SECONDA PARTE
Il 1888 fu un anno particolarmente denso per la Germania. In quei dodici mesi si alternarono a capo del Paese gli unici tre imperatori della storia tedesca: Guglielmo I, Federico III e Guglielmo II. Tutti e tre ebbero come cancelliere Otto von Bismarck che come cantava Rino Gaetano “realizza l’unità germanica e si annette mezza Europa”. Tutti e tre si chiamavano rigorosamente Friedrich Wilhelm, come il regista di Nosferatu, nato alla fine di quell’intenso anno, il 28 dicembre. Il giorno prima era, invece, nata Thea von Harbou, sceneggiatrice fondamentale per il cinema tedesco tra le due guerre. Ebbe un lungo legame affettivo e artistico con Fritz Lang, ma scrisse film importanti anche per Murnau.
IL CAMPO DEL DIAVOLO
In concomitanza con Nosferatu, infatti, il regista lavorò ad un dramma rurale. La produzione, curata da Sascha Goron (1891-1981) per la Deulig Film, casa di produzione cinematografica fondata dal futuro ministro di Hitler Alfred Hugenberg, affidò la sceneggiatura proprio a Thea von Harbou. Nacque Der brennende Acker (La terra che brucia) nelle sale il 9 marzo 1922, cinque giorni dopo la prima di Nosferatu.
Il vecchio contadino Rog (Werner Krauss), accudito dal figlio Peter (Eugen Klöpfer), muore senza riuscire a vedere il più giovane Johannes (Vladimir Gajdarov), ormai distratto dalla mondanità e dai soldi della promessa sposa Gerda (Lya De Putti). Johannes lascia così fratello e fattoria e si fa assumere come segretario dal padre di Gerda, il Conte Rudenberg (Eduard von Winterstein) sposato in seconde nozze con la bella Helga (Stella Arbenina). Il nobile è ossessionato da uno scavo che sta effettuando in un suo terreno soprannominato “il campo del Diavolo” per via di un drammatico incendio in cui perse la vita un suo antenato. Da allora, assunta una fama funesta, in quel luogo nessuno vuole più passare (nemmeno la carrozza che portava Johannes dal padre), non vi crescono ne alberi, ne erba, sorge solo una cappella votiva. Nel frattempo la relazione tra Johannes e Gerda va avanti, ma quando il giovane viene a sapere che sotto “il campo del Diavolo” c’è il petrolio e che il Conte, prossimo alla morte, intende lasciare tutte le sue ricchezze alla figlia e quel terreno alla moglie Helga, le dichiara il suo amore. Il Conte, che ha ancora poche settimane di vita, ignaro di tutto da il beneplacito alla relazione, nella disperazione della figlia Gerda che accetta di sposare Ludwig von Lellewel (Alfred Abel). Mentre Johannes è in città per trovare finanziamenti per le trivellazioni, Helga, che non sa del petrolio e si sente prigioniera di quell’eredità, vende a Peter per una modesta cifra “il campo del Diavolo”. Quando Johannes torna nasce un aspro confronto che porta la donna a scoprire che il giovane non l’ha mai amata, ma che era solo interessato al petrolio. Stracciato il contratto di vendita con Peter, Helga inizia a vagare per i campi innevati e si suicida in un torrente. Il suo corpo viene trovato per caso e portato a casa di Peter. Gerda, nuovamente respinta, decide di vendicarsi e da fuoco al pozzo petrolifero che esplode sotto gli occhi increduli dei contadini. Johannes, che progressivamente si è reso conto dei suoi torti, pentito torna nella fattoria paterna dove viene riaccolto dal fratello Peter e da Maria (Grete Diercks) una giovane contadina da sempre innamorata di lui.
Un dramma in sei atti, forte e poetico, che sottolinea, anche attraverso la condizione psicologica dei personaggi, le differenze di classe e la conseguente suddivisione del lavoro. Due gli assoluti protagonisti: Johannes, interpretato dall’attore russo Vladimir Gajdarov (nel 1940 nominato Artista del popolo dell’Unione Sovietica), che disprezza il mondo contadino da cui proviene e “gioca con la vita delle persone per raggiungere i suoi propositi”, e la natura che, come in altre opere di Murnau, “recita” al fianco degli attori.
Considerato perduto Der brennende Acker venne ritrovato e identificato solo nel 1978 dallo storico Vittorio Martinelli nella Cineteca di Milano. Martinelli scovò una copia sottotitolata Il campo del diavolo, con didascalie in italiano, che apparteneva alla collezione privata di un sacerdote che amava proiettare vecchie pellicole negli ospedali psichiatrici lombardi. Der brennende Acker, completato con altre sequenze ritrovate a Mosca, è stato restaurato e presentato in Giappone l’11 settembre del 2003 nel corso della “Filmretrospektive Fritz Lang und Friedrich Wilhelm Murnau”.
PHANTOM
Dopo Nosferatu Murnau aveva catturato l’attenzione di critici e specialisti, ma non quella del pubblico. La sua fama era, in qualche modo, oscurata dagli sceneggiatori che avevano firmato i suoi film: Robert Wiene, Hans Janowitz, Carl Mayer e, in ultimo, Thea von Harbou autrice “sentimentale e pretenziosa” come la definì il “Der Kinematograph”.
La sceneggiatrice scrisse per il regista anche il successivo Phantom (Fantasma) tratto dal romanzo del Premio Nobel per la Letteratura Gerhart Hauptmann. Le riprese si svolsero nell’agosto del 1922 negli studi della Bioscop. L’uscita del film venne programmata per il sessantesimo compleanno del drammaturgo tedesco e uscì nelle sale dal 13 novembre dello stesso anno.
Lorenz Lubota (Alfred Abel, forse un po’ vecchio per la parte) è un umile impiegato comunale che vive con la madre (Frida Richard), il fratello Hugo (Hans Heinrich von Twardowski) e la sorella Melanie (Aud Egede-Nissen), ma sogna di diventare un grande poeta. Un giorno viene investito dalla carrozza di Veronika Harlan (Lya de Putti), figlia di un ricco commerciante, che da allora non riesce più a dimenticare. Lorenz, alla ricerca della donna quasi come fosse un fantasma, ignora le attenzioni di Marie Starke (Lil Dagover), la figlia del rilegatore (Karl Etlinger) che vorrebbe pubblicare le sue opere, e va alla deriva in un mondo immaginario e surreale fatto di sogni e incubi. Trascura la famiglia, viene respinto e umiliato dai genitori della ragazza (Adolf Klein e Olga Engl), e infine è anche licenziato. Un giorno in una bettola conosce Melitta (Lya de Putti) una prostituta che assomiglia a Veronika. Si consola sperando di dimenticare il suo “fantasma”, ma l’avida Melitta pretende un tenore di vita molto alto. Lorenz spende così tutto il prestito chiesto alla ricca zia Schwabe (Grete Berger) per la pubblicazione delle sue poesie, in regali e abiti, per poi finire nelle mani del losco Wigottschinski (Anton Edthofer), amante e protettore della sorella. Schwabe, cinica usuraia, ma legata al nipote, va dalla madre di Lorenz, caduta nella disperazione per il comportamento del figlio e per la dubbia morale dell’altra figlia Melanie, che si prostituisce per guadagnare, e trova la lettera di licenziamento. La donna decide così di convocare il nipote chiedendo la restituzione del prestito entro tre giorni, pena una denuncia alla polizia. Rassegnato Lorenz viene coinvolto nuovamente da Wigottschinski in un furto proprio a casa della ricca zia che, accortasi dell’intrusione, viene uccisa da Wigottschinski. Anche Lorenz è arrestato. Il giorno del suo rilascio all’uscita dal carcere ad attenderlo c’è Marie che, in una casa nuova, gli fa ripercorrere la sua storia.
Una “storia di colpa e pentimento in equilibrio tra rappresentazione realistica e incursione nel fantastico” (Mereghetti) raccontata con un lungo flashback. Presente, come spesso nel cinema espressionista, l’uso della sovrimpressione e il tema del doppio, declinato insolitamente al femminile al punto che in molti considerano Phantom un anticipatore di Vertigo (La donna che visse due volte) di Alfred Hitchcock.
Memorabile la sequenza in cui Lorenz attraversa le strade desolate del paese con le case che sembrano crollargli addosso e le ombre dei tetti che lo inseguono nella fuga, all’epoca considerata tra le più belle del cinema tedesco. Come ricordò lo scenografo Hermann Warm: “Il lato destro della strada era falso. I frontoni a timpano delle case erano fatti di compensato e montati su rotaie cosicché potessero essere mossi sempre più velocemente. Inoltre, dietro tutto ciò, c’era una rampa con archi molto poderosi in modo che le case movibili potevano gettare le loro ombre sull’altro lato della strada dove gli edifici erano fissi e inondati di livida luce lunare. In tal modo riuscimmo a far credere che le ombre delle case inseguissero Lubota mentre correva dietro il carro”.
Per il poeta e critico Bela Balasz: “Phantom è la storia di una passione spirituale. Una follia si trasforma in destino, un sogno invade la realtà, lo stato d’animo di un attimo spazza via come un uragano un’intera esistenza. È una visione tedesca”. Una visione che rifletteva la situazione del piccolo borghese dopo la guerra e la Rivoluzione di novembre del 1919, che poi, nonostante le simpatie di Lenin, tanto “rivoluzione” non fu. I socialdemocratici, se si escludono poche riforme sociali, si dimostrarono incapaci di spodestare i grossi proprietari terrieri, gli industriali, i generali e, come se non bastasse, si appoggiarono ai violenti Freikorps che il 15 gennaio 1919 assassinarono Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht della Spartakusbund, la Lega spartachista.
L’ESPULSIONE
Il cinema, nel frattempo, stava crescendo, andando oltre l’Espressionismo che aveva mostrato volutamente la realtà in maniera distorta, e che fu capace di anticipare, in qualche misura, l’incubo del Nazismo. In quella incredibile stagione cinematografica d’avanguardia, infatti, si erano affacciati anche il Kammerspielfilm, letteralmente “film da camera”, e più tardi La nuova oggettività, talvolta chiamato Realismo psicologico, che, sebbene con tecniche cinematografiche diverse, raccontarono la vita di eccessi e disperazione della Repubblica di Weimar. Maestri in questo furono Lupu Pick (Sylvester) e Georg Wilhelm Pabst (La via senza gioia, Lulù o Il vaso di Pandora, Diario di una donna perduta), ma anche Murnau lasciò il suo inconfondibile segno.
Nel 1923 Thea von Harbou adattò per il grande schermo “Die Austreibung” dramma di Carl Hauptmann fratello maggiore del più noto Gerhart. Prodotto dalla Decla-Bioscop e girato nei luoghi reali del romanzo, il 23 ottobre 1923 uscì Die Austreibung (L’espulsione).
Il giovane contadino Steyer (Eugen Klöpfer) vive con i genitori (Carl Goetz e Ilka Grüning), la figlia Aenne (Lucie Mannheim) e la seconda moglie Ludmilla (Aud Egede Nissen) nel Riesengebirge, i Monti dei Giganti. Ludmilla lo ha sposato solo per convenienza e lo tradisce sfacciatamente col cacciatore Hunter Lauer (Wilhelm Dieterle) e quando Steyer li scopre, la donna finge che l’interesse dell’uomo sia in realtà rivolto ad Aenne, avuta dalla prima moglie. Ingannato, ma fiducioso Steyer va a ballare con la moglie e ubriaco vende ad un prezzo stracciato la sua proprietà al cacciatore nella speranza di concludere il matrimonio della figlia. Quando si rende conto è troppo tardi: Ludmilla è scappata con Lauer, il podere è stato venduto e i genitori stanno lasciando la casa. Steyer ha perso tutto in una notte.
Die Austreibung, purtroppo perduto, completa con Marizza e Der brennende Acker un’ideale trilogia Kammerspielfilm di argomento rusticano-rurale, che sviluppa “il tema centrale della fedeltà alla terra, del vincolo rigeneratore con l’ambiente naturale, garante dell’integrità degli affetti” (Tone) facendo affiorare da una parte l’onestà e l’innocenza delle tradizioni patriarcali legate a religione e terra, dall’altra l’infedeltà e la trasgressione.
LE FINANZE DEL GRANDUCA
Più innovativo e sperimentale fu il successivo film di Murnau, ancora una volta scritto da Thea von Harbou, Die Finanzen des Großherzogs (Finanze del granduca) tratto dal racconto omonimo dello svedese Frank Heller. Fu di fatto un film su commissione, cosa mai amata dal regista, prodotto dalla UFA (Universum Film AG), che aveva acquistato la Decla-Bioscop ed era diventata la più grande casa di produzione in Germania, diretta da Erich Pommer. Il produttore aveva una grande considerazione per Murnau e aveva a disposizione ingenti capitali che il regista sfruttò eccentricamente appieno. Fece lunghi soggiorni con la troupe in quella che diventò la Jugoslavia, effettuò riprese a Ragusa, Spalato e a Cattaro in Montenegro; poi nel Grand Hotel Imperial di Rab (Arbe in italiano, dove anni dopo danzò divinamente Rod Riffler, maestro di Lea Deutsch). Fece, inoltre, costruire un palazzo negli studi Babelsberg e ottenne la disponibilità della “Vila Velebita” la nave scuola del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, di un aereo e di una corazzata. Le riprese durarono dal maggio al giugno 1923. Il 7 gennaio del 1924 uscì Die Finanzen des Großherzogs.
Nell’immaginario paese di Abacco, che si affaccia sul Mediterraneo, il pigro granduca Don Roman (Harry Liedtke) deve affrontare la grave crisi finanziaria che ha travolto il paese, sempre più legato all’usuraio Marcowitz (Guido Herzfeld). Nonostante l’incredulità del fido ministro Don Esteban Paqueno (Adolphe Engers) il granduca rifiuta di vendere la sua proprietà, dove è stato scoperto un giacimento di zolfo, all’affarista Bekker (Hermann Vallentin), perché lui e i suoi sudditi devono vivere una vita di ozio. Bekker non ci sta e ingaggia tre loschi figuri (Georg August Koch, Hans Hermann Schaufuß e Max Schreck, il protagonista di Nosferatu) per incitare la rivolta e attentare alla vita del granduca. Parallelamente si muove anche l’avventuriero Philipp Collins (Alfred Abel) che acquista a prezzo stracciato i titoli di stato di Abacco. Segue un colpo di stato, ma a salvare la situazione, tra lettere e ricatti, è la granduchessa Olga di Russia (Mady Christians) che, ribellandosi al volere del fratello (Robert Scholtz), sposa il granduca e copre i suoi debiti.
L’unica incursione di Murnau nella commedia. Un film ricco di personaggi e sottotrame, che benché lo stesso regista disprezzasse, contiene dei movimenti di macchina e delle scelte di montaggio che ritorneranno nell’opera del cineasta. Ognuna delle sei parti è ricca di colpi di scena e di momenti divertenti, su tutti la muta di levrieri inseguita da un buffo cagnolino all’interno della casa del protagonista (scena poi ripresa in molti altri film) e i goffi tentativi dei briganti per attentare alla vita del granduca. Rifatto, con lo stesso titolo, nel 1934 da Gustaf Gründgens.
Die Finanzen des Großherzogs fu l’ultimo film di Thea von Harbou per Friedrich Wilhelm Murnau. La sceneggiatrice continuò a scrivere magnifiche pagine di cinema col secondo marito Fritz Lang, su tutti Metropolis e M, ma con l’avvento del Nazismo si separò dallo stesso Lang, rimase in Germania e l’8 gennaio del 1940 fece domanda di adesione al partito nazista. Continuò a scrivere, durante e dopo la guerra, ma non raggiunse più i livelli creativi ottenuti al fianco dei due giganti del cinema tedesco.
L’ULTIMA RISATA
Anche Murnau continuò a fare cinema. Il Kammerspielfilm aveva, tra le sue caratteristiche, la rappresentazione di intrecci semplici, intimi e psicologici in ambienti scenici fisicamente limitati e con pochi personaggi. Il regista dichiarò: “Uno dei miei sogni è questo: fare un film in sei rulli con un unico, semplice locale, munito di una tavola e di sedie. La parete di fondo sarebbe bianca. Nessun particolare esteriore dovrebbe distogliere l’attenzione dalla vicenda che si svolgerebbe tra pochi personaggi in questo locale”.
Forte di un ricco contratto con l’UFA, Murnau iniziò a lavorare ad nuovo film insieme al produttore Erich Pommer, allo sceneggiatore Carl Mayer, agli scenografi e architetti Robert Herlth e Walter Röhrig e all’operatore Karl Freund. Pommer mise i soldi. Mayer scrisse la storia che conteneva elementi ispirati a “Il cappotto” di Gogol (lo stesso racconto che decenni dopo ispirò l’omonimo film di Alberto Lattuada con Renato Rascel). Herlth e Röhrig realizzarono, con un incredibile lavoro su dimensioni e prospettive, un ricco hotel e un quartiere desolato. Freund fu, come sempre, l’operatore. Per il nuovo film scelse di girare il tutto con tre telecamere, con tre tagli dell’inquadratura leggermente, ma significativamente differenti, una per il mercato tedesco, una per quello europeo e una per quello americano, ipotizzando movimenti di macchina fino a quel momento impensabili.
Venne, inoltre, ingaggiato il musicista italiano Giuseppe Becce (Lonigo, 2 febbraio 1877 – Berlino, 6 ottobre 1973) per scrivere le musiche di accompagnamento. Nato nel vicentino si era trasferito a Berlino nel 1906 divenendo in breve tempo uno dei più importanti compositori in ambito cinematografico. Curò musiche per Robert Wiene (Il gabinetto del dottor Caligari), Fritz Lang (Destino), Georg Wilhelm Pabst (I misteri di un’anima).
Il titolo del nuovo film di Murnau? Der letzte Mann, letteralmente L’ultimo uomo.
Ma mancava appunto quell’uomo, l’attore protagonista. Se negli Stati Uniti veniva creato il divismo e in Unione Sovietica si ricorreva ad attori dilettanti, in Germania le pellicole venivano interpretate da attori e attrici provenienti da una sorta di “compagnia cinematografica”, un gruppo di “professionisti molto ben disciplinati che si adattavano via via ai mutamenti di stile e di moda” (Kracauer). Il più importante di questi fu Emil Jannings, all’epoca quarantenne, che venne ingaggiato con un contratto faraonico, anche perché ogni giorno veniva truccato per due ore da Waldemar Jabs e dai suoi collaboratori che lo trasformavano in un anziano signore.
Le riprese si svolsero negli studi UFA di Neubabelsberg, l’attuale Studio Babelsberg, per 180 giorni. Sul set, benché non accreditato, anche un giovane regista britannico in Germania per fare esperienza. Il suo nome era Alfred Hitchcock.
Dopo una ricercata fase di montaggio e un’attenta campagna pubblicitaria (con tanto di foto a Murnau e di immagini personalizzate curate da Theo Matejko, disegnatore poi legato al regime nazista), Der letzte Mann uscì nelle sale tedesche il 23 dicembre del 1924.
Il portiere dell’Hotel Atlantic di Berlino (Emil Jannings), uomo anziano dall’aspetto imponente che regna su fattorini e cocchieri, indossa con fierezza e dignità una livrea gallonata (la giacca venne commissionata ad una ditta specializzata di Berlino) che lo fa stimare anche nel desolato quartiere in cui vive con la figlia (in alcune versioni la nipote, Maly Delschaft), ragazza prossima al matrimonio. Un giorno andando al lavoro, dopo aver visto un altro portiere in servizio, viene convocato dal direttore dell’albergo (Hans Unterkircher) che, notate le sue difficoltà nel sollevare i pesanti bagagli dei clienti, lo declassa a custode dei gabinetti e, di conseguenza, lo obbliga a restituire la divisa. Il portiere riesce a rubarla nottetempo e a nascondere, almeno nel quartiere, la sua nuova mansione. Partecipa così alle nozze della figlia con il suo ragazzo (Max Hiller), si ubriaca, per poi la mattina seguente attraversare il quartiere in divisa, lasciarla dal guardarobiere della stazione vicina all’Atlantic e iniziare il suo nuovo lavoro. Il giorno dopo la zia (Emilie Kurz), recatasi all’hotel per portargli il pranzo, scopre la nuova condizione e sfugge spaventata. Stanco e umiliato il vecchio portiere torna a casa. Deriso dai vicini che fino al giorno prima lo omaggiavano, e cacciato dal genero è costretto a dormire nei gabinetti, dove l’unica umanità si trova nel guardiano notturno (Georg John) che lo bacia affettuosamente sulla fronte. Ma come recita una didascalia, l’unica di tutto il film, “Il film dovrebbe terminare qui perché nella vita reale allo sfortunato vecchio non resta che aspettare la morte. Ma gli autori hanno avuto pietà di lui e hanno inventato un epilogo quasi incredibile”. Il protagonista, grazie ad un’improvvisa eredità, torna nell’Hotel Atlantic come cliente milionario, offre un lauto pranzo al guardiano notturno, solidarizza col nuovo custode dei gabinetti, elargisce grandi mance, chiama un calesse, prendendo a bordo un mendicante a cui il nuovo portiere ha impedito di avvicinarsi ai clienti facoltosi, e si allontana felice.
Una pietra miliare del cinema muto. Il capolavoro del Kammerspielfilm, anche se è difficile confinare una simile pellicola in un solo genere. Il film, infatti, ha elementi espressionisti, basti pensare all’architettura del quartiere in cui vive il portiere, elementi di realismo e di critica sociale sottolineati anche dalla contrapposizione dei due ambienti principali, l’hotel di lusso per ricchi da una parte, la casa del protagonista dall’altra. Robert Herlth e Walter Röhrig prepararono centinaia di schizzi, sottoposti al regista, prima di costruire quegli edifici elogiati anche dalla stampa internazionale.
Ma Der letzte Mann contiene anche un messaggio antimilitarista sul significato eccessivo delle uniformi, con una identificazione del portiere nella Germania “depredata dal disarmo dopo la Grande Guerra e incapace di accettare questa situazione” e, pur senza riferimenti classisti (è presente una critica alla piccola borghesia, ma il protagonista, un proletario, si abbandona semplicemente all’autocommiserazione), una riflessione sull’idea che “la decadenza dell’Occidente” non si possa rimediare con i “doni dell’Occidente”.
Il tutto arricchito dall’interpretazione di Emil Jannings. Secondo Murnau: “Pochi sanno davvero comportarsi sotto lo sguardo della macchina da presa, e Jannings ci riesce perfettamente. Il segreto della sua forza risiede nel fatto che egli si serve di tutto il suo corpo per esprimere un’idea. Può essere enorme come una montagna, quando incarna un potente della terra, e rattrappirsi in modo stupefacente, quando è un bisognoso: è assolutamente unico”.
Ma l’aspetto più importante di Der letzte Mann è rappresentato dalle innovazioni nelle riprese. Karl Freund inventò una nuova tecnica la “Entfesselte Kamera”, la “macchina da presa volante”. Legò la cinepresa a funi, altalene, gru, piattaforme, perfino a una bicicletta e ovviamente a carrelli (oggi scontati, ma all’epoca inediti) per rendere meno statica l’inquadratura. Un movimento di macchina che consente così di seguire la porta girevole dell’hotel, l’ascensore in picchiata, il fumo di un sigaro, la musica in uscita dalla tromba, le urla dei vicini. Freund e Murnau rafforzarono, inoltre, l’idea della ripresa soggettiva (già utilizzata in Nosferatu), lo spettatore vede con gli occhi del protagonista, incluse le sequenze della ubriachezza del portiere realizzate grazie all’uso di lenti.
Tecniche che portarono Murnau a raccontare la storia con mezzi puramente cinematografici. Nel film, infatti, l’unica didascalia presente è quella che anticipa il lieto fine (negli anni successivi il regista pensò di realizzare una pellicola completamente senza). Lieto fine che si distaccò dal resto della storia. Nel 1952 Emil Jannings raccontò che fu lui a pretendere il cambio della sceneggiatura con questo finale fiabesco, ma più probabilmente fu la stessa UFA a volerlo per conquistare il pubblico statunitense. Già, perché il film era stato pensato anche per Hollywood.
Freund, come anticipato, girò con una apposita camera solo per il mercato americano, limitò i movimenti di macchina e, con Murnau e il montatore Elfi Böttrich, modificò alcune parti in fase di montaggio. La versione migliore rimane quella tedesca (negli extra di DVD e Blu-ray film si possono cogliere le differenze), ma il film venne proiettato, prima ancora della distribuzione in Germania, a New York.
Il 5 dicembre 1924, infatti, al cinema Criterion lo stesso Murnau presentò ad un pubblico selezionato di produttori hollywoodiani il suo film col titolo semplicemente tradotto, The Last Man. L’accoglienza fu entusiasta e a distribuire la pellicola fu la Universal di Carl Laemmle. Ma poiché l’UFA poteva distribuire solo due pellicole all’anno negli Stati Uniti e nelle sale c’era già un film dal titolo simile, The Last Man on Earth di John G. Blystone, la distribuzione venne rinviata al 4 gennaio 1925 e il titolo divenne The Last Laugh, L’ultima risata che fu anche il nome italiano della pellicola, distribuita nel nostro Paese nel 1926. Il capolavoro di Murnau venne rifatto malamente nel 1955 da Harold Braun.
Negli Stati Uniti a rimanere letteralmente affascinato da Der letzte Mann fu William Fox. Nato in Ungheria il primo gennaio del 1879 come Fried Vilmos, viveva da quando aveva nove mesi negli USA (dove morì l’8 maggio 1952). Dopo essere stato proprietario di un’impresa tessile, nel 1904 aveva aperto uno dei primi Nickelodeon, luoghi dedicati al cinema dove per pochi soldi, 5 centesimi (un “nichelino”), si poteva assistere a proiezioni cinematografiche perlopiù rivolte ad impiegati ed operai che non potevano permettersi il ben più costoso teatro. Nel 1915, quando aveva ormai assunto il cognome della madre, che dall’ungherese Fuchs era diventato l’inglese Fox, aveva fondato la Fox Film Corporation poi divenuta la 20th Century Fox (oggi assorbita dalla Disney). Dopo la proiezione di Der letzte Mann propose a Murnau di lavorare negli USA. Il regista accettò, ma doveva ancora dirigere due film in Germania.
TARTUFO
Forte del successo mondiale di Der letzte Mann, Friedrich Wilhelm Murnau, che nel frattempo aveva contribuito alla scrittura di Komödie des Herzens (Commedia del cuore) diretto dall’amico Rochus Gliese nelle sale il 19 settembre 1924, tornò in Germania e continuò a collaborare con Carl Mayer. Lo sceneggiatore stava riflettendo sull’ipocrisia dominante vista come vizio fondamentale della società contemporanea. Decise così di adattare per il grande schermo “Tartuffe” (Tartufo”) di Molière. Un progetto, inizialmente pensato per un altro regista, che Murnau non voleva realizzare: stava già lavorando ad una nuova pellicola e soprattutto era molto rispettoso dell’opera del commediografo. Conosceva bene la lingua, la cultura e il teatro francese ed era preoccupato del risultato, della staticità del soggetto e del fatto che quel testo fosse un patrimonio culturale intoccabile. Su pressione dell’UFA, che aveva già ingaggiato Emil Jannings e che gli propose la stessa squadra di Der letzte Mann, il regista accettò. Meno male. Il 25 gennaio 1926 uscì nelle sale tedesche Herr Tartüff (Tartufo).
Un vecchio e benestante signore (Hermann Picha), soggiogato dalla sua avida governante (Rosa Valetti), è in procinto di lasciarle tutte le sue ricchezze. Il nipote (André Mattoni), insospettito dopo essere stato messo alla porta, si presenta nuovamente a casa del nonno travestito da proiezionista ambulante per rappresentare una storia sull’ipocrisia.
Il ricco Orgon (Orgone in italiano, Werner Krauss) viene convinto dall’ambiguo Tartüff (Tartufo, Emil Jannings) di privarsi di ogni bene e dei piaceri della sua vita coniugale, per approfittarne lui di nascosto. La moglie di Orgon, Elmire (Elmira, Lil Dagover), con la complicità della cameriera Dorina (Lucie Höflich), finge di essere attratta dal viscido Tartüff e lo smaschera agli occhi del marito.
Finita la proiezione il nipote rivela la sua identità e, come Tartufo, anche la governante si tradisce e ammette che stava avvelenando il vecchio per l’eredità. Viene così finalmente cacciata di casa.
La raffinatezza della produzione, inclusa la residenza di Orgon e Elmire ispirata al Palazzo di Sanssouci di Potsdam e ricostruita da Robert Herlth e Walter Röhrig, finì con l’offuscare il messaggio di Mayer. Il prologo e l’epilogo, funzionali all’attualizzazione della riflessione sull’ipocrisia, vennero liquidati dai critici come superflui.
Ma Tartufo, sebbene non avesse le innovazioni di Der letzte Mann, era in anticipo sui tempi in almeno due aspetti. Da una parte mostrava “il cinema nel cinema”, quasi a celebrare il potere di conoscenza dell’arte, dall’altro trasmetteva sensualità ed eros. La macchina da presa, infatti, mostra aspetti intimi (come il décolleté della protagonista, che si avvalse dell’attrice Camilla Horn come controfigura), e “spia costantemente i personaggi, ne coglie gli sguardi libidinosi, si identifica con essi e poi strappa loro la maschera. Un gioco sottilmente ambiguo e condotto con virtuosismo” (Mereghetti). Un classico dell’erotismo cinematografico.
FAUST
Herr Tartüff rientrava nella strategia dell’UFA che stava cercando di rafforzare l’industria cinematografica tedesca uscita a pezzi dopo il primo conflitto mondiale. La caduta delle esportazioni, spesso imposta, aveva ridotto il numero di film realizzati in Germania che passarono dai 646 del 1921 ai 228 prodotti nel 1925. La crisi, ovviamente, coinvolgeva anche il mercato interno con i cinema tedeschi invasi da film di importazione, per oltre il 40% erano pellicole statunitensi. L’UFA decise così di puntare su due kolossal che furono pronti solo per la stagione cinematografica successiva: il fantascientifico Metropolis diretto da Fritz Lang e Faust che richiamava miti e leggende della più tipica tradizione germanica, come già successo per l’epopea dei Nibelunghi.
Per Faust la sceneggiatura era stata affidata allo scrittore Hans Kyser che prese, ovviamente, elementi dal “Faust” di Johann Wolfgang von Goethe cui aggiunse aspetti dell’opera teatrale “The Tragical History of Life and Death of Doctor Faustus” (“La tragica storia del Dottor Faust”) di Christopher Marlowe, dalle opere melodrammiche di “Faust” di Charles Gounod e “La damnation de Faust” di Hector Berlioz e, soprattutto, dalle Volksbuch, le leggende medioevali tedesche.
Per scrivere le didascalie venne ingaggiato anche il più eminente poeta tedesco dell’epoca e Premio Nobel 1912 Gerhart Hauptmann che scrisse le didascalie in rima, probabilmente mai proiettate, per poi rielaborarle a seguito di un confronto con lo stesso sceneggiatore.
Un tale soggetto, tuttavia, non era propriamente nelle corde e negli interessi di Friedrich Wilhelm Murnau che, all’apice del successo, accettò sostanzialmente perché imposto alla produzione da Jannings intenzionato a proseguire la collaborazione artistica col regista. Una collaborazione che lasciò un segno della storia del cinema.
Il cineasta modificò con ironia le pretese culturali del film, considerava la tematica vacua e usurata e l’umanesimo di Hauptmann arretrato, impostando il suo lavoro sulle possibilità espressive dell’immagini. Per farlo si avvalse del direttore della fotografia e operatore Carl Hoffmann (9 giugno 1885 – 13 luglio 1947), già al suo fianco nel 1920 per Der Januskopf, che aveva maturato ulteriore esperienza al fianco di Fritz Lang (Il dottor Mabuse, I Nibelunghi) e degli architetti e scenografi Robert Herlth e Walter Röhrig che, come fatto anche per Der letzte Mann, realizzarono modellini di città e interi palazzi costruendo una “falsa prospettiva”.
L’UFA, che investì due milioni di marchi, puntò anche sull’internazionalità del film. Per il ruolo di Faust, non a caso, vennero contattati prima John Barrymore poi Ramón Novarro, ma entrambi rifiutarono per paura di sfigurare rispetto ad Emil Jannings che, oltre ad aver avuto un ruolo nella produzione, si era conquistato la parte di Mefisto già interpretata a teatro. Per il principale ruolo femminile la casa di produzione aveva pensato a Mary Pyckford la “Fidanzatina d’America” che dopo un anno di trattative lasciò il progetto, cosa che fece anche Lillian Gish musa di David Wark Griffith. Murnau, per mantenere l’internazionalità del film, ingaggiò così l’attore svedese Gösta Ekman, in patria diretto da Victor Sjöström e Mauritz Stiller, e la cantante e pittrice francese Yvette Guilbert, attiva nella Belle Époque a cui oggi è dedicato un cratere su Venere. Al cast si aggiunsero Camilla Horn, già diretta in Tartufo, Frida Richard, caratterista di successo, e Wilhelm Dieterle, che, emigrato negli USA e assunto il nome di William Dieterle, ottenne un buon successo come regista dirigendo, tra gli altri, Charles Laughton, Paul Muni, Marlene Dietrich, diretta anche in Germania, e John Garfield.
Le riprese durarono dal settembre del 1925 al febbraio dell’anno dopo. Il 26 agosto del 1926 all’UFA Theater Nollendorfplatz di Berlino di tenne la prima di Faust – Eine deutsche Volkssage (Faust – Una fiaba popolare tedesca).
Per conquistare il dominio sulla Terra, Mefisto (Emil Jannings) scommette con l’Arcangelo (Werner Fuetterer) di riuscire a corrompere l’anima dell’integerrimo dottor Faust (Gösta Ekman). Diffonde così una terribile peste nel villaggio del vecchio alchimista che, impotente di fronte all’epidemia, decide di buttare nel fuoco i suoi libri. Uno di questi si apre su una pagina che mostra come ottenere un patto col diavolo. Seguendo le indicazioni, e rinnegando fede e scienza, Faust invoca le forze del male. Gli appare Mefisto che gli offre i suoi servizi per un giorno, il tempo dello scorrere di una clessidra. Faust usa così i servigi del diavolo per curare gli abitanti della città, ma quando si ferma di fronte ad una donna con un crocefisso, viene accusato di stregoneria. Inseguito dalla folla, riesce a rifugiarsi nel suo studio, deciso a togliersi la vita, ma, poiché la clessidra non ha ancora finito di scorrere, viene fermato a Mefisto che, per dissuaderlo, gli mostra quando era giovane e lo sollecita ad abbandonare i libri e a darsi al piacere. Faust chiede così di tornare giovane e, alla visione di una bellissima ragazza nuda, viaggia sul mantello di Mefisto per raggiungerla. La donna è la Duchessa di Parma (Hanna Ralph) che Faust seduce sotto gli occhi del marito (Eric Barclay) che viene ucciso dal diavolo. Dopo una notte di passione Mefisto ricorda all’ormai giovane Faust che le ventiquattro ore sono finite e che deve scegliere se rinnovare il patto col diavolo in cambio della sua anima. Faust accetta e chiede di essere riportato a casa. Il suo villaggio è in festa e davanti alla chiesa incontra la pura Gretchen (Margherita nella versione italiana, Camilla Horn), che vive con la madre (Frida Richard) e il fratello Valentin (William Dieterle), e se ne innamora. Mefisto interviene facendole trovare una catenina d’oro. Un pomeriggio a casa della zia della ragazza Marthe (Yvette Guilbert), che vende elisir a facili creduloni e civetta ricambiata con Mefisto, i due giovani si baciano. Il diavolo prima spinge il giovane nel letto di Gretchen, poi sveglia la madre con un colpo di vento che, che vedendoli insieme, muore di crepacuore, e il fratello, che per vendicare l’oltraggio sfida Faust a duello. Valentin viene ucciso a tradimento da Mefisto e mentre Faust fugge, abbandonando su consiglio del diavolo la ragazza, maledice la sorella indicata come prostituta. Gretchen viene dileggiata e cacciata dalla città, ma la ragazza è rimasta incinta. In un rigido inverno in preda alla follia, chiede aiuto agli abitanti del paese, ma viene respinta e il figlio muore di freddo. È così accusata di omicidio e condannata al rogo. Invoca l’aiuto di Faust che sente il grido di dolore e prova a salvarla. Mefisto lo fa tornare vecchio mentre corre verso le fiamme. Seppur cambiato nell’aspetto viene riconosciuto da Gretchen e i due muoiono assieme. Il diavolo è convinto di aver vinto, ma l’Arcangelo gli ricorda che l’anima di Faust è salva. Mefisto è stato sconfitto dalla parola più potente di tutte: Amore.
Un meraviglioso poema metafisico in cui il mito del Faust rivive grazie a geniali intuizioni visive che dividono e moltiplicano lo spazio, sia in interni che in esterni, “sfaccettato in modo tale da racchiudere l’intero universo nella limitata cornice dello schermo” (Lourcelles). Il tutto reso possibile grazie alle qualità registiche di Murnau, che tratteggia una volta di più un protagonista vittima di una ossessiva solitudine, e alle innovazioni tecniche di Carl Hoffmann e degli architetti Robert Herlth e Walter Röhrig: dalle sovrimpressioni demoniache o tentatrici, alle panoramiche che accompagnano, ad esempio, il magnifico volo di Faust, realizzate grazie all’uso di modellini e ad una sorprendente mobilità aerea, passando per le luci e le ombre che creano “all’interno di ogni inquadratura una plasticità dinamica e imprevedibile” (Mereghetti).
Come scrisse Éric Rohmer nel suo imperdibile saggio “L’organisation de l’espace dans le «Faust» de Murnau” (“L’organizzazione dello spazio nel «Faust» di Murnau”, edito in Italia da Marsilio): “… In talune inquadrature di questo film, Murnau riesce a sottrarsi quasi del tutto alle servitù realistiche dell’obbiettivo e si apparenta, attraverso il disegno non più tanto ai caravaggeschi quanto ai veneziani e ai barocchi, giungendo a conferire ai volumi, alle superfici, ai contorni un’ampiezza maestosa, una nobiltà che non esiste in natura. Senza pretendere, per questo, di penetrare il suo segreto, diciamo che ai “trucchi” si aggiunge il ricorso all’azione degli elementi naturali, le nubi, la fiamma e soprattutto il vento che scolpisce e disegna le forme con uguale libertà inventiva dello scalpello e del pennello. Per esempio, quando Faust, avvolto nel suo mantello, le pieghe in movimento, si mette ad invocare Satana sulla landa. Oppure in quello splendido ritratto di Margherita, inquadrata leggermente dal basso, mentre culla il suo bambino, col busto chino secondo la diagonale del quadro. Le pieghe del velo, i tratti stessi del volto sono disposti “naturalmente” dalle luci, dal vento, dalla prospettiva, dal movimento, in funzione dell’arte più esigente, e tutto ciò non in vista di un effetto decorativo, ma di un’impressione rafforzata ed esaltata. Contrariamente a quanto avviene in pittura, non pare che sia la linea creata l’espressione, bensì l’espressione a creare la linea”.
Faust, la cui qualità non è stata raggiunta dagli adattamenti cinematografici successivi (La leggenda di Faust di Gallone, La bellezza del diavolo di Clair, Margherita della notte di Aurent-Lara, Faust di Sokurov), fu accolto in Germania con indifferenza. Il Filmschau scrisse: “Gli spettatori di oggi desiderano un film in cui il montaggio esprima per così dire il tempo, l’azione o il luogo, in cui anche un mosaico di episodi non è più visto come tale bensì come relazione tra più episodi. E tutto ciò il Faust di Murnau non ce l’offre”. Siegfried Kracauer parlò di “monumentale sfoggio di trucchi”, ma quella rappresentazione dell’eterna lotta tra il bene e il male fu un clamoroso successo negli Stati Uniti.
Murnau, comunque, non partecipò nemmeno alla prima del film a Berlino. Era già partito per Hollywood.
redazionale
LA TERZA PARTE USCIRà il 27 dicembre
Bibliografia
“Friedrich Wilhelm Murnau” di Pier Giorgio Tole – Castoro
“Friedrich Wilhelm Murnau” a cura di Bruno Di Marino e Giovanni Spagnoletti – Dino Audino editore
“Da Caligari a Hitler. Storia psicologica del cinema tedesco” di Siegfried Kracauer – Lindau
“Da Caligari a M. Cinema espressionista e d’avanguardia tedesco” – Museo del cinema
“L’organizzazione dello spazio nel «Faust» di Murnau” di Éric Rohmer – Marsilio
“Il cinema secondo Hitchcock” di François Truffaut – il Saggiatore
“Storia del cinema e dei film” di David Bordwell e Kristin Thompson – Lindau
“Storia del cinema” di Gianni Rondolino – UTET
“Il Mereghetti. Dizionario dei film 2023” di Paolo Mereghetti – Baldini & Castoldi
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