L’Africa al bivio. Quale sarà il suo futuro in un mondo che declama l’impegno per la fine dei combustibili fossili? La visione ottimistica prevede: una proliferazione di tecnologie pulite su piccola e media scala in grado di rispondere alle necessità quotidiane e di alleviare la fatica di vivere; foreste, torbiere e mangrovie protette come tanti panda e fonte di sopravvivenza dignitosa; sistemi agroalimentari nutrienti e resistenti alle alee climatiche.
Visione pessimistica: un acutizzarsi degli eventi atmosferici estremi nel continente; foreste ed ecosistemi utilizzati come false soluzioni di mercato (offsets) per compensare i ritardi dei paesi ricchi nella fuoriuscita dal fossile; l’Africa come luogo di approvvigionamento per il gas; e perfino un neo-estrattivismo, relativo ai minerali necessari alla green economy post-fossile.
L’African Economic Outlook 2022 della Banca africana di sviluppo ha calcolato che per «la transizione energetica giusta e il sostegno alla resilienza climatica» il continente avrà bisogno di 1.600 miliardi di dollari fra il 2020 e il 2030; finora ne ha ricevuti meno di 20 (altro che Piano Marshall), mentre a causa del caos climatico perde ogni anno fra il 5 e il 15% del Pil.
Tutto questo considerando, sempre secondo il rapporto, che l’Africa nel suo insieme «è responsabile di un mero 3% delle emissioni storicamente accumulate a livello mondiale»; per un confronto, il solo settore militare globale emette almeno il 5,5% dei gas serra, denuncia il rapporto Estimating the military’s global greenhouse gas emissions dell’Osservatorio conflitti e ambiente.
Il dossier «verde petrolio», pubblicato dalla rivista Nigrizia in vista della Conferenza Onu sul clima Cop27, si sofferma sulle attuali contraddizioni nell’approccio internazionale all’energia in Africa. Un continente che dipende ancora molto dalle fonti fossili, per i consumi interni e l’export. La Repubblica democratica del Congo (Rdc) a fine luglio ha messo all’asta i diritti di sfruttamento di petrolio e gas per 27 blocchi, alcuni dei quali nella foresta e a ridosso del parco Virunga, santuario degli ultimi gorilla di montagna.
E se il greggio africano in futuro conoscerà incertezze, per i costi dello sfruttamento e la mancata esplorazione di nuovi giacimenti, la corsa al gas alternativo a quello russo vede una serie di nuovi accordi europei con paesi africani. Ha avuto molta risonanza la prima nave di Gnl – gas naturale liquefatto – in arrivo dagli impianti Eni in Mozambico. La corsa all’oro fossile non si ferma.
L’energia pulita e accessibile, obiettivo n.7 dei Sustainable Development Goals dell’Onu, da raggiungere entro il vicinissimo 2030, è ancora un miraggio per centinaia di milioni di africani. Nel 2007 Greenpeace dedicò alle rinnovabili per i paesi poveri una edizione del rapporto Energy (R)evolution. Un accesso stabile all’elettricità manca a due africani su cinque, secondo l’Agenzia internazionale dell’energia (Iea).
Per la quale l’Africa ha il 60% delle migliori risorse solari ma totalizza per ora solo l’1% della capacità di generazione solare; eppure, per le aree rurali, questa è la fonte di elettricità più economica e pratica. Alcune delle infrastrutture già realizzate – centrali fotovoltaiche, parchi eolici, impianti idroelettrici – sono su larga o larghissima scala e in genere in partenariato con compagnie internazionali (le elenca un video di New Africa Channel): Marocco, Sudafrica, Ghana, Egitto, Botswana, Congo Brazzaville, Rdc. Si punta molto sul potenziale di idrogeno verde.
Ma… più green economy uguale più estrattivismo? Secondo The New Colonialism, un rapporto del movimento War on Want di qualche anno fa, 101 compagnie (in maggioranza britanniche) quotate alla Borsa di Londra avevano operazioni minerarie in 37 paesi dell’Africa subsahariana, dall’oro al platino, di diamanti al rame, e poi ai combustibili fossili.
E la tanto promessa green economy mondiale, per produrre batterie, motori elettrici, pannelli, turbine etc… ha uno scheletro nell’armadio: il suo grande bisogno di risorse minerali, abbondanti in alcune aree dell’Africa, soprattutto il Congo Rdc: rame, cobalto, nickel, litio. E’ dunque corsa fra compagnie occidentali e cinesi. I paesi africani cercheranno di incamerare quote maggiori di raffinazione e trasformazione, per ricavare valore aggiunto. Ma i finanziamenti esteri scarseggiano, e soprattutto rimangono il pesante danno ambientale, lo sfruttamento della manodopera anche infantile, la violazione dei diritti umani.
Invece su scala locale, mille tecnologie appropriate, economiche ed ecologiche possono risparmiare risorse e fatica «illuminando» la vita anche fuori dalla rete.
Dispositivi in parte auto costruibili (ormai amati anche dagli occidentali fai-da-te) servono a illuminare, conservare alimenti, cucinare, potabilizzare l’acqua, pomparla, costruire… La rete Solar Cookers International (presente alla Cop27) da decenni divulga e finanzia cucine, forni, essiccatori, per trattare il cibo e depurare l’acqua risparmiando in legna da ardere, salvando così alberi ed emissioni, evitando fatica nella raccolta manuale e il mortale affumicamento indoor.
Un’alternativa sono le «stufette migliorate», ormai molto diffuse. Utilissimi i kit solari fuori-rete per la piccola illuminazione, i tricicli per il trasporto merci, le pompe manuali non affaticanti che rispolverano antichi metodi estrattivi. Curioso ed essenziale il frigorifero senza corrente, uno sviluppo del «frigo africano» lanciato 30 anni fa dall’insegnante ghanese Mohammed Bah Abba.
E poi gli strumenti per la potabilizzazione a livello di comunità ideati del gruppo Antenna–scienza per tutti, che si dedica anche allo sviluppo di batterie non inquinanti ed economiche. Progetti utili anche a stimolare la creatività dei giovani nelle aree rurali e a sostenere sistemi agroalimentari nutrienti, meno vulnerabili, adatti al futuro. Pochi i fondi pubblici destinati a questi progetti replicabili.
Quanto al ruolo di alberi e foreste, forse riprende slancio il progetto della «Grande muraglia verde», iniziato nel 2007. Oltre venti Stati africani vogliono creare entro il 2030 una barriera di alberi (una «meraviglia mondiale», precisa il sito), lungo il continente africano da ovest a est, per bloccare la desertificazione, creare milioni di ettari di nuovi habitat naturali e dare lavoro a milioni di persone.
Un po’ il sogno del presidente rivoluzionario burkinabè Thomas Sankara negli anni 1980: «Ogni villaggio un bosco». In compenso, altrove in Africa le antiche foreste sono sotto pressione per l’espandersi delle attività estrattive, per il prelievo di legname e per la pratica agricola del taglia e brucia.
Da anni opera come meccanismo internazionale la Central Africa Forest Initiative (Cafi), dedicata alla seconda foresta primaria del mondo dopo quella amazzonica. In grado di assorbire il 4% delle emissioni di gas serra annue mondiali, l’ecosistema ha perso due milioni di ettari fra il 2015 e il 2020, mentre 1,5 milioni sono degradati. Conta 10.000 specie di piante e animali; 40 milioni di persone vi trovano habitat, cibo, principi medicinali, energia.
La foresta è oggetto di diversi progetti Redd+, fondi assegnati in cambio della riduzione delle emissioni grazie alla riduzione della deforestazione, ma che sembrano funzionare solo molto parzialmente. E viene criticato da più parti il semplicistico mercato delle indulgenze, i carbon offsets, con cui i grandi inquinatori compensano le proprie emissioni finanziando piantumazioni di alberi.
PAOLO PIGOZZI
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