Iniziare una rivoluzione è sempre molto più semplice di porvi un freno o di mettervi fine per convertirla nella cosiddetta “normalità” degli eventi. Lo sanno bene i russi, anche oggi, con l’eco ormai lontana dell’Ottobre, del grande capovolgimento che ne derivò quando si passò dallo Stato imperiale zarista allo Stato dei lavoratori e del sovetismo.
E lo sanno soprattutto oggi, perché non è solo con le rivoluzioni che facilità di principio e difficoltà di fine si materializzano nella complessità degli accadimenti che si susseguono in periodi di scombussolamento generale. Le guerre non sono certo da meno in questo caso.
Varcare una frontiera con carri armati, far volare i propri aerei e muovere la marina verso i porti nemici è, fatti i dovuti, accurati piani di battaglia, un altro di quei contesti in cui l’inizio e la fine sono molto, ma molto lontani fra loro.
Il conflitto in Ucraina l’ha dimostrato in questi primi sette mesi e ne darà conferma ancora per molto tempo, al di là della stessa fine ufficiale delle ostilità che, ci si augura, possa arrivare quanto prima.
Ma, al momento, i fattori scatenanti la guerra permangono tutti e, a ben vedere, i diversi fronti su cui si combatte tra Occidente e Russia, sempre, in prima istanza, sulla pelle del popolo ucraino e sul disagio globale che tutto questo comporta, si moltiplicano e non accennano a retrocedere nei differenti piani su cui si stratifica quella che, un po’ cinicamente, Ursula von der Leyen ha definito “una partita a poker“.
Il riferimento era ad una di queste complicazioni, prettamente economica e dalle vaste ricadute sociali: il costo dell’energia e, nello specifico, del gas. La riunione del G7 non ha portato nulla di buono in merito: si preannuncia una tendenza ormai consolidata volta a stabilire un tetto sul prezzo del gas russo, unitamente ad un sesto pacchetto di sanzioni contro Mosca che vorrebbe mettere in difficoltà Putin sull’approvvigionamento di risorse finanziarie proprio per il prosieguo della guerra.
Lo zar fa spallucce, Medvedev usa toni muscolosi e perentori su Twitter, mentre i cinesi si approvvigionano di gas da una Russia che non pare minimamente intimorita dalle minacce occidentali. Tattiche di guerra, indubbiamente, che si mescolano a minuziosi calcoli mercantilisti e di alta finanza.
Ma, da qualunque latitudine e longitudine terrestre si guardi il conflitto e tutte le sue implicazioni, quello che emerge dai sondaggi e dalle interviste fatte in alcuni paesi dell’Unione Europea (a cominciare dalla laica Francia, passando per una Germania sempre meno prospera e florida nella crescita del PIL) è la disperazione sociale.
Il timore (ma anche l’auspicio) che le rivolte popolari mettano giudizio allo scriteriato comportamento politico dei governi, alla prepotenza finanziaria, allo scontro imperialistico tra i blocchi che si contendono il dominio mondiale di aree del pianeta ancora tutte da spremere nel nome del profitto e della predominanza di una nazione sulle altre.
Se è vero che l’autunno sarà prudentemente messo in sicurezza con il richiamo al risparmio, al contenimento dell’uso del gas, abbassando le temperature casalinghe di un grado, accendendo i termosifoni una o due settimane dopo rispetto al solito e spegnendoli una o due settimane alla fine delle attività produttive e scolastiche in vista della prossima estate, rimane enorme come una guerra il problema dell’innalzamento di tutti gli altri costi.
Perché non sono soltanto le bollette di luce e gas a farla da padrone nell’esplosione dei conti aziendali, della pubblica amministrazione e di quelli domestici. I prezzi dei beni primari di consumo stanno aumentando di mese in mese, persino i giornali hanno ritoccato i loro prezzi, visto che la carta costa di più, che le rotative per farle girare hanno bisogno di corrente elettrica e che la distribuzione esige anch’essa delle riparazioni da economia di guerra.
Proprio questo è il problema: siamo dentro ad una economia di guerra, contenuta comunque in una economia di mercato. Perché nulla sfugge alla macchina capitalistico-liberista. Proprio nulla. E anche se il ministro Cingolani non fa menzione degli extra-profitti, al pari del governo in cui siede che non pensa minimamente di tassarli in misura tale da coprire parzialmente i costi della crisi italiana dentro la crisi continentale e globale, perfettamente in linea sono le disposizioni transnazionali sull’intangibilità degli esorbitanti utili fatti dalle grandi multinazionali.
La pandemia prima e la guerra poi hanno segnato l’estensione di un neo-pauperismo di massa, la ricalibratura di diritti sociali sempre meno tutelati e la protezione dei privilegi aziendali, dello scudamento da tassazioni valutate sempre indebite intromissioni dello Stato nel privato.
Il risultato di tutto questo è la compressione della domanda, l’innalzamento dell’inflazione a livelli vertiginosi e, quindi, una assolutamente attendibile e prevedibilissima espressione di disagio sociale su scala non solo italiana ed europea, ma veramente mondiale. Negli Stati Uniti d’America (fonti della Federal Reserve), il costo della vita sta aumentando a livelli che non si vedevano da oltre quarant’anni. I tassi di interesse vengono alzati e la borsa registra perdite un po’ in tutti i settori finanziari.
A soffrire sono in particolare i settori tecnologici, ma anche il mercato dell’auto non se la bassa bene. E’ l’industria propriamente intesa come tale, quella della fabbrica che produce pezzi di ricambio, assemblaggi di vario tipo (anche per mezzi militari…) ad essere sotto stress, nonostante l’effetto bellico, che potrebbe ingannare e far pensare ad un adattamento della produttività ai nuovi standard.
Le razioni del mercato sono sempre scomposte in questi casi. Ma, mentre i profitti sono comunque garantiti e non si è – almeno al momento – alle soglie di una crisi simile a quella del 2007-2008, la ripartizione delle sofferenze economiche si pretende che avvenga verso il basso, lasciando intatti i profitti, le rendite e qualunque altra forma e sostanza di proprietà imprenditoriale e finanziaria.
Per le forze politiche italiane, impegnate in una disarticolata e pasticciata campagna elettorale, si tratta di mettersi al riparo nella contesa dei favori della classe dirigente italiana e dell’osservatorio bancario europeo. Per il governo ancora in carica, invece, l’impresa è lasciare al prossimo esecutivo i nodi gordiani impossibili da sbrogliare, soprattutto dopo la presa di posizione del G7 sul tetto del gas russo.
In una certa qual misura, Draghi viene scavalcato nella formulazione della sua stessa proposta, avendo forse trascurato le esigenze globali di una economia in affanno, di una competizione tra poli capitalistici e imperialisti che vede da un lato l’asse euro-atlantico e dall’altro la sempre più consolidata, empatica e dialogante relazione commerciale tra Russia, Cina, Brasile, India e Sudafrica. I paesi BRICS, insomma.
La polarizzazione pare avere queste nuove caratteristiche e l’Europa pare, invece, non avere alcun ruolo fattivo in questa contesa mondiale. E’ il dramma di vecchie e nuove dipendenze economiche, politiche e militari: un colonialismo a tutto spiano, che nessuno vuole riconoscere come tale, che tutti pensano di poter particolarizzare, scindere nelle sue caratteristiche facendo finta di recuperare qualche percentuale di autonomia dall’impero americano, magari inoltrandosi nella nuova “via della seta” di dimaiana memoria.
La crisi, dunque, non ha come asse portante soltanto la questione del gas e della luce, ma un insieme di problematiche strutturali che il capitalismo liberista deve affrontare, in questo inizio di nuovo millennio, ripensandosi alla luce della sempre maggiore mancanza di materie prime, di uno sfruttamento del suolo, delle acque e dell’aria che non è imperituro e, ci si augura che possa essere così, dovendo affrontare una riorganizzazione del disagio e della critica sociale che abbia nel sindacato e in nuove forze organizzate di massa una sponda efficace.
La soluzione tanto sbandierata dei fondi del PNRR non è la soluzione ai problemi economici italiani, e tanto meno europei. Prima o poi la Germania dovrà affrontare il calo della ricchezza che già registra oggi e, con la minaccia russa già messa in pratica di serrata totale del gasdotto Gazprom 1, e la previsione di una risposta di massa alla imminente incidenza inflazionistica sulle vite di milioni e milioni di europei, si acuiranno sempre di più i cosiddetti “livelli di stabilità” delle politiche nazionali entro l’Unione Europea.
Non ci si augura il tanto peggio per il tanto meglio, tutt’altro. Si osserva solo, con profonda tristezza e con un senso di particolare pena, la dicotomia tra le promesse di tenuta dell’Occidente nonostante la guerra e le stime di crescita al ribasso fatte dell’OCSE o già messe nero su bianco mesi fa dal Fondo Monetario Internazionale.
La rivolta sociale è sempre più alle porte. Se non stiamo attenti, le destre la cavalcheranno con i peggiori istinti conservatori, fomentando ancora di più la saldatura tra reazione politica, regressione civile e protezione del privilegio liberista di una classe dirigente imprenditoriale italiana in mezzo alla bufera della guerra dei blocchi imperialisti. Lavoratori, precari, studenti, pensionati e quanti vivono e sopravvivono del proprio salario non possono essere lasciati in balia di tutto questo.
Perciò urge, col voto e oltre il voto, ridare all’Italia una vera Unione Popolare, un progetto che faccia di questo binomio una nuova cultura di massa, un nuovo campo ideologico in cui nell’anticapitalismo siano contenuti tutte le rivendicazioni sociali di cui oggi decine di milioni di italiani hanno urgente bisogno.
MARCO SFERINI
3 settembre 2022