L’ateismo è, a differenza dell’agnosticismo, una corrente plurimillenaria del pensiero umano che, espressamente nell’etimo della parola, dichiara la possibilità di fare a meno degli dei o di un dio. Politeismo e monoteismo, se considerati in relazione all’essere “senza dio“, risultano qualitativamente poco rilevanti nel confronto vicendevole: nel momento in cui non senti il bisogno di avere una fede, diviene di scarsa importanza il fatto se l’esistente sia riferibili alla volontà di una moltitudine di esseri iperuranici e supremi oppure ad uno soltanto.
Benché l’ateismo non sia propriamente, come viene sovente spacciato, una “negazione di Dio” (qui con la maiuscola perché ci riferiamo a quello che ci è connaturato dalla nascita con riti, celebrazioni e culture proprie della nostra cosiddetta “civiltà occidentale“), ma una assenza dello stesso essere supremo, nel corso dei millenni è stato piuttosto facile banalizzarne le differenti posizioni espresse da filosofi tanto laici quanto religiosi.
Si è venuta creando una dicotomia granitica, una contrapposizione indefessa che tra credenti e non credenti, alimentata in particolare da una presa di posizione dogmatica, necessaria all’inspiegabilità di tutta una serie di verità rivelate che, per poter sussistere in quanto tali, ed essendo oggettivamente prive di un supporto razionale, non potevano che essere supportate e suffragate dall’emanzione diretta dalla divinità e, quindi, parte del grande mistero che la riguarda e la riguarderà sempre.
In un convegno sulla figura di monsignor Georges Lemaître, tra i primi a teorizzare l’inizio dell’Universo con l’esplosione denominata “Big Bang” (quindi dell’espansione della materia nell’esistente prima di essa, pensabile come un vuoto che si è andato riempiendo di elementi fondamentali, poi di particelle, poi di energia che ha dato vita a ciò che vediamo nella porzione pure enorme di spazio esplorabile) papa Francesco ha affermato: «Il suo cammino di fede lo conduce alla consapevolezza che creazione e big-bang sono due realtà distinte, e che il Dio in cui crede non può essere un oggetto facilmente categorizzabile dalla ragione umana, ma è il “Dio nascosto”, che rimane sempre in una dimensione di mistero, non totalmente comprensibile».
Si tratta di una affermazione molto interessante perché, fuori da ogni tentazione meramente dogmatica, pur nell’ambito dei rapporti tra fede e scienza non sempre idilliaci, traduce chiaramente in un concetto semplice l’imperscrutabilità della ragione prima dell’esistenza del tutto. Questo Dio che non si rivela all’essere autocosciente umano, capace di comprendere l’Universo (o almeno indotto alla tentazione di poterlo fare), è quindi il mistero medesimo che viene indagato. Tanto dai fedeli che vorrebbero conoscerlo sempre meglio (ovviamente partendo dalla catechesi cattolica o, più in generale, cristiana), quanto da agnostici e atei.
Qui sta una delle differenze, quanto meno strutturali, tra agnosticismo e ateismo: il primo è un atteggiamento di dubitalibità, di inconoscibilità del divino affidata al fatto che non esiste una certezza oggettiva dell’esistenza di Dio. Il secondo, invece, proclama, non senza a volte degli accenti di sicumera non dissimili da quelli dei credenti indefessi, che si può fare a meno di Dio nella vivibilità dell’esistenza, nella stessa ricerca di un senso della medesima entro l’inconoscibile avventura intergalattica dell’universalità di un cosmo di cui non può federe la fine o i confini.
Recentemente Michel-Yves Bolloré e Olivier Bonnassies hanno dato alle stampe un voluminoso testo divulgativo, oltre seicento pagine, assegnandogli il titolo di grande impatto: «Dio. La scienza, le prove. L’alba di una rivoluzione» (Sonda editrice, 2024). Vale la pena leggerlo, non fosse altro per i continui stimoli che regala nel raffrontare il proprio agnosticismo, il proprio ateismo o anche la propria fede con una vastissima categorizzazione di sapere multidisciplinare che tenta di fare dell’autoconvincimento dell’esistenza di Dio un prodotto della scienza.
Ad essere sinceri, c’è bisogno di stimoli come questo, non banalizzanti, scritti con una semplicità di linguaggio davvero rara e senza una grande presunzione (nonostante il titolo…): lo scopo non è indottrinare, ma discutere di come proprio la scienza abbia, negli ultimi secoli, prodotto tutta una serie di analisi dettagliate della materia e del suo sviluppo complesso che, secondo gli autori, sarebbero tante prove dell’esistenza razionale di Dio. Bisogna fare attenzione all’aggettivo rivolto alla Ragione.
Non si chiede di fare un atto di fede, ma di avvicinarsi alla possibilità che Dio esista mediante l’osservazione della Natura. Ed è questa la parte del volume che, decisamente, risulta più convincente: perché un po’ tutti ci meravigliamo, ci sorprendiamo del fatto che, dalla polvere delle stelle sia potuta venire fuori la geometrica perfezione delle infiorescenze, bagnate dalla luce del sole, splendenti nei loro fantastici colori. Così come noi stessi, tutti gli esseri senzienti: la materia non è soltanto qualcosa di tangibile, ma ha in sé anche l’essenza della vita fatta di emozioni, desideri, sentimenti, pulsioni.
Se facciamo affidamento solamente alla Ragione, risulta piuttosto difficile ipotizzare l’esistenza di Dio come spiegazione dell’esistente, dell’Universo nella sua straordinaria, caotica, violenta rete di relazioni tra galassie, pianeti, stelle, comete, silenzio assoluto rotto soltanto dalla nostra immaginazione fantascientifica di battaglie con mondi super intelligenti capaci di oltrepassare le enormi distanze che ci separano da loro, di venirci a visitare e magari ad invadere non si sa bene per quale motivo. Siccome abbiamo una gran tendenza imperialista noi umani, dobbiamo per forza attribuirla ad altre civiltà extraterrestri…
Ogni cosa deve somigliarci ad immagine e somiglianza. Anche Dio. Lo raffiguriamo da millenni come un padre dalla lunga barba bianca, comunque anziano perché onnisciente, quindi assolutamente saggio e amorevole nei nostri confronti. Ma la Bibbia, che pure gli autori del testo citato non mancano di riportare sovente nei tanti esempi che dimostrerebbero – sempre nel confronto tra fede, scienza e razionalità – l’esistenza “logica” di Dio, è anche quel libro “sacro” in cui l’esistenza dell’Inferno è quasi un contraltare della nuova traduzione cristiana del Padre in rapporto ai suoi figli.
L’antropomorfizzazione dell’immagine di Dio è stata per lo più dettata da un bisogno probabilmente inconscio di sentirsi davvero creature di un entità superiore, onnisciente, onnipresente e onnipotente: un contraltare dell’uomo che, invece, è parzialmente tale tanto nei limiti oggettivi della pure straordinaria razionalità che esprime, così come è limitato nella materialità dei suoi confini spaziali e nel movimento. Una miriade di considerazioni sull’entità divina sono possibili, ovviamente, se si dà per scontata la sua esistenza.
A questo proposito, Michel-Yves Bolloré e Olivier Bonnassies fanno un buon servizio alla critica-dialettica su tutti questi temi, nel momento in cui inducono il lettore a valutare senza pregiudizi tanto le verità di fede quanto quelle della scienza. Non c’è dubbio sul fatto che le prime siano affidate alla credenza di ciascuno, mentre le seconde siano universalmente dimostrabili. Almeno quelle che sono tali, visto che la procedibilità sulla via del dubbio è il nutrimento della scienza stessa. Non c’è, dunque, nulla di certo fino a che non è oggettivamente dato come tale: evidente, chiaro, incontrovertibile e riproponibile da chiunque.
Se vogliamo, la scienza è molto più agnostica che atea. E questo perché l’inconoscibilità dell’esistente (e quindi del Dio che i creazionisti mettono alla sommità del tutto e principio primo di ogni cosa) non è qualcosa di assolutamente insuperabile. Non è una lotta persa a priori, ma è anzi, proprio per questa sua inarrivabilità finale, uno stimolo continuo a cercare nuovi frammenti di conoscenza sull’essenza, sulle potenzialità, sulle cause e sugli effetti insiti nella materia. Qui, nella parte più propriamente “naturalistica“, dove si fa chiaro riferimento alla biologia, vi si trova, almeno per un agnostico come il sottoscritto, il punto più alto della fascinazione del dubbio.
Se si razionalizza, con tutti i limiti della nostra mente (che pure è frutto della complessità evolutiva dell’esistente), non si potrà fare a meno di rilevare come la straordinarietà della vita sulla Terra sia il fenomeno primo dell’interrogarsi continuamente sul come mai, date certamente determinate concause di fattori cosmologici, fisici ed ovviamente biologici, dalla materialità dell’universo, apparentemente inerte natura morta fatta di enormi sassi rotolanti nello spazio infinito, sia potuta venire fuori l’autocoscienza di sé stessi e del tutto.
Precisiamo: per autocoscienza si intende la capacità della coscienza stessa di noi stessi e non di conoscenza assoluta tanto nostra quanto di ciò che ci circonda. L’essere in questo universo così come siamo è il frutto di una evoluzione che, tuttavia, per quanto possa spiegare la concatenazione degli eventi naturali non risolve la questione fondamentale affidata ad un fatidico, irrisolvibile: perché? Il punto interrogativo pesa come un macigno sulle spalle di una scienza che, questo sì, lo sente tale se si ritiene l’unica interprete dell’essere, dell’esistere, delle due facoltà “complicate” dalla consapevolezza dell’esistenza e del fatto che esistono dei limiti.
Il limite della morte, tuttavia, per quanto ci riguardi in termini di non-esistenza, non è annichilimento, distruzione: è una parte del processo continuo di trasformazione della materia stessa. Lavoisier insegna. Vi è in questa caratteristica “democratica” dell’Universo una sorta di richiamo eretico dell’origenismo, per cui l’uguaglianza delle anime, delle creature tutte, persino di quelle demoniache, è l’apocatastatica volontà divina. Ovvio, come si è già sottolineato, si può discutere di tutto ciò se si ammette o se si ipotizza l’esistenza di Dio. Lo si può fare anche, come in questo scritto, se ci si appassiona all’argomento e vi si specula, filosoficamente parlando, benevolmente sopra.
Non c’è una conclusione in queste righe ultime. Proprio perché non c’è nulla da concludere. Dio può esistere a prescindere dalla nostra necessità di esserne convinti, così pure rispetto alla nostra stessa essenza ed esistenza sulla Terra e nell’Universo. Il pregevole libro di Bolloré e Bonnassies non è la nuova bibbia delle certezze dell’esistenza scientifica e razionale di Dio. Si può affidare alla “logica“, ma pensare Dio non significhi che esista: quanto meno nelle forme e nella sostanza di cui lo hanno – appunto – ritenuto gli esseri umani.
Gli altri esseri viventi, gli animali non umani, esistono, vivono, hanno anche una forma di coscienza perché sono senzienti, ma nel non porsi (probabilmente, perché non sappiamo quanto e come “pensino” cani, gatti, capre, conigli, uccelli, pesci, maiali, eccetera) il problema dell’esistenza o meno di Dio non impedisce loro di avere una vita serena (ammesso che noi animali umani gliela permettiamo…).
Non c’è libro che tenga, non c’è ricerca scientifica afferente alla religiosità che possa sostanziare una nuova serie di “prove dell’esistenza” di Dio. La meraviglia innanzi allo spettacolo della perfezione della natura, del rapporto costante tra cause ed effetti fa optare per una “intelligenza” creatrice o, quanto meno, ad una stessa ma “ordinatrice“. Non è infatti escluso che l’esistente esista da sempre, che sia “oltre il tempo“, addirittura “senza tempo“. Questo, infatti, è una dimensione che viviamo noi nella spazialità dei nostri movimenti e della rotazione terrestre attorno al Sole.
Tutte le certezze che possiamo darci sull’esistenza del Dio proclamato dalle verità rivelate (da noi umani per primi…) sono costrutti mentali che non possono dimostrare, alla fine, nulla. Ma il dubbio rimane ed è il più bel regalo che, se esiste, il “Dio nascosto” di Bergoglio ci ha fatto. Si può discutere se per verificare la nostra fede o meno (poi perché mai dovrebbe farlo, Dio, visto che ha tutto compreso in sé stesso e in suo potere?), ma allora verrebbe sempre meno l’idea della divinità paternamente o maternamente buona.
Il dubbio è la ragione di un’esistenza: il traguardo insuperabile a cui si anela di continuo. Se avessimo qualunque certezza, la nostra esistenza avrebbe indubbiamente un altro significato rispetto a quella mancanza dello stesso a cui possiamo, volta per volta, dare un piccolo contributo di solvibilità. Il ricorso alla medoticità cartesiana del dubbio come predecessore della verità è un altro modo per venire a patti tra la consapevolezza della non conoscibilità assoluta dell’esistente unita alla percezione individuale della logicità dell’esistenza di Dio.
La verità, di per sé (e qui si è d’accordo con Cartesio), è inafferrabile: tutt’al più è confutazione dell’errore o, se vogliamo dirla platonicamente, è “assenza” di errore, così come il male è assenza di bene.
Così si rimane in un certo qual modo fedeli ad un agnosticismo non di maniera, nemmeno di coerenza, ma semplicemente per quel che è e dovrebbe essere veramente: una sospensione del giudizio nel nome dell’impossibilità tanto di prove certe a carico quanto di altrettante a discarico dell’imputato: l’Essere. Se supremo o semplicemente ontolgico, che dire…: unicuique suum.
MARCO SFERINI
2 marzo 2025
foto: screenshot ed elaborazione propria