto inconoscibile poi non è ma che, ancora oggi e certamente per sempre, rimarrà tale: la finalizzazione del tutto, lo scopo, la ragione dell’esistenza di ciò che è e, direbbero alcuni nostri amici del passato, non può non essere.
Senza operare alcun tipo di forzatura, si può però stabilire una similitudine, quanto meno qualitativa, tra l’atomismo gassendiano e il monadismo leibniziano. Entrambi si propongono un discernimento del reale, una comprensione dell’intera esistenza affidata alla certezza che il “principio della ragion sufficiente” è bastevole per asserire che se tra due enti non vi fosse la minima differenza, allora non ci sarebbe nemmeno alcun motivo per questi stessi enti di essere davvero due. Le diversità, quindi, sono un viatico mediante cui si può sapere di più sulle proprietà singolari di ogni espressione della materia.
L’indivisibilità delle sostanze – quindi la “monade” nella sua più peculiare caratteristica immaginata da Leibniz – non è riscontrabile nell’atomo in quanto tale. Se fosse vissuto nella nostra presunta modernità, il filosofo di Lipsia ne avrebbe potuto concludere che aveva intuito molto bene nel considerare l’atomo ancora suddivisibile, mentre la sua monade era davvero “atomica” (dal greco ἄτομος (“a-tomos“, “indivisibile“)) e prescindeva dalla “pigrizia” umana nel non voler proseguire l’indagine sull’estrema particolarità dell’essenza materiale dell’esistente.
Non esiste quindi una possibile analogia tra monadi e atomi ma, proprio per questo, il confronto tra Gassendi e Leibniz è particolarmente affascinante e interessante ancora oggi: se non altro su un piano meramente accademico, per divertirsi anche un po’ con la filosofia vista quasi sempre come un amore per la saggezza che sprofonda nella noia e nella ripetizione dei concetti al limite dell’obsolescenza. Ciò che da questa similitudine si può trarre, oltre tutto, è la constatazione che i due pensatori riflettono sull’essenza naturale come qualcosa di continuamente attivo.
Non vi è staticità nemmeno nel rapporto gnoseologico tra la nostra mente e la natura, tra ciò che possiamo conoscere e la critica alla conoscenza medesima che ci è così propria, perché mettiamo sovente in dubbio le nostre capacità e il tipo di approccio che possiamo avere con l’esternità da noi e intorno a noi. L’antidogmatismo gassendiano lo ritroviamo proprio in un ambito propriamente dedito all’acquisizione della consapevolezza delle potenzialità umane verso il sapere. Pur essendo un matematico, ed insegnando questa disciplina, Gassendi sviluppa una posizione critica in cui le perplessità abbondano.
La matematica gli sembra piuttosto dogmatica quando pretende di essere una scienza esatta, per esempio quando si occupa dei procedimenti infinitesimali: ai galileiani più ferventi non intende rimproverare le certezze cui approda il metodo della sperimentazione, ma gli sembra tuttavia che una certa dose di astrattismo faccia capolino là dove invece la sicurezza è data come indubitabile. Questa critica lo spinge verso una similitudine tra le scienze matematiche e quelle aristoteliche, stabilendo un parallelismo intramillenario che si reggerebbe su un recupero “moderno” (parlando ovviamente del suo tempo) della verità inconfutabile, ai limiti del dogma.
La conoscenza, punto focale di tutta la filosofia gassendiana, è affidata alla fine ad un processo gnoseologico impostato sullo scambio tra la percezione sensoriale umana e il distacco di una parte degli atomi dagli oggetti o dai fenomeni naturali della conoscenza stessa. Astraendo e cedendo al piano metafisico, Gassendi attribuisce agli atomi anche una “sensibilità” immateriale, contenuta comunque nella loro essenza materiale, che sarebbe il costrutto primario dell’anima vegetativa e della nostra capacità di sentire, provare emozioni, desiderare, amare, odiare…
Qui è facile presupporre il passaggio successivo del pensiero del filosofo-canonico francese: atomi e movimento degli stessi sono stati creati da Dio e non sono, quindi, frutto vicendevole di un evoluzionismo universale inconoscibile che, nelle sue continue mutazioni, si dinamizza e si compone e scompone attraverso processi, leggi e fenomeni naturali che possono anche prescindere da una volontà divina o, se vogliamo, da un principio ispiratore del tutto. L’anima vegetativa di cui parla Gassendi, del resto, è distinguibile da un’altra anima che avremmo: incorporea e libera (“intellectus“).
La contraddizione diviene evidente: lungo tutto il suo percorso filosofico (e naturalistico-scientifico) ha affermato che tutte le cause sono materiali ma, infine, l’ipotesi-Dio deve trovare il suo posto. I tempi lo richiedono e Galileo è un esempio di cosa può accadere se si ipotizza qualcosa di differente dalla narrazione della Chiesa cattolica in materia di strutturazione dell’esistente: dell’Universo per gli scienziati, del Creato per il papa e i suoi seguaci.
Ed ecco che la contraddizione è già risolta. Forse Gassendi non l’avrebbe nemmeno voluta stimolare in questa proporzione: ed infatti l’ha messa ai margini di una filosofia che ha riscosso, atomisticamente parlando, un grandissimo successo nel Seicento e nel Settecento, superando persino la fama del pensiero di Descartes ed arrivando sino a noi con immutata importanza. L’intuizione è lo stimolo conoscitivo che, parimenti al dubbio, agisce come motore non solo della storia umana, ma come leva di trasformazione del pensiero stesso.
MARCO SFERINI
27 ottobre 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria