TERZA PARTE
Negli anni Venti e Trenta del secolo scorso le cosiddette “Major” americane si contendevano a suon di contratti registi ed interpreti europei. Alla Paramount, ad esempio, giunsero Ernst Lubitsch, dopo un passaggio alla Warner Bros., Emil Jannings, Pola Negri e lo stesso produttore Erich Pommer. Paul Leni si accasò alla Universal. La MGM ingaggiò, invece, gli svedesi Victor Sjöström, Mauritz Stiller e la sua pupilla Greta Garbo che accettò di trasferirsi negli USA anche grazie ai consigli di Friedrich Wilhelm Murnau che nel 1926 aveva firmato un contratto quadriennale con la Fox poiché, come ricorderà egli stesso, credeva “che si può sempre imparare qualcosa e che l’America mi offriva nuove strade per perseguire i miei obiettivi artistici”.
Presentato da William Fox come The German Genius, Murnau iniziò a lavorare ad un nuovo film potendo contare su imponenti mezzi finanziari, su un’efficiente macchina produttiva e, soprattutto, su una libertà artistica assoluta che lo stesso Fox gli aveva garantito. Per questo a Hollywood col regista era giunto anche l’amico Rochus Gliese (Berlino, 6 gennaio 1891 – Berlino, 22 dicembre 1978) regista e scenografo che per Murnau aveva curato Der brennende Acker, Die Austreibung, Die Finanzen des Großherzogs.
AURORA
Chi, invece, non voleva saperne di trasferirsi negli Stati Uniti era Carl Mayer cui Murnau aveva affidato la scrittura del nuovo film. Lo sceneggiatore venne praticamente implorato, ma fu irremovibile, sostenendo che poteva lavorare solo nel suo ambiente in Germania. Accettò, tuttavia, di lavorare al nuovo film di Murnau adattando “Die Reise nach Tilsit” uno dei racconti delle “Litauische Geschichten” (Storie lituane) pubblicate nel 1917 dal drammaturgo Hermann Sudermann.
Nel racconto i due protagonisti si chiamavano Ansass e Indre, ma nel film i personaggi furono lasciati senza nome, sia come eredità espressionistica, sia per rendere il messaggio più universale e non lasciarlo legato alla sola Lituania. Come precisarono i titoli di testa “La storia non viene da nessun luogo e tuttavia forse la si potrebbe incontrare ovunque e in qualsiasi momento”. Nacque Sunrise: A Song of Two Humans.
Se la sceneggiatura venne curata a distanza da Mayer, che impiegò diversi mesi per terminarla in accordo col regista, gli intertitoli e le didascalie furono, invece, scritte da Katherine Hilliker e dal suo secondo marito Harry Handly Caldwell. Lei era una graphic designer ante litteram, lui era un militare, ma non uno qualsiasi, era stato il primo comandante di un sottomarino navale nella storia. Correva l’anno 1900 e Caldwell aveva appena 17 anni. Nel 1909 la corte marziale lo espulse per “condotta a pregiudizio del buon ordine e della disciplina”, tradotto abuso di alcol, per poi venire richiamato durante la Prima guerra mondiale al comando dell’Anfitrite, la nave di guardia del porto di New York. Una volta in pensione si dedicò al cinema. I due si conobbero alla Chester, piccola casa di produzione, per poi lavorare per le “Major”. Curarono ad esempio i testi del primo Ben Hur quello diretto nel 1926 da Frank Niblo.
A seguire la fotografia furono Charles Rosher, uno dei pionieri del cinema americano, e Karl Struss, che all’attivo vantava già collaborazioni con Cecil B. De Mille e David W. Griffith. La scenografia venne seguita da Rochus Gliese che, con l’aiuto degli architetti Robert Herlth e Walter Röhrig, fece costruire la casa del protagonista, “la stazione ferroviaria, la città risplendente di mille luci, un’enorme piazza principale destinata ad essere occupata da 4500 comparse e 500 automobili, la fiera, un magnifico ristorante di proporzioni gigantesche” (Luft). Le costruzioni più elaborate che Hollywood avesse mai visto.
Ricco anche il cast che vedeva nei principali ruoli George O’Brien, cui il regista fece mettere dei pesi nelle scarpe per renderne più incisivo il passo, Janet Gaynor, che anni dopo Walt Disney scelse come volto di Biancaneve, e Margaret Livingston, una sensuale attrice che nel 1924 era a bordo dell'”Oneida”, lo yacht del milionario William Randolph Hearst (cui si ispirò Orson Welles per il suo Quarto potere), su cui perse la vita il regista Thomas Harper Ince a causa di una pallottola probabilmente indirizzata a Charlie Chaplin. Ai protagonisti si aggiunsero caratteristi di successo come Bodil Rosing, Arthur Housman, Jane Winton, Gibson Gowland (già interprete di Greed) e Gino Corrado fiorentino con un record imbattibile: è stato l’unico attore ad aver recitato in Via col vento, Quarto Potere e Casablanca.
La fase di montaggio di Sunrise, curata dal regista con Harold D. Schuster, fu particolarmente delicata non solo per la selezione e il taglio delle scene, ma per la sincronizzazione con i suoni e le musiche scritte appositamente da Erno Rapee e Hugo Riesenfeld. Il cinema stava scoprendo il sonoro.
Il 23 settembre del 1927 al Time Square Theatre di New York si tenne la prima di Sunrise: A Song of Two Humans.
Sedotto da una donna di città (Margaret Livingston), un uomo di campagna (George O’Brien) che vive in un piccolo villaggio di pescatori, si lascia convincere ad uccidere la moglie (Janet Gaynor) durante una traversata in barca per poi fingere un incidente. Prepara con cura il piano, lascia il figlio con la balia (Bodil Rosing), ma al momento di ammazzarla non se la sente. La giovane moglie compreso il gesto, fugge terrorizzata e scappa sul primo treno diretto in città. Il marito la raggiunge e i due, dopo aver assistito ad un matrimonio, essere stati in un luna park e in un centro estetico, si riavvicinano e si scoprono nuovamente innamorati. Decisi a rientrare in barca vengono sorpresi da una tempesta. La moglie è dispersa, mentre il marito, disperato, viene raggiunto dalla donna di città che pensa che il piano sia andato a buon fine. Preso dall’ira l’uomo cerca di strangolarla, prima di sapere che la sua amata è stata ritrovata. Marito e moglie possono così ricominciare una nuova esistenza con l’aurora.
Un dramma fortemente simbolico che alterna tragedia, commedia e poi di nuovo tragedia. Un susseguirsi di stati d’animo che rappresenta la summa del cinema di Murnau sia dal punto di vista tecnico – le sovrimpressioni, dissolvenze, doppie esposizioni, le sequenze in soggettiva, la scenografia accurata che prende parte alla recitazione (come scrisse Erich Rohmer), le luci e le ombre, la cura nel montaggio, l’attenzione al suono – sia da quello contenutistico, che vede contrapposti la forza eversiva del desiderio e la serenità dell’amore, la città peccatrice e la campagna portatrice di sani valori.
Tra le sequenze più celebri: l’incontro tra il marito e la donna di città nella palude illuminati dalla luce, il traffico in città che quasi travolge la moglie e la deriva della stessa nel lago aggrappata solo a un fascio di giunchi che l’uomo aveva preparato per salvarsi dal finto incidente.
Il film venne distribuito dal 4 novembre, in Italia dal 31 marzo 1928 col titolo Aurora, e ottenne un grande riscontro tra i critici e gli addetti ai lavori. Rimasero impressionati anche diversi registi della Fox da Frank Borzage a Howard Hawks, da Raoul Walsh a John Ford che definì Sunrise “il più grande film mai realizzato”. Ma nonostante le critiche positive non incontrò il favore del pubblico e la Fox, per rientrare dalla spesa, utilizzò parte dello stesso set per Four Sons (L’ultima gioia, 1928) di Ford e per Seventh Heaven (Settimo cielo, 1927) diretto da Borzage. Non solo: per il successivo film pretese garanzie finanziare-commerciali a Murnau, come risulta da una lettera datata 27 dicembre 1927. Un provvedimento che limitò i margini di libertà e di sperimentazione che erano stati alla base del suo trasferimento a Hollywood.
I QUATTRO DIAVOLI
Il nuovo film fu 4 Devils (anche conosciuto come Four Devils, I quattro diavoli) basato sul racconto “De Fire Djaevle” dello scrittore danese Herman Bang. Carl Mayer iniziò a scrivere la sceneggiatura, una storia circense di amore e morte con un tragico epilogo, ma la Fox voleva il classico lieto fine hollywoodiano, Mayer abbandonò la produzione e venne rimpiazzato da Berthold Viertel, austriaco come lui, ma con meno talento, e Marion Orth.
Carl Mayer, nato a Graz in Austria il 20 novembre 1894, fu uno dei pochi autori europei a rifiutare le ricche offerte di Hollywood e rimase in Germania fino al 1933. Scrisse ancora film, alcuni per Leni Riefenstahl, ma era ebreo e pacifista. Con la salita al potere di Hitler, si rifugiò a Londra dove lavorò nell’industria cinematografica, prima di morire dimenticato il primo luglio 1944. Oggi riposa nel Highgate Cemetery di Londra, lo stesso di Karl Marx.
Tornando a Four Devils, Murnau lo diresse quasi con distacco, come se non lo riguardasse. Dopo una lavorazione tormentata che si protrasse dal 3 gennaio al maggio 1928, il 3 ottobre dello stesso anno ci fu la prima al Gaiety Theatre di New York.
Quattro orfani, Charles (Jack Parker), Adolf (Philippe De Lacy), Marion (Anne Shirley) e Louise (Anita Fremault), affidati ad un brutale proprietario di un circo, vengono salvati da un anziano clown (Wesley Lake) che li cresce e li fa diventare degli straordinari acrobati, sognando un giorno di vederli sposati tra loro. Divenuti trapezisti di successo noti come “I quattro diavoli”, Louise (Nancy Drexel) e Adolf (Barry Norton) sono uniti solo dalla passione per il circo, mentre Marion (Janet Gaynor) e Charles (Charles Morton) si amano, come aveva sperato il vecchio clown. Ma quando i quattro si esibiscono a Parigi, Charles viene sedotto da una sconosciuta (Mary Duncan). Un giorno si appresta a fare il suo numero senza rete completamente ubriaco. Marion, benché scossa, decide di sacrificarsi per salvare l’amato. Cade dal trapezio, ma si salva. Charles capisce così il suo amore e corre ad abbracciarla (nella versione originale Marion moriva e la sua caduta era simbolicamente accompagnata da una rosa lanciata dalla bella sconosciuta).
Benché ricorrano alcuni dei temi tipici di Murnau, Four Devils rimane il film meno personale del regista tedesco e rappresentò un nuovo insuccesso commerciale. Il pubblico, infatti, aveva scoperto il sonoro grazie a The Jazz Singer (Il cantante di jazz, 1927) che l’anno precedente aveva incassato tre milioni di dollari. Il suo seguito The Singing Fool (Il cantante pazzo), distribuito poche settimane prima del film di Murnau, aveva più che triplicato gli incassi (si parla di dieci milioni). Four Devils fece solo 100000 dollari, anche se limitatamente all’area di New York, e la Fox decise di ritirarlo dalle sale.
I condizionamenti della “Major” durante la lavorazione di 4 Devils furono pesanti, ma Murnau si mise al lavoro per il successivo film tratto dallo spettacolo teatrale “The Mud Turtle” di Elliott Lester rappresentato per la prima volta nel 1925. In una lettera datata 28 dicembre 1927, in risposta a quanto Fox gli aveva scritto riguardo le garanzie finanziare-commerciali dopo Sunrise, il regista aveva spiegato la sua idea: “Questa estate, vorrei girare un film sul grano, sul carattere sacro del pane, sull’alienazione della metropoli moderna e sulla sua ignoranza circa le sorgenti sostanziali della natura”. E nell’estate successiva in Oregon, Murnau iniziò le riprese, con un’impostazione molto chiara e un titolo: Our Daily Bread.
Ma durante la lavorazione del film il regista fu sostituito dopo il ricovero per un’appendicite e di fatto non tornò più. Le divergenze con la Fox, che voleva modificare il film partendo dal titolo, trasformandolo in un più “accattivante” City Girl, si erano fatte insanabili. Il film fu portato a termine dai suoi assistenti Frank Powolny e William Tummel.
LA PRIMA NOTTE DEGLI OSCAR
Deluso dai vincoli e dalle pressioni di Hollywood, nel febbraio del 1929 Friedrich Wilhelm Murnau lasciò definitivamente la Fox. Dopo un tentativo di tornare a lavorare per la UFA a Berlino (iniziava a non essere un gran periodo), decise di mettersi in società col grande documentarista Robert J. Flaherty (Nanuk l’esquimese, L’ultimo Eden), anche lui in fuga dalla Fox, con l’intenzione di realizzare esclusivamente pellicole secondo le sue idee. Fondarono la Flaherty-Murnau Productions, finanziata da una piccola casa la Colorart. Il regista tedesco espresse la volontà di girare un film a Tahiti insieme al documentarista che aveva già avuto esperienze con i nativi. Nell’aprile del 1929 Murnau salpò a bordo dello yacht appena comprato, il “Bali”, verso i mari del sud. Flaherty lo raggiunse il mese successivo.
Hollywood era comunque in espansione e il 16 maggio del 1929 l’Academy of Motion Picture Arts and Sciences, fondata due anni prima, assegnò il primo premio cinematografico della storia, una statuetta, per cui posò l’immigrato messicano Emilio Fernández (poi regista e attore di successo), che ancora oggi chiamiamo Oscar. La cerimonia, presentata da Douglas Fairbanks e William C. deMille, si tenne all’Hollywood Roosevelt Hotel di Los Angeles. Durò solo 4 minuti e 22 secondi, ma segnò la storia.
Charlie Chaplin vinse un Oscar onorario per la realizzazione di The Circus, così come la Warner Bros. per aver prodotto The Jazz Singer. I premi si riferivano alla stagione cinematografica 1927-1928 ed Emil Jannings, vecchia conoscenza di Murnau, si aggiudicò la statuetta come Miglior attore per le sue interpretazioni in The Way of All Flesh (Nel gorgo del peccato) e The Last Command (Crepuscolo di gloria). Primo e ad oggi unico tedesco a riuscirci. Ma a trionfare con quattro nomination e tre Oscar fu Sunrise di Murnau. Il film, nominato anche per la Miglior scenografia, vinse il riconoscimento per la Miglior fotografia curata da Charles Rosher e Karl Struss, per la Migliore attrice Janet Gaynor (insieme alla interpretazioni in L’angelo della strada e Settimo cielo) e per la Migliore produzione artistica, categoria che dall’anno successivo, unita a quella per la Migliore produzione (vinta da Ali/Wings), divenne l’Oscar al Miglior film. Ma Murnau non c’era nemmeno.
NOSTRO PANE QUOTIDIANO
La Fox, forte anche del successo, nel giugno del 1929 sonorizzò Four Devils, inserendo dialoghi e battute, scritte dal drammaturgo John Hunter Booth, mai approvate da Murnau. Il film tornò così nelle sale il 15 settembre 1929. Oggi la pellicola è da considerarsi perduta, pare che l’ultima copia l’abbia avuta l’attrice Mary Duncan. Nel 2003 uscì il documentario Murnaus 4 Devils: Traces Of A Lost Film curato dalla storica del cinema Janet Bergstrom che ricostruì il film utilizzando foto, sceneggiatura e provini.
L’ottobre del 1929 segnò l’inizio della “Grande depressione” che attraversò anche la Fox. William Fox si dimise e venne sostituito da Sidney Kent. Col nuovo assetto societario fu ripreso Our Daily Bread ormai divenuto City Girl che uscì, senza più alcuna partecipazione di Murnau, con inediti dialoghi, una colonna sonora e nuove scene girate da A.F. “Buddy” Erickson, il 16 marzo del 1930.
Lem (Charles Farrell), figlio di Tustine (David Torrence), un grosso agricoltore del Minnesota, giunge a Chicago per vendere una partita di frumento. Qui conosce Kate (Mary Duncan), cameriera nel locale dove è solito mangiare. La ragazza sogna da sempre di poter vivere in campagna e così i due decidono di sposarsi e di ritornare nella fattoria di Lem. Tustine non è affatto contento che il figlio abbia sposato una donna di città e l’odio che nutre per la nuora deteriora anche i rapporti tra Kate e Lem. Durante una notte in cui una tempesta minaccia di distruggere il raccolto, Mac (Richard Alexander), uno dei braccianti che lavora per Tustine, invaghitosi di Kate le propone di fuggire. La ragazza rifiuta e lascia da sola la fattoria. Intanto i braccianti decidono di andarsene lasciando Tustine nei guai, ma questi minaccia di sparare al primo che se ne andrà. Per sbaglio colpisce Lem che si sta azzuffando con Mac. Dopo questo episodio padre e figlio si riappacificano e Kate ritorna a vivere nella fattoria.
Benché non più curato da Murnau, City Girl contiene molto della poetica del regista tedesco a partire dal dualismo città-campagna che nel film assunse toni ancor più cupi e pessimistici rispetto a Sunrise. Notevole la scena della corsa dei due protagonisti nel grano e la drammatica parte finale. In alcuni paesi uscì col titolo voluto dal cineasta come in Olanda e in Italia dove venne distribuito come Nostro pane quotidiano (da non confondere con l’omonima pellicola diretta da King Vidor con Karen Morley come protagonista), ma fu un altro insuccesso al botteghino, il pubblico rigettò il film che non era più muto, ma non era ancora parlato.
City Girl, per decenni considerato perduto, venne ritrovato solo nel 1970 nei magazzini della Fox. Quella copia muta di City Girl ha ispirato il regista Terrence Malick per il suo Days of Heaven (I giorni del cielo, 1978).
TABÙ, L’OMOSESSUALITÀ E LA MORTE
Con la “Grande depressione” entrò in crisi anche la Colorart, che avrebbe dovuto finanziare il film di Murnau e Flaherty. I due, nel frattempo, avevano scritto la sceneggiatura, scelto il titolo, Turia, individuata la location, Bora Bora, e perfino l’attrice protagonista una bellissima nativa chiamata Reri, conosciuta in un bar dell’isola.
Il crollo della Colorart portò inevitabilmente ad alcuni significativi cambiamenti. Murnau che, per salvare il film mise mano a tutti i suoi risparmi (Flaherty non era nelle condizioni di poterlo aiutare economicamente), scelse di girare in bianco e nero e non più a colori, si rivolse esclusivamente ad attori non professionisti, e, per evitare noie legali, cambiò la sceneggiatura, dalla storia dello sfruttamento dei tahitiani da parte dei commercianti cinesi alla storia di un tabù, e anche il titolo che divenne Tabu: A Story of the South Seas.
Flaherty, non troppo convinto delle novità, diresse le prime scene del film, ma poco dopo i due cineasti si scontrarono. Troppo distanti, per non dire opposte, le loro visioni: da una parte l’interesse lirico-esoterico, più notturno e pessimista di Murnau e dall’altra la visione etnologica e documentarista, solare e ottimista di Flaherty che lasciò Bora Bora per tornare negli Stati Uniti. Il regista tedesco decise di proseguire il film insieme al debuttante direttore della fotografia Floyd Crosby.
Murnau scelse come campo base Motu Tapu, una piccola isola vicino a Bora Bora che gli indigeni consideravano sacra, appunto un tabù. Nei suoi viaggi verso i mari del sud era diventato anche amico di Henri Matisse, a Tahiti perché stimolato dall’idea di vedere la luce nell’altro emisfero, mentre per Murnau, come ricorda Pier Giorgio Tone: “La scelta dei mari del sud come luogo topico per ambientarvi l’estremo risultato della sua tensione poetica e esistenziale nasce […] dalla volontà di infrangere clamorosamente le regole di un modo di produzione dominato dal grande capitale. È un gesto isolato e protestatario, a suo modo politico, di una coscienza artistica borghese violata dalla brutalità di un sistema industriale”.
Terminate le riprese Murnau tornò a Hollywood, ingaggiò Hugo Riesenfeld per le musiche e montò la pellicola. Nell’ottobre del 1930 Tabu era pronto per essere proiettato nelle sale, ma mancava qualcuno in grado di distribuirlo. Flaherty vendette i diritti del film al collega scegliendo di risultare solo come sceneggiatore e non come regista, nel mentre si fece avanti la Paramount che offrì al regista tedesco un contratto decennale. Murnau accettò. Venne anche fissata la data dell’anteprima del film: il 18 marzo 1931.
Murnau, che voleva tornare a Tahiti per realizzare nuovi film, morì una settimana prima della proiezione di Tabu. La sera del 10 marzo, lungo la strada che collega Los Angeles a Monterey, il regista si trovava a bordo di una lussuosa Packard 740. Con lui il suo pastore tedesco, il suo autista e Eliazar Garcia Stevenson (2 settembre 1900 – 4 ottobre 1985) segretario e amante filippino di Murnau, per una sera insolitamente alla guida dell’auto appena noleggiata. Sul lungomare a sud-est di Santa Barbara, Stevenson sterzò brutalmente per evitare un camion, l’auto si ribaltò scaraventando tutti fuori dal veicolo. Pochi graffi per gli altri, mentre Murnau finì col battere violentemente la nuca contro un palo della luce. Trasportato d’urgenza al Santa Barbara Cottage Hospital, Friedrich Wilhelm Murnau morì nelle prime ore dell’11 marzo ad appena quarantadue anni.
Per decenni si raccontò che Stevenson fosse un valletto tredicenne e che l’incidente fosse stato causato dal regista intento a pratiche orali durante il viaggio. L’omosessualità di Murnau, mai nascosta e mai ostentata, è stata a lungo sottaciuta, poi dileggiata ed infine criminalizzata. La stessa biografia di Lotte Eisner sorvola sull’argomento. La cosa certa è che Murnau apparteneva alla Gemeinschaft der Eigenen, la comunità degli spiriti liberi, associazione gay fondata a Berlino nel 1903 dall’anarchico Adolf Brand che, attraverso le pagine della sua rivista, salutò la scomparsa del grande regista.
Certo anche il suo rapporto col poeta Hans Ehrenbaum-Degele, morto durante la Prima guerra mondiale, la relazione a Hollywood con l’attore David Rollins e quella col futuro artista e inventore Karl Hans Janke, entrambi ritratti nudi dal regista. Infine noto anche l’amore tormentato per l’artista tedesco Walter Spies iniziato in Germania e proseguito a Bali. L’omosessualità era, nei migliore dei casi, un tabù, ma la figura di Murnau è ancora oggi nel cuore della comunità LGBTQIA+. Un esempio? In occasione del Pride di Bologna nel 2012 una serie di cartelli chiedevano retoricamente come sarebbe stato il mondo senza artisti gay. Uno di questi, portato fieramente da un attivista, recitava “Un mondo senza Friedrich W. Murnau. Un mondo senza Nosferatu e film muti”.
Tornando al cinema, Tabu: A Story of the South Seas venne presentato, come programmato, il 18 marzo del 1931 al Central Park Theatre di New York.
A Bora Bora un giovane (Matahi) si innamora di una bella ragazza (Reri), e quando il vecchio sacerdote signore di tutte le isole (Hitu) la indica come vergine sacra, un tabù che porterebbe alla morte ogni uomo che le si avvicina o la guarda con desiderio, i due decidono di fuggire insieme fingendo un rapimento. Su un’isola vicina, gestita per le autorità francesi da un poliziotto corrotto (Jean), i giovani sopravvivono grazie all’abilità del ragazzo come cacciatore di perle, abilità sfruttata da un commerciante cinese (Kong Ah). Ma il vecchio sacerdote li trova e intima alla ragazza di tornare a Bora Bora con lui, pena la morte dell’amato. Dopo aver provato a lasciare l’isola, quando il ragazzo è a caccia di perle in una zona proibita, infrangendo un altro tabù, la giovane accetta suo malgrado di tornare col sacerdote, mentre l’amato muore nel disperato tentativo di raggiungerla a nuoto.
L’ultimo capolavoro di Murnau, muto per scelta nonostante il sonoro fosse attivo da tre anni. Le due parti in cui è diviso il film, Das Paradies (Il paradiso) e Das verlorene Paradies (Il paradiso perduto), mostrano le sensibilità diverse dei due autori, più documentaristica la prima parte girata prevalentemente da Flaherty, più lirica la seconda. Proprio questa seconda mise in evidenza la capacità di Murnau di “ottenere il massimo dell’efficacia espressiva con il minimo della semplicità rappresentativa” in cui “Lo scontro mitico tra il giorno e la notte, tra la vita e la morte finisce per schiacciare questi esseri troppo vulnerabili, mentre la dolcezza di alcune scene ci trasmette la compassione che Murnau ha per questi innocenti la cui unica colpa è quella di essere nati” (Lourcelles).
Il film più sensuale del regista che mostrò i fisici scultorei dei ragazzi tahitiani, soffermandosi delicatamente, e i seni delle ragazze native, motivo per il quale Tabu venne censurato negli Stati Uniti e nell’Italia fascista dove la pellicola uscì, l’8 ottobre 1931, col titolo Il paradiso – Tabù. Il 10 novembre 1931 il film si aggiudicò l’Oscar per la Miglior fotografia grazie a Floyd Crosby che negli anni successivi lascerà più di un segno nella storia del cinema a partire da High Noon (Mezzogiorno di fuoco) e, indirettamente, anche in quella nella musica essendo il padre del leggendario cantautore David Crosby.
In Tabu: A Story of the South Seas, come richiamato nei titoli di testa, recitarono “soltanto nativi delle isole dei mari del sud, qualche meticcio e cinese”. Tra loro due fecero una breve carriera cinematografica. La bellissima Reri (1912-1977) assunse, infatti, il nome di Anne Chevalier e dopo essere passata dalla natia Papeete a Hollywood per la promozione del film, soggiornò in Europa dove ottenne il suo secondo ruolo cinematografico, sempre quello di una ragazza tahitiana, in Czarna perła (Black Pearl) film polacco uscito nel 1934 per la regia di Michał Waszyński. Nella pellicola recitò al fianco dell’attore Eugeniusz Bodo (nato Bohdan Eugène Junod, Ginevra, 28 dicembre 1899 – Kotlas, 7 ottobre 1943) il più importante comico polacco tra le due guerre col quale ebbe una breve relazione. Tornata negli Stati Uniti Anne Chevalier recitò anche in The Hurricane (L’uragano, 1937) di John Ford, prima di ritornare a Tahiti. Ben più triste la sorte di Bodo. A seguito dell’occupazione nazista di Varsavia fuggì a Leopoli, ma in Unione Sovietica venne imprigionato in un gulag dall’NKVD. Morì di stenti durante il trasferimento nel campo di lavoro di Kotlas.
Il secondo attore di Tabu ad aver recitato in altri film fu il poliziotto Jean (1892-1950) che col nome di Bill Bambridge apparve in Mutiny on the Bounty (La tragedia del Bounty) uscito nel 1935 per la regia di Frank Lloyd con Charles Laughton e Clark Gable nei ruoli principali.
IMMORTALE
Il 19 marzo del 1931, il giorno dopo la presentazione di Tabu: A Story of the South Seas, nella chiesa luterana di Hollywood si tenne la cerimonia funebre di Friedrich Wilhelm Murnau. Complici le meschine ricostruzioni sull’incidente, parteciparono solo undici persone, tra loro Greta Garbo che adorava il regista tedesco. La Divina commissionò una maschera mortuaria di Murnau, un calco in gesso che tenne per tutta la sua permanenza a Hollywood prima di regalarlo alla famiglia del cineasta. Oggi quella maschera è conservata nel museo del cinema di Berlino.
Charlie Chaplin non riuscì a partecipare alle esequie poiché in Germania per la promozione di City Lights (Luci della città), ma volle comunque salutare Murnau “È stato uno degli uomini migliori che la Germania abbia dato ad Hollywood. Non posso ancora rendermi conto dell’orrore di questa perdita”.
Il 13 aprile il suo corpo venne trasferito in Germania. A salutarlo Robert J. Flaherty, Emil Jannings, Georg Wilhelm Pabst, Erich Pommer, ancora Greta Garbo e Carl Mayer e Fritz Lang che tennero l’orazione funebre.
In Germania Tabu, il suo ultimo film, uscì nelle sale il 5 agosto 1931, ma il Nazismo era ormai alle porte e l’intera filmografia di Murnau venne letteralmente cancellata. Molte pellicole andarono, non casualmente, distrutte in quegli anni bui. Aveva fatto lavorare attori ebrei, su tutti John Gottowt, era un uomo e un artista libero ed era omosessuale. Troppo per il regime nazista.
Murnau col suo cinema, la sua poetica, le sue intuizioni visive, continua ad affascinare e influenzare il cinema di oggi, basti pensare a Martin Scorsese, a Werner Herzog e a Wim Wenders che pochi anni fa ha ricordato come lo stesso Murnau oggi sarebbe “il primo a sconsigliarci di glorificare nostalgicamente il cinema e di demonizzare l’epoca della digitalizzazione delle immagini. Era un pioniere e lo sarebbe anche oggi”. Ha raccontato l’orrore, la solitudine, la disperazione. Molte sequenze dei suoi film sono entrate nell’immaginario collettivo dall’ombra di Nosferatu al “declassamento” in Der letzte Mann, dal volo di Faust agli amanti sotto la luna in Sunrise.
In suo omaggio nel 1966 venne creata la Friedrich-Wilhelm-Murnau-Stiftung, fondazione che ha consentito negli anni il recupero e il restauro dei suoi film e di quello di molte altre pellicole realizzate durante la Repubblica di Weimar (tra le altre Il gabinetto del dottor Caligari, Metropolis, L’Angelo azzurro). Non solo. A lui è dedicato un film, il già citato Shadow of the Vampire (L’ombra del vampiro), dove venne interpretato da John Malkovich, diversi spettacoli teatrali, infinite rassegne, su tutte l’edizione 2003 del Festival Internazionale del Cinema di Berlino in cui Murnau ha ricevuto un premio postumo per il suo lavoro cinematografico, e una stella sulla Boulevard of the Stars a Berlino.
Il corpo di Friedrich Wilhelm Murnau è stato imbalsamato e sepolto nella tomba di famiglia nel Südwestkirchhof Stahnsdorf, il cimitero ovest di Berlino. Dopo diversi segni di rituali, più o meno esoterici, il 15 luglio del 2015 è stato scoperto che la bara era aperta e il regista decapitato… proprio come ogni vampiro che si rispetti.
redazionale
Bibliografia
“Friedrich Wilhelm Murnau” di Pier Giorgio Tole – Castoro
“Friedrich Wilhelm Murnau” a cura di Bruno Di Marino e Giovanni Spagnoletti – Dino Audino editore
“Da Caligari a Hitler. Storia psicologica del cinema tedesco” di Siegfried Kracauer – Lindau
“Da Caligari a M. Cinema espressionista e d’avanguardia tedesco” – Museo del cinema
“Carl Mayer e l’Espressionismo” a cura di Mario Verdone – Edizioni di Bianco e nero
“Storia del cinema e dei film” di David Bordwell e Kristin Thompson – Lindau
“Storia del cinema” di Gianni Rondolino – UTET
“Il Mereghetti. Dizionario dei film 2023” di Paolo Mereghetti – Baldini & Castoldi
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