«Per me, come per molti altri, le nozioni di prova e di verità sono parte costitutiva del mestiere di storico. Uno storico ha il diritto di scorgere un problema là dove un giudice deciderebbe un “non luogo a procedere”. È una divergenza importante, che però presuppone un elemento che accomuna storici e giudici: l’uso della prova». Sono parole di Carlo Ginzburg, scritte in un famoso libro a commento del primo dei sette processi per l’omicidio del commissario Luigi Calabresi avvenuto il 17 maggio 1972. Parole che «possono essere ripetute» anche per la vicenda di Franco Serantini, morto agonizzante in carcere a Pisa solo dieci giorni prima.
A sostenerlo è Michele Battini in un agile ma denso volume uscito per Sellerio «Andai perché ci si crede». Il testamento dell’anarchico Serantini (pp. 167, euro 16). L’accostamento ai fatti successivi alla strage di piazza Fontana, e alla morte di Giuseppe Pinelli (16 dicembre 1969), viene avanzato in prima istanza da «Lotta Continua» e da Adriano Sofri in un comizio del 13 maggio.
Del resto, l’anarchico sardo, cresciuto in orfanotrofio, poi in riformatorio a Pisa; studente e lavoratore, era un militante del gruppo «Pinelli» nato sull’onda della contro-inchiesta. Per la Corte di Assise di Milano, siamo nel 1990, questi fatti sono una prova che a Pisa è stato dato l’ordine di colpire Calabresi per fare giustizia dei due martiri anarchici.
Il tormentato esito dei processi, come noto, è stato duramente contestato. Prima di ricostruirla, o meglio di decostruirla, con gli strumenti dello storico, questa stagione Battini l’ha vissuta in prima persona. Ha preso parte agli scontri che infiammano la città toscana quel 5 maggio contro il comizio di Beppe Niccolai (Msi). È stato assolto in fase istruttoria. Infine, è stato testimone al primo processo per l’omicidio Calabresi. Amico di lunga data di molti protagonisti della storia che racconta, Battini scrive un libro consapevolmente non imparziale in cui la passione per il passato si coniuga con il più rigoroso metodo storico. Nella prima metà del libro la protagonista è Pisa.
Al centro del racconto ci sono le occupazioni universitarie; il capodanno della Bussola; gli scontri dell’ottobre 1969 e la morte di Cesare Pardini, ucciso da un lacrimogeno al petto. Quindi entra in scena Serantini. Rappresentante di una stagione in cui le agitazioni studentesche si incontrano con quelle operaie alla Marzotto e alla Saint-Gobain, l’anarchico di appena vent’anni partecipa al «mercato rosso» del Cep, respira il clima di una città in cui si diffonde l’operaismo e torna alla luce un’antica radice libertaria.
La violenza politica, argomenta Battini, viene considerata uno strumento legittimo solo quando è espressione dell’azione autonoma della classe operaia, e non come iniziativa di avanguardie isolate. A rendere più complicato il quadro contribuisce la convinzione condivisa nel movimento di dover reagire alla «strategia della tensione». Non c’è davvero niente di «inedito e originale» dunque nell’accostamento tra Pinelli e Serantini. Difficile davvero leggervi, per usare le parole di Battini, «una cospirazione alla luce del sole, anzi sotto la pioggia, di fronte a migliaia di persone».
L’analisi si chiude con una densa analisi di quanto accaduto dall’arresto sul lungarno Gambacorti al tentativo di occultare il cadavere per impedirne l’autopsia. L’autore ha avuto accesso all’archivio di Arnaldo Massei, avvocato di parte civile nella fase istruttoria. Ha ricostruito le tappe della vicenda fino alla sentenza del 1975, in cui si stabilisce il «non doversi procedere» nei confronti del medico del carcere e delle forze dell’ordine imputate di falsa testimonianza per aver cercato di nascondere i responsabili del pestaggio mortale.
Il pensiero non può che correre alle troppe morti in carcere, ancora negli anni Duemila. Dallo scavo degli archivi emerge una tragedia che ebbe cause diverse e distinte: l’accanimento micidiale delle forze di polizia durante e dopo l’arresto; l’inerzia della burocrazia carceraria; il cinismo o l’indifferenza di medici e infermieri. I fili rossi della storia politica e culturale si intrecciano con la vicenda giudiziaria, ma con esiti certamente più autentici, almeno dal punto di vista della storiografia.
ALESSANDRO SANTAGATA
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