La tentazione permanente di mettere in campo il revisionismo storico è per alcuni una vera e propria ossessione. Forse pure una ragione di vita. Ben poca cosa, si potrà dire. E’ vero. Ma tant’è, ogni tanto, spunta fuori qualcuno che mette insieme merda e cioccolato, scambiandoli, facendoli apparire la medesima cosa, affermando che se il cioccolato non puzza è semmai grazie agli escrementi che odorano invece di violette.
La trasformazione dei fatti storici in fatti legati ad una soggettivismo del tutto privo di riferimenti archivistici, fonti e studi che si intrecciano fra loro, è sempre una ghiotta occasione per gettare anche qualche disordinato e bislacco scompiglio in una politica italiana già di per sé intontita, frastornata dai tanti tribuni della plebe che tentano di irretire il maggior numero di sottoproletari possibili.
Quelli che si lasciano convincere sulla maledizione pressoché totale dei vaccini, del fatto che qualche potente organizzazione internazionale è pronta a iniettarci del mercurio nelle vene per surriscaldare col 5G la temperatura i nostri corpi e farci così morire. Di alta velocità internettiana? Di onde elettromagnetiche? Magari, in questo minestrone di scempiaggini, a volte, qualche critica è pure giusta; ma perde la sua iniziale forza dialettica e viene del tutto meno non appena i tribuni aprono sguaiatamente la bocca nelle piazze che convocano per essere ascoltati.
Così accade che, partendo da fatti storici legati ad una tremenda riproposizione nell’attualità di una repressione poliziesca che si accanisce contro la popolazione afroamericana degli Stati Uniti, la giusta rivendicazione dei “Blacks live matter” e dei nuovi tinteggiatori di statue di razzisti, colonialisti e soldati imperialisti rischi di venire a duro confronto con strampalate ricostruzioni antistoriche e veri e propri rigurgiti di revisionismo.
Forse per depotenziare il messaggio sociale, egualitario, antirazzista del movimento mondiale sorto dopo la morte di George Floyd. Forse per screditare persino chi ha riaperto un giusto dibattito sull’etica di chi ha avuto rapporti sessuali con una bambina di dodici anni, per giunta comperata come schiava, nonostante la contestualizzazione di tempi, modi, culture e altro ancora.
Un dibattito per nulla fuori luogo, soprattutto in tempi considerati sempre più moderni (presuntamente tali), laddove emerge una coscienza civile che dichiara quell’individuo un uomo spregevole, consegnato proprio alla Storia come tale perché nel tuo stesso istante di vita d’allora, c’era gente che ha rifiutato di arruolarsi volontaria nel Regio esercito italiano, nell’andare a combattere contro i nativi africani d’Abissinia e che aveva imparato la lezione illuministica sull’uguaglianza di diritti per tutti gli esseri umani, considerando quindi la schiavitù un abominio.
C’era, dunque, la possibilità di scegliere: così nella guerra di liberazione dal nazifascismo c’era la medesima possibilità per chi ha avuto tempo di poterla prendere e non finire immediatamente su un treno carico di prigionieri diretto nella Germania di Adolf Hitler.
Questo Paese ha statue innalzate a re che hanno spento il sogno risorgimentale di una Italia libera ed uguale, priva di corruzione e di ambizione: quell’Italia del popolo, magari anche un poco social-socialista come la volevano Ciceruacchio, Pisacane e pure Garibaldi, il nostro “Che Guevara“. Su di lui si abbatte l’anatema dei neoborbonici di oggi, di chi vorrebbe restaurare un Regno delle Due Sicilie con chissà quale discendente dei Borbone. Per ristabilire il legittimo governo abbattuto da una serie di circostanze in cui la Spedizione dei Mille fu l’elemento cardine che aiutò le tante contraddizioni politiche nazionali ed internazionali ad addivenire a compromessi per consentire l’unificazione del Paese e chiudere un mezzo secolo di lotte fratricide.
Se l’affermazione “Garibaldi, il nostro ‘Che Guevara’” vi è apparsa forte, azzardata, forse inopportuna, è perché, probabilmente, del Generale con la “gi” maiuscola avete letto quello che sostiene Wikipedia (nulla di male, ma non basta per sapere o, quanto meno, provare a capire chi era, come pensava e come agiva) e ascoltato dai banchi di scuola l’estrema sintesi che viene fatta in merito.
Non è una colpa. Lo è però pensare di dire che bisogna abbattere le statue di Garibaldi in Italia, soprattutto al Sud, per ristabilire la verità storica: che il Generale fu un invasore, un massone, un occupante, uno che ha regalato il Meridione d’Italia ai Savoia, uno che aveva pochi scrupoli e che non ha battuto ciglio sull’eccidio di Bronte e così via. Queste sono tutte affermazioni che si possono fare; così come si può dire che Mussolini ha fatto anche cose buone, che pure nel criminale programma dell’NSDAP di Hitler, nel “Mein Kampf” e nei discorsi dei gerarchi nazisti qualche proposta buona, in quanto soddisfacente i desiderata popolari c’era.
Rimangono enunciati quasi mitologici, consegnati alla tradizione del “sentito dire“, prigionieri di una forma di “luogo comune” che è il limbo della Storia, dove si oblia il particolare allontanando la lente della ricerca e del metodo di indagine pur pretendendo di averla sempre in mano.
Gli enunciati retorici, queste antinomie mai spiegate, simili alle frasi di circostanza da dirsi in ascensore per far trascorrere quei trenta secondo di ascesa o di discesa comune in un ristretto e imbarazzante spazio, inquinano però la verità storica e ridicolizzano tutta una serie di eventi che, se conosciuti a fondo, modificherebbero molto la vulgata popolare costruita sul semplificazionismo che scade, inevitabilmente (e volutamente), nel revisionismo più vuoto, banale e, per questo, becero.
Garibaldi è uomo ricco, come tutte e tutti noi, di contraddizioni fin dalla giovinezza. E sin da quando ascolta i sansimoniani che fanno rotta dall’Italia ad Istanbul, lui semplice marinaio e poi capitano di fregata rimane già affascinato dalla libertà che questi uomini ricercano. Una libertà universale, senza confini.
Non amo fare grandi paragoni storici: proprio perché di Storia si parla, si dovrebbero mantenere sempre le distanze tra il presente in cui viviamo e il passato in cui hanno vissuto i nostri antenati. Si rischia, altrimenti, di produrre false riproposizioni tanto degli eventi consegnati all’analisi e allo studio, quanto deformare la realtà stessa che ci attraversa giorno dopo giorno.
Ma non si può non fare un paragone simile, quando si assiste ad una vera e propria “narrazione tossica” prodotta da una commistione tra revisionismo e complicità politica. Proprio perché va ristabilito un parametro corretto di individuazione delle similitudini: identità perfette non se ne possono trovare quando si creano presupposti per nuove “vite parallele” che varchino la soglia delle più generazioni che si sono susseguite e che hanno visto mutare il mondo radicalmente.
Aveva già osato dirlo uno scrittore come Andrea Camilleri: Garibaldi è il nostro Che Guevara, seppur con tutti i limiti del tempo, con tutte le opportune differenze storiche e anche ideologiche che passano tra i due liberatori.
Garibaldi, nonostante quanto si possa pensare, dire e scrivere, è prima di tutto un combattente per la libertà di tutti i popoli. La storiografia lo classificherà etichettandolo, a posteriori, come l'”eroe dei due mondi“, del Vecchio mondo europeo e di quello nuovo americano. Ma Garibaldi è molto di più: non si batte soltanto per l’indipendenza del Rio Grande do Sul o per l’Uruguay, la prima, repubblica minacciata dall’Impero del Brasile, il secondo minacciato da Buenos Aires. Il “corsaro” di allora è un senza patria in tutto e per tutto: è iscritto alla “Giovine Italia” di Mazzini, è da sempre stato repubblicano, è anticlericale, ma mette la sua spada al servizio di qualunque causa lui percepisca come causa che tende ad aggiungere un tassello di libertà per qualunque essere umano, per qualunque popolo.
Garibaldi è tanto “patriota” quanto “cosmopolita“. Probabilmente se la Storia fosse andata al contrario, se l’Italia fosse stata fatta partendo dal Sud, contro un Nord arretrato e tiranneggiato da Re Bomba o da inetti comandanti e signorotti locali, si sarebbe mosso contro Vittorio Emanuele II. Così come partecipò alla Prima, alla Seconda e alla Terza guerra d’Indipendenza italiane sempre al fianco del Regio esercito ma sempre con sue truppe ben distinte. Dai “Cacciatori delle Alpi” all'”Esercito meridionale” delle Camicie rosse che si compongono e si scompongono disordinatamente: ora a Bezzecca, ora a Digione, in soccorso di quel popolo francese che egli difende dall’invasione prussiana di Bismarck.
Provare a dipingere il Generale come un uomo che ha depredato il Sud d’Italia, che ne ha tradito la rivoluzione (che non vi sarebbe affatto stata senza la Spedizione dei Mille), come un mercenario (che peraltro rifiutò sempre qualunque prebenda gli veniva concessa dai governi che serviva, comprese quelle dei Savoia appena divenuti “re d’Italia“) è, per l’appunto, fare opera di revisionismo storico, piegando la Storia ad un esclusivo utilizzo meramente politico, facendo torto pure alla politica stessa.
Così, i torbidisti e i complottisti di ogni epoca ritornano, ci provano, tentano di avvelenare le coscienze, di insinuare tanti finti dubbi. Magari lo fossero: stimolerebbero la conoscenza. Invece sono soltanto illazioni che rischiano di creare stereotipi e falsi contorni anti-storici che finiscono per sostituire la verità dei fatti con la falsità degli obiettivi ideologici di revanchismi che vanno vissuti semplicemente alla stregua di gesti folkloristici. Niente di più.
Le statue di Garibaldi stanno bene dove stanno. Semmai andrebbero smantellati tutti i luoghi dove si celebrano i criminali fascisti della Seconda guerra mondiale, i golpisti dello stesso colore del dopoguerra e tutti coloro che hanno distrutto o tentato di distruggere la libertà del popolo italiano: una libertà formale, non certo sostanziale, ma che ha consentito – partendo proprio dalla Costituzione della Repubblica Romana del 1849, difesa da Garibaldi insieme a uomini così diversi da lui come Luciano Manara – di realizzare molte conquiste anche sociali oltre che civili.
Per questo, se volete parlare male di Garibaldi, fatelo pure. Ma almeno prima documentatevi. Altrimenti rischiate soltanto di ripetere stanche geremiadi sul “come si stava meglio prima“… E questo lo dicono soprattutto i neofascisti: sia di una certa età, sia giovani. Perché la retorica è facile da acquisire e da diffondere. Più difficile è cercare di capire, di dimostrare di avere un cervello pensante, critico e capace di studiare, elaborare e considerare i fatti da più punti di vista.
Fare questo sforzo può sembrare poca cosa singolarmente. Dovrebbe essere la scuola pubblica a formare menti critiche e coscientemente tali. Ma agire anche solitariamente non è inutile: serve a proteggersi, a schermare la propria mente dagli attacchi dei ducetti di turno, dai tribuni gialli, arancioni, verdi, neri…
Se avete deciso di non pensare, allora scegliete pure il vostro colore.
MARCO SFERINI
23 giugno 2020
foto tratta da Wikimedia Commons