Fuori la guerra dalla storia. Intervista a Stefano Galieni

Verso il dodicesimo congresso di Rifondazione Comunista
Stefano Galieni

Un congresso è il momento più alto nella vita di un partito, dove si confrontano, e talvolta si scontrano, visioni e pratiche politiche diverse. In queste settimane le iscritte e gli iscritti a Rifondazione Comunista sono chiamati ad esprimersi tra due documenti. Il primo, “Fuori la guerra dalla storia”, vede tra i principali sostenitori STEFANO GALIENI coordinatore della segreteria nazionale e uno dei due coordinatori del WG Migration della Sinistra Europea, il secondo, “No alla guerra, per un mondo nuovo”, ha tra i maggiori rappresentanti Dmitrij Palagi della segreteria nazionale nonché Consigliere comunale a Firenze. Galieni e Palagi accettano di incontrarsi, per una volta virtualmente, sulle pagine de La sinistra quotidiana, rispondendo alle stesse domande.

L’Italia è passata dall’avere il Partito Comunista più grande dell’Occidente ad una manciata di piccoli partiti che assieme non raggiungono l’1%. La dico male: cosa è andato storto?

Più che altro la prendi molto alla lontana. Siamo ancora nel cono d’ombra della sconfitta storica che si è consumata progressivamente dagli anni ’80 con l’affermazione progressiva del progetto politico del neoliberismo e a cui si sono aggiunti gli effetti dell’implosione dell’URSS e dei paesi del “socialismo di Stato” che ha dato il via a una grande operazione ideologica egemonica sulla morte del comunismo e del socialismo. C’è stata una grande ritirata della sinistra in tutta Europa. La lotta di classe l’ha vinta il capitale in questa fase storica e la sua egemonia non è mai stata così totalizzante. C’è stata una grande trasformazione dell’economia, della società e della politica, che non riguarda solo l’Italia e che è iniziata da almeno 40 anni. Siamo a questo punto dopo essere passati attraverso la “modernizzazione” craxiana, il berlusconismo in quanto mutazione antropologica del Paese, la rivolta antipolitica che da Tangentopoli in poi ha dato una base di consenso di massa allo svuotamento progressivo della democrazia parlamentare e al passaggio al bipolarismo e alla concentrazione del potere negli esecutivi producendo una crescente impermeabilità del Palazzo alle istanze sociali che a sua volta produce disaffezione e astensionismo. Il tutto nel quadro di un’Unione Europea che dal trattato di Maastricht in poi detta un’agenda ordoliberista. Il PCI ha cambiato nome e ragione sociale nel 1991 e noi di Rifondazione Comunista abbiamo rappresentato una sacca di resistenza all’avanzare, nell’alternarsi dei governi, delle politiche neoliberiste. Questa grande trasformazione ha ridotto anche la forza conflittuale e militante dei sindacati, non solo per mutazione globale dell’organizzazione e della divisione internazionale del lavoro, ma anche per il peso del condizionamento da parte degli ex-comunisti sulla CGIL nei lunghi anni della concertazione. È cambiata la composizione sociale del Paese, la classe lavoratrice è frammentata, si sono rotti gran parte dei vincoli solidaristici che avevano caratterizzato non solo il movimento operaio ma ogni forma aggregativa, nelle scuole come nei territori, sono venute a mancare visioni ideali e culture unificanti delle classi subalterne. Le leggi elettorali sono state scritte per imporre un bipolarismo forzato che tende a cancellare dalla rappresentanza nelle istituzioni e dalla rappresentazione dei media le presenze fastidiose, portatrici di un punto di vista non compatibile, antagonista nei confronti del neoliberismo e del sistema di guerra occidentale. I cablo di Wikileaks raccontano quanto l’ambasciata USA tifasse per la nascita del PD di Veltroni con la sua vocazione maggioritaria volta a liberarsi di una sinistra come la nostra. Poi, e qui arrivo credo al cuore della tua domanda, le motivazioni soggettive. Non siamo riusciti – e quanto dico vale non solo per Rifondazione – a costruire una forza sociale, culturale e politica in grado di rompere la gabbia del bipolarismo che ci ha stritolati nè di reggere l’ondata populista che avremmo potuto anticipare ma che ha colto i gruppi dirigenti di allora alla sprovvista. Le scissioni hanno fatto il resto. Nè abbiamo analizzato dal punto di vista teorico alcuni elementi della realtà profondamente mutata, spesso spinti dall’emergenza di trovare risposte immediate ma senza avere una visione del futuro, senza poter avere che sempre più scarse proposte da avanzare alle classi di cui ci sentiamo parte e di cui vorremmo promuovere le istanze. In assenza della forza soggettiva per ricostruire una cultura di massa alternativa al pensiero unico e alla religione neoliberista, rischiamo di rinchiuderci nei nostri recinti che, col passare degli anni, sono divenuti sempre meno abitati. Incapaci di innescare scintille adeguate ad un fuoco duraturo. Abbiamo preferito e continuiamo a preferire il conflitto interno, spesso fondato su ragioni non intellegibili a chi è fuori dalle nostre bolle, quando invece ci sarebbe un bisogno estremo di tornare tanto a studiare il presente quanto ad agire non semplicemente per offrire risposte immediate ma per proporre una vera alternativa di società, nostra, non fondata su una semplice e incomprensibile definizione di equidistanza dal quadro politico che porta alcune/i di noi a dire che oggi PD e FdI sono uguali. Anche questo approccio binario, figlio di una subalternità al presente che ha introiettato l’americanizzazione del sistema, è insufficiente a comprendere la complessità del mondo. Un mondo in cui c’è tanto il quartiere in cui si vive quanto il conflitto in corso in un altro angolo del pianeta. Un approccio binario che ci ha portato, troppo spesso, a divenire pigri spettatori, se non tifosi, ma mai capaci di comprendere appieno quanto ci accade intorno. Da ultimo mi pare opportuna una nota. Il PCI era, nei periodi della sua massima espansione, portatore di una propria cultura e si caratterizzava per una profonda diversità pluralistica al proprio interno. Lo stesso mondo articolato delle nuove sinistre, produceva elaborazione. In tante e tanti si contribuiva ad una egemonia che oggi è andata smarrita. E fra i limiti di Rifondazione Comunista c’è quello di non essere stata capace fino in fondo di far contaminare tali culture senza riprodurre scontri correntizi e scissioni all’infinito. Questo non ha aiutato a costruire un progetto credibile di socialismo del XXI secolo. Prevale la tendenza a contarsi più che a ragionare collettivamente ed è invece quello di cui c’è bisogno.

Rifondazione ha sostenuto direttamente il secondo Governo Prodi, da allora ha cambiato tante liste (solo per citare le elezioni politiche: La sinistra, l’Arcobaleno, Rivoluzione Civile, Potere al Popolo, Unione Popolare), ma non è più tornata in Parlamento. È stata quell’unica, e peraltro breve, parentesi governativa a segnare le sorti del PRC?

Ha pesato certamente e Rifondazione è deflagrata su quel passaggio. Penso che avessero ragione quelli tra i nostri parlamentari come Ramon Mantovani e Maurizio Acerbo che proposero di togliere la fiducia al governo quando fu tradito l’impegno a superare la precarietà del lavoro contenuto nel programma concordato. Chi oggi nl nostro partito fa l’estremista, allora invece era molto prudente. È stata un’esperienza gestita molto male dal complesso del gruppo dirigente di allora e che ha avuto conseguenze catastrofiche. In Spagna i nostri compagni hanno gestito negli ultimi anni molto meglio questo passaggio portando a casa qualche risultato concreto per le classi popolari e bloccando per ora lo sfondamento da parte della destra. Però dal 2008 sono passati tanti anni e non possiamo attribuire la nostra crisi solo a quei 20 mesi di governo. La spaccatura e la scissione nel 2008 erano per esempio davvero inevitabili? Si fece tutto il possibile per evitarla? Dopo la caduta del secondo governo Prodi, l’opinione pubblica e anche il nostro elettorato ci hanno contemporaneamente considerati sia i responsabili – sbagliando per disinformazione – di tale crisi, sia quelli che, restando in quel governo, si erano contaminati. Poi per 16 anni abbiamo con coerenza e generosità cercato di ricostruire un’alternativa di sistema, un polo in grado di aggregare chi non si riconosceva nel bipolarismo e nell’alternanza tra due poli neoliberisti. Sicuramente la nostra è stata la scelta giusta perché non potevamo essere complici di un PD che è stato per anni il più agguerrito partito neoliberista. Non ci siamo riusciti e ne siamo usciti assai indeboliti. Sicuramente ci sono ragioni oggettive. La logica soverchiante del bipolarismo col voto utile ci ha sicuramente stritolato, la presunta rivoluzione del Movimento 5 Stelle ci ha tolto ogni spazio per anni. Non sempre una posizione giusta si traduce in vittorie. Bisogna però anche riflettere sui limiti della nostra azione e delle nostre scelte in questi 16 anni. Il pregio del documento 1 è che lo fa con onestà intellettuale invece di ripetere esortazioni volontaristiche che rimuovono la realtà. Se non si nominano i problemi non si risolvono. Si finisce inevitabilmente a parlare del presente. Una posizione giusta può diventare un dannoso arroccamento settario se non si adegua ai mutamenti di fase. La nostra ragione sociale e la nostra identità non possono isterilirsi nel ripetere il mantra “mai col PD”. Dobbiamo contribuire alla costruzione di fronti di lotta contro la guerra, l’attacco alla Costituzione, l’impoverimento della maggior parte della società e la distruzione di ogni residuo di welfare, per una reale riconversione ecologica, per la difesa del lavoro e del salario, per il diritto ad un futuro, contro le discriminazioni di classe, genere e razza. Sui contenuti vanno cercate, trovate, realizzate le convergenze possibili a partire dai contenuti ripoliticizzando la società italiana. Questi contenuti sono la base per definire, quando occorre, relazioni politiche, accordi, alleanze o scelte di radicale estraneità. Rifondazione non si deve isolare. C’è bisogno dell’autonomia di un Partito della Rifondazione Comunista che non può avere né la linea di PAP né quella di AVS, né settario né subalterno, ma che lavori per costruire un campo dell’alternativa a partir dai livelli locali.

Il congresso si svolge in un clima di guerra, la “terza guerra mondiale a tappe” come l’ha definita Papa Francesco. Ucraina, Russia, Palestina, Libano, Siria, per non parlare delle ignorate guerre in Sud Sudan e in Centrafrica. Secondo te perché non si sviluppa in Europa, e in Italia in particolare, un forte movimento pacifista? Sembra che l’unica contrarietà alla guerra, in particolare sul fronte ucraino, provenga da destra.

In primo luogo perché la guerra in Ucraina l’hanno sostenuta in Europa anche il centrosinistra e i Verdi. Anche settori della sinistra radicale, negli Usa e in Europa, hanno fatto propria la narrazione atlantista. Il voto di Carola Rackete al parlamento europeo è emblematico di una posizione assai diffusa. Persino il partito della Sinistra Europea si è diviso e ha subito la scissione di alcuni partiti del nord Europa favorevoli al sostegno militare all’Ucraina negando la gravità del ruolo svolto dalla NATO. In Francia il Front Popolare ha la posizione del PD. L’Italia è il paese con l’opinione pubblica più pacifista grazie alla nostra tradizione antifascista, di sinistra e cattolica, a Papa Francesco e anche al fatto che c’è stato chi a sinistra come la nostra area, l’ANPI, la Cgil, intellettuali, giornalisti ha contrastato la narrazione bellicista dominante. Ricordo che all’inizio del conflitto c’eravamo solo noi in piazza, persino M5S era guerrafondaio con il ministro Di Maio che faceva da megafono. Va detto però che sindacato e associazionismo si è avuta la sensazione che uno scontro frontale col PD non l’abbiano voluto fare e non si è premuto fino in fondo sulle mobilitazioni su un tema divisivo anche all’interno delle organizzazioni. Anche AVS ha tenuto un profilo basso per non rompere le scatole all’alleato PD. Credo che possiamo rivendicare come Rifondazione Comunista sia una posizione netta fin dall’inizio e sia l’impegno costante, con tutta Unione Popolare e poi con la lista Pace Terra Dignità, per il no alla guerra che per noi è la questione discriminante imprescindibile. Dobbiamo costruire un movimento delle dimensioni di quello che si oppose in Italia e in Europa all’istallazione degli euromissili negli anni ’80 e a quello contro la guerra in Iraq per fermare la deriva militarista del blocco occidentale che pensa di riaffermare il proprio dominio planetario con le bombe. La scelta del riarmo in Europa si traduce in tagli enormi allo stato sociale e in crisi della democrazia. La nostra priorità è quella di costruire il più ampio fronte pacifista per fermare questa deriva. In Italia e in Europa dobbiamo affermare la necessità di una politica di pace e l’opposizione alle politiche imperialiste e colonialiste della NATO, degli Stati Uniti e dell’Unione Europea. La complicità dell’Occidente con il genocidio a Gaza è la dimostrazione che quella delle cosiddette guerre umanitarie è solo propaganda a stelle e strisce. Siamo nel pieno di uno scontro intercapitalistico planetario in cui i popoli e i civili sono carne da macello. C’è bisogno di un pacifismo che parli a tutte le coscienze e al tempo stesso di un aggiornato antimperialismo e internazionalismo per leggere nella complessità dei conflitti e anche descrivere come i costi del complesso militare-industriale e delle guerre li pagano le masse popolari come già sta avvenendo. Abbiamo il dovere di costruire la più larga mobilitazione per fermare il genocidio a Gaza e l’attacco a Kobane e al Rojava curdo da parte dei mercenari jihadisti e dell’esercito di Erdogan.

Se fossi stato un elettore statunitense per chi avresti votato?

Non sono un cittadino degli Stati Uniti e posso evitare di pormi la domanda. So che comuniste come Angela Davis hanno dichiarato che avrebbero votato per Kamala Harris contro Trump pur mantenendo la propria critica radicale di una esponente dell’establishment capitalista e militarista USA. I candidati presidenziali alternativi che hanno posizioni simili alle nostre hanno preso percentuali assai risicate come siamo ultimamente abituati in Italia. Nei singoli collegi per il congresso fortunatamente ci sono stati candidate/i socialisti e della classe lavoratrice che con i democratici o da indipendenti sono riusciti a farcela a vincere e questo è un segnale positivo. Più che decidere cosa votare negli USA dovremmo ragionare su come fermare la tendenza che ci conduce a un sistema politico americanizzato, cioè senza una sinistra autonoma e forte. Se trovo impossibile che una sinistra effettivamente tale possa identificarsi con i Democratici USA, penso che sia ancor più folle simpatizzare per l’ultradestra di un miliardario razzista e fascistoide come Donald Trump. Sono entrambe manifestazioni della sconfitta della sinistra di ispirazione comunista e socialista, conseguenza della perdita di un punto di vista autonomo. Le elezioni Usa ci ricordano che quello degli Stati Uniti non è un modello di democrazia, ma un sistema oligarchico dominato dal grande capitale. Noam Chomsky dice che è un modello più intelligente di partito unico perché dà la sensazione che ci sia una dialettica e la possibilità di scegliere. Naturalmente Chomsky riconosce che vi sono delle differenze e di solito ha dato indicazione di voto per i democratici che pure critica ma precisando che sulle questioni strategiche non ci sono purtroppo grandi differenze. Credo che in Italia si debba fare di tutto per contrastare la deriva verso quel modello e dare centralità alla lotta per il ritorno al proporzionale che è stato sempre il sistema elettorale sostenuto dai movimenti socialisti in Europa e in Italia perché è quello che rende le istituzioni più permeabili alle domande sociali e consente a una sinistra espressione delle classi lavoratrici di conquistare una rappresentanza indipendente. Abbiamo molto da imparare dalla sinistra radicale e dai movimenti degli Stati Uniti perché hanno dovuto affrontare per più di un secolo una situazione che per noi è relativamente nuova. Ma deve essere chiaro che quel sistema politico oligarchico dominato dalla classe miliardaria, dalla finanza e dalle corporations che nega persino diritti elementari come l’assistenza sanitaria non può essere il modello per l’Italia e l’Europa.

Oggi in Italia governa Giorgia Meloni e più di un nostalgico fascista. Gli episodi di “rigurgiti”, più o meno espliciti, sono quotidiani. Come si risponde alla richiesta di “unità antifascista” che proviene da larga parte di quello che era l’elettorato di Rifondazione?

Certo credo che sia sbagliato un atteggiamento settario che rifiuti a priori il problema dell’unità contro un governo fascioleghista che diventerà ancor più agguerrito con Trump e Musk alla Casa Bianca. Bisogna sfidare il PD e gli altri partiti sui temi concreti non ritirarsi in un Aventino settario. Tanta parte dell’elettorato di sinistra la pensa come noi sui temi concreti, anzi direi sulle questioni sociali e la pace le nostre proposte sono maggioritarie nel paese. Siamo una minoranza ma, come cerca di proporre il nostro documento congressuale, non dobbiamo ragionare in termini minoritari. Dobbiamo lanciare una proposta al paese a partire dalla costruzione di un’opposizione sociale e politica antiliberista, ambientalista e pacifista. Noi siamo il più coerente partito antifascista e lottiamo da sempre per l’attuazione della Costituzione. Si all’unità antifascista ma per fare cosa? Per proporre l’agenda Draghi, Fornero, Cottarelli? Solo un programma di netta rottura con i governi degli ultimi decenni potrebbe riportare chi oggi non vota come chi, pur provenendo da fasce sociali deboli, vota la destra, a guardare con interesse ad una sinistra reale. Io non credo, come affermano alcuni anche nel ns partito, che Schlein e Meloni siano la stessa cosa e non lo crede neanche buona parte del nostro elettorato e delle persone con cui parliamo. Chi ha subito o subisce, anche a livello locale, il governo dei fascisti 2.0 comprende come questi stiano riportando il Paese verso l’autoritarismo dei ricchi ma i contenuti su cui si deve poter basare un antifascismo popolare non possono essere quelli dei governi antipopolari e neoliberisti del PD. Dobbiamo rispondere a chi chiede unità antifascista che noi siamo d’accordo ma che nella Costituzione c’è il ripudio della guerra e quindi non si può fare l’unità se si vota come la destra per la guerra e per aumentare le spese militari. L’antifascismo e la Resistenza proponevano una reale alternativa di società non semplicemente di tornare alle ingiustizie della società prefascista liberale e questa visione fu poi riassunta nella nostra Costituzione. L’unica unità credibile è quella che riprende la via maestra dell’attuazione della Costituzione, fondata su diritti sociali e civili, sul contrasto alla guerra, allo strapotere del capitale finanziario, capace di radicare e far divenire elementi di governo temi come la difesa dei diritti di chi lavora e dei salari, il sostegno a chi è più vulnerabile, il transfemminismo e la convivenza paritaria con chi giunge da altri paesi, l’abbandono di politiche di riarmo e la ripresa dell’investimento sul welfare, il rilancio del ruolo del pubblico, tanto nella produzione, che nel controllo dei settori strategici che nella cultura, sanità, scuola eccetera. Altre verniciature di antifascismo che poi portano nuove aggregazioni di centro sinistra liberista a fare le stesse scelte di fondo della destra, ma con un linguaggio e modalità più edulcorate non ci interessano. Per questo diciamo che siamo contro il campo largo. Nei prossimi anni, a partire dal referendum a primavera contro jobs act e autonomia differenziata, dobbiamo costruire un campo dell’alternativa.

Elettoralmente sembra che fuori da una coalizione non ci sia spazio e dentro quello spazio, magari male, è già stato occupato. Come conquistarlo col PD più a sinistra dalla sua fondazione, il M5S entrato nella Sinistra Europea, i buoni risultati di Alleanza Verdi Sinistra e Potere al Popolo che, all’interno di numeri modestissimi, sembra più attrattiva nei confronti delle generazioni più giovani?

Il PD è stato di fatto per anni il nostro avversario principale perché era al governo e si proponeva come la forza più aggressivamente neoliberista. È stato anche il partito dell’oltranzismo atlantista guerrafondaio. Renzi e Calenda oggi sono malvisti dal grosso dell’elettorato di sinistra ma ricordo che Letta e Gentiloni non scherzavano per nulla e neanche i diessini che si vantavano di aver fatto più privatizzazioni della Thatcher. Si pensi a Fassino filo Marchionne contro la Fiom e filo Israele anche mentre Netanyahu fa un genocidio. L’elezione di Elly Schlein ha segnato certo una discontinuità e dopo tanti anni abbiamo ricominciato a ritrovarci nelle stesse manifestazioni e a condividere campagne di opposizione. È positivo che Schlein abbia imposto di cambiare linea su autonomia differenziata e che sostenga il referendum della Cgil contro il jobs act che è stata una delle tante “riforme” antipopolari” del PD. Non siamo però di fronte a un mutamento dell’impianto programmatico né della classe dirigente del partito e sarebbe sciocco non vedere le contraddizioni. Si critica Meloni per l’austerità ma nella Commissione Europea che ha proposto il Patto di Stabilità c’era Gentiloni. E poi come si possono sventolare le bandiere della pace se non si vota contro l’invio delle armi in Ucraina. Quelle del PD sono le contraddizioni di tutte le formazioni del Partito Socialista Europeo a cui si aggiunge il fatto che buona parte della classe dirigente pre-Schlein è assimilabile alle posizioni non certo di sinistra di Macron. Sarebbe settario e ottuso negare però la discontinuità rappresentata dalla vittoria nelle primarie di una compagna che era uscita dal PD ai tempi di Renzi e ha anche collaborato con noi. Siamo ben lieti dell’evoluzione progressista e pacifista del M5S, che, non dimentichiamolo, ha governato con la Lega di Salvini e con Draghi. AVS ha oggi un profilo interessante ma subalterno – l’alleanza a qualsiasi costo – con quello che ormai chiamano “campo largo”. Ci sono comuni dove coalizioni che abbiamo fatto con M5S e a volte anche con AVS hanno persino vinto. Da questo punto di vista trovo inaccettabili i veti di Pap. Non escludo che si possano creare coalizioni persino col PD in determinate situazioni. In Liguria credo sia stato un errore non partecipare alla coalizione per cacciare la destra dopo inchiesta Toti mentre in Emilia Romagna è stato giusto presentare una proposta alternativa al PD bonacciniano di Pascale. Invece di ragionare in termini di spazio cerchiamo di ragionare dei compiti che deve darsi un partito comunista. Dovremmo aver imparato, anche dai nostri errori, che l’appartenenza politica e il consenso elettorale, un tempo abbastanza statici e radicati, oggi sono più fluidi in Italia come nel resto d’Europa. Contribuire a far emergere le contraddizioni in questo campo ad oggi basato più su un’unità a prescindere che su contenuti reali è il nostro compito di comuniste/i altro che tornare nel centro sinistra per mendicare uno strapuntino istituzionale o, specularmente, chiudersi nell’immutabilità del quadro politico reiterando stancamente e in materia velleitaria la proposta di un terzo polo che saremmo poi noi, Pap e Pci. Purtroppo dopo le sconfitte subite questa proposta non convince nessuno perché appare purtroppo puramente testimoniale anzi anche dannosa perché percepita come un rifiuto a priori a contribuire alla sconfitta della destra fascioleghista. Noi dobbiamo, con i nostri contenuti ricominciare a parlare al paese e ricostruire la connessione sentimentale sia con le classi popolari che con i settori di elettorato di sinistra che cercano un’alternativa. Rifondazione Comunista non deve essere subalterna né a formazioni settarie né a quelle che praticano l’alleanza subalterna col PD persino laddove è davvero impresentabile o fa scelte che sinistra e ambientalisti non possono che contrastare. Bisogna fare politica e avanzare una proposta di alternativa che corrisponda a bisogni politici assai diffusi. Bisogna farlo essendo i più convinti sostenitori della necessità di costruire larghi fronti di opposizione e in relazione con i sindacati, l’ANPI, l’ARCI, il mondo ambientalista, femminista, per i diritti Lgbtqi+ e antirazzista. Resto convinto che questo compito, faticoso e impegnativo, certamente ambizioso, possa essere ancora alla nostra portata. Fra un contenitore vuoto con la scritta “campo largo” e contenuti, cioè bisogni e aspettative che non trovano rappresentanza, c’è uno spazio non da colmare ma da costruire con il lavoro sociale e l’iniziativa politica. Intanto però dobbiamo con la massima unità lavorare per bloccare i progetti eversivi del governo e le sue leggi liberticide e antisociali.

Oltre alle cose emerse in questa intervista, quale è un punto qualificante del documento congressuale che sostieni?

Quello che è contenuto nel titolo del documento. “Fuori la guerra dalla storia”, lo slogan che ci ha lasciato in eredità Lidia Menapace. La lotta contro la guerra è il nostro compito principale in un momento storico che ricorda molto il 1914. La pace non si traduce in una sommatoria di “cessate il fuoco”, ma in una trasformazione radicale non solo delle relazioni internazionali ma anche del sistema economico che genera la guerra e la catastrofe ecologica. La vera pace è giustizia sociale e ambientale, più giusta ripartizione delle risorse, attenzione popolare al futuro del pianeta, denuclearizzazione di ogni Stato e superamento di alleanze politico militari, basate solo sulla volontà di dominio. Bandire la guerra si traduce, come nella tradizione dei movimenti socialisti e comunisti, in un mutamento radicale dello stato di cose esistenti, in una rivoluzione che è sociale, economica e anche culturale, che investe la vita privata e pubblica, che prova a ricomporre relazioni e a prospettare una visione planetaria e non autoritaria della vita nel pianeta. Il nostro documento, facendo un bilancio anche impietoso del nostro passato, senza nascondersi limiti e errori, vuole immaginare una visione del futuro che riaccenda istanze di cambiamento radicale capaci di tradursi in azione politica e sociale non separate. Il nostro “campo” non è quello largo si chiama socialismo del XXI secolo e ha poco a che fare con il politicismo a breve termine. L’altro elemento è la proposta di antifascismo popolare: solo con una rottura netta con le politiche neoliberiste dei governi anche di centrosinistra degli ultimi trenta anni si costruisce un’alternativa efficace alla destra. Segnalo che i fatti stanno dando ragione alla nostra lunga resistenza controcorrente. I prossimi referendum contro jobs act e autonomia differenziata, per il diritto alla cittadinanza costituiscono una palese sconfessione del neoliberismo targato PD che ha aperto la strada alla destra. Se persino un sicario dell’economia come Draghi ammette che i bassi salari sono diventati un problema per l’economia europea possiamo rivendicare con orgoglio di essere stati il partito che ha sempre contrastato le politiche macroeconomiche europee a partire da Maastricht, lo scippo della scala mobile, la precarizzazione del lavoro, la rinuncia all’intervento pubblico in economia, lo smantellamento del welfare. Il documento credo che abbia il pregio di proporre una linea comunista sulle principali questioni epocali con un approccio forte, non rinunciatario, non subalterno. C’è molta storia ma anche sguardo sul presente. Citiamo Marx, Gramsci o Lenin ma proprio per questo ci occupiamo dell’analisi dei cambiamenti della composizione di classe e della società, dell’impatto dell’intelligenza artificiale (neanche citata nell’altro documento) o delle radici economiche della tendenza alla guerra.

È ancora attuale il comunismo?

È inattuale ma ancora più urgente e necessario. È inattuale perché come scrisse Fredric Jameson, poi rilanciato da Mark Fisher e da Zizek, oggi è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo. Ne consegue che le soggettività anticapitaliste non hanno le dimensioni di massa che hanno avuto dalla fine dell’ottocento agli anni ’80 del Novecento. Ma il fallimento del capitalismo neoliberista, anche nei suoi approcci fintamente progressisti, è sotto gli occhi di chiunque. Quando il capitalismo precipita il mondo nella guerra, quando si producono centinaia di milioni di sfollati e rifugiati, quando una parte consistente della popolazione del pianeta è in condizioni di denutrizione e un’altra non è comunque in grado di poter aspirare ad un miglioramento della qualità della propria vita, il “Proletari di tutto il mondo unitevi” è ancora più impellente. Certo dobbiamo imparare dagli errori, anche atroci che hanno caratterizzato la storia dei movimenti e dei partiti comunisti, evitare come la peste le forme di autoritarismo e guardare anche con maggior attenzione a quanto avviene fuori dai confini di quello che, da bravi colonialisti di “sinistra”, consideriamo il crogiolo delle idee innovative. Cos’altro ci dice il tentativo di confederalismo democratico messo in atto nei cantoni del Rojava e guardato con diffidenza quando non direttamente attaccato militarmente tanto dal jihadismo oscurantista che da uno Stato della Nato come la Turchia e per nulla sostenuto dalle altre potenze regionali e mondiali? Sono embrioni di nuovo socialismo libertario che, in quanto tali, fanno paura, potrebbero contaminare, rompere non solo i dogmi del pensiero occidentale ma persino produrre processi di imitazione incontrollabili. Un esempio, ma vale la pena, per rispondere in maniera completa alla domanda, aggiungere una locuzione, “o il comunismo di cui si ha bisogno è capace di riprendere le intuizioni di Rosa Luxemburg, del pensiero libertario, di decolonizzarsi profondamente, o ripeterà se stesso, condannandoci a soluzioni che non avranno futuro. Dobbiamo ricostruire noi la storia globale e nazionale del socialismo/comunismo per smontare la narrazione anticomunista dominante che è il principale veicolo di passivizzazione della nostra epoca. Ma abbiamo anche bisogno di fare del socialismo/comunismo una cosa nuova, la risposta alle contraddizioni del nostro tempo. Come abbiamo scritto nel documento 1 la rifondazione comunista è il compito necessario della nostra epoca, in Italia e nel mondo. Il nostro comunismo democratico, femminista, ecologista, intersezionale è in sintonia con le correnti di pensiero e di movimento più avanzate sul pianeta. Il successo del film su Berlinguer, come anni fa quello su Peppino Impastato, dovrebbe incoraggiarci ad essere meno timidi. In Italia la parola comunista evoca una grande tradizione e non si capisce perché il primo partito del paese possa sfoggiare il simbolo del neofascismo mentre noi dovremmo tenere nascosta la bandiera rossa con la falce e martello che è sventolata in tutte le pagine migliori della nostra storia. Su questo nel cercare di costruire l’unità della sinistra di alternativa negli ultimi 16 anni forse si è ceduto troppo scomparendo dall’immaginario della gran massa della popolazione perdendo visibilità tra le giovani generazioni e nelle classi popolari lasciando spazio a fenomeni da baraccone che hanno trasformato il comunismo in una caricatura rozzobruna che piace alla destra.

Ultimamente scrivo più di cinema che di politica e mi piacerebbe chiudere con una domanda che non c’entra nulla col Congresso di Rifondazione. Film preferito?

La domanda più difficile a cui dare una risposta. Ogni stagione, a volte in ogni momento della giornata, capita di pensare ad un film, come ad un libro o ad un’opera d’arte come la più significativa. Oggi ti direi Apocalipse Now, per la straordinaria capacità di coniugare una guerra conosciuta come quella combattuta in Vietnam con il valore di un libro capolavoro, scritto da un europeo colonialista come “Cuore di Tenebra”. Nel film il Colonnello Kurtz, interpretato da Marlon Brando, dice “buttate la bomba, sterminateli tutti”, siamo ancora lì, come dimostra Gaza. Magari domani ti darei un’altra risposta perché… “Domani è un altro giorno”.

MARCO RAVERA

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